Se tu parti alla ricerca della verità, impara soprattutto la disciplina dei sensi e dell’anima, affinché i desideri e le tue membra non ti portino ora qui ora là. Casti siano il tuo spirito e il tuo corpo, a te pienamente sottomessi e ubbidienti, nel cercare la meta che è loro assegnata. Nessuno apprende il segreto della libertà, se non attraverso la disciplina.
Dietrich Bonhoeffer – Resistenza e resa
Ci sono parole oramai impronunciabili senza che qualcuno si erga a censore inconsapevole: disciplina, rinuncia, sobrietà, impegno, sacrificio, responsabilità. Nella migliore delle ipotesi si viene stroncati con qualche battuta: “rilassati”, “goditi la vita”, “di cosa devi punirti?” e così via. Ma se il tentativo di disimpegno personale sollecita la giustificazione qualunquista, al polo opposto l’efficacia produttiva esprime disprezzo per tutto ciò che non è guadagno, volontà e azione. Sono parole come riposo, spiritualità, gratuità, contemplazione, lentezza, ascolto a suscitare scandalo. In questo caso dopo un “beato te che hai tempo da perdere”, spesso al fannullone di turno verrà fatto comprendere che il mondo si divide tra chi lavora e chi si occupa di niente.
Lavoro e riposo si completano, l’uno sostiene l’altro. Sono polarità. L’equivoco sulla disciplina esprime la stessa parzialità di sguardo di quello sul riposo. La ricerca di equilibrio tra l’una e l’altra cosa è un compito al quale tutti siamo chiamati a dare risposta. Ho compreso recentemente il valore del riposo, di quello mio personale, nel suo molteplice significato di tempo aperto, senza altro scopo se non quello di dare il tempo giusto ad ogni cosa per giungere a maturazione. È una lotta continua con tutto ciò che gli si contrappone, il senso del fare, del dovere, del programmare, dell’avere sistemato tutti i conti della spesa, anche quando ogni cosa è già sistemata. Ma quando ci riesco il riposo si presenta nella sua bellezza: è una sana solitudine anche nella condivisione, un abbandono nel tempo, un godere del rilassamento, del disorientamento non integrato, del fatto di esistere senza essere né qualcosa che reagisce, né una persona attiva con una direzione d’interesse. È la bellezza di stare adagiati nel mezzo della propria vita e contemplare ogni cosa senza attribuire continui significati a ciò che emerge, un sostare nell’ascolto, nella quiete e nella pienezza di un istante di coscienza. Il riposo è un diritto che non si contrappone alla disciplina, al lavoro, alla vigilanza o alla rinuncia, piuttosto ne è parte integrante, elemento necessario come la pausa di silenzio nella musica senza la quale non si genera discontinuità, quindi ritmo e melodia. Non è assenza ma piena presenza. È un diritto di tutti che però va conquistato.
Nei giorni estivi termina la didattica annuale della nostra scuola e torno chiedermi quale sia il senso del mio procedere, cosa va bene, cosa può essere migliorato, cosa deve essere chiuso e cosa aperto. Guardo i giorni trascorsi e li vedo bellissimi, leggeri e fluidi ma anche difficili e a tratti molto faticosi. Abbiamo fondato nuove sedi e nuove associazioni, chiuso progetti oramai esauriti ed aperto altri nuovi e più complessi, abbiamo chiarito le prospettive del nostro impegno, ampliato il nostro staff, curato la qualità dei progetti nonché fisicamente percorso molte migliaia di chilometri in viaggi. Insomma abbiamo lavorato molto e anche bene. Fermarsi quindi è necessario per riposare, fare il punto della situazione e riflettere sul suo senso. Cosa ci muove? Cosa motiva il nostro impegno come ricercatori, educatori, psicoterapeuti, insegnanti? Sono domande irrinunciabili che sempre più devono affondare nella realtà quotidiana di ognuno. Attendo ogni anno di vedere dove si approda e, in ogni caso, ho imparato ad agire nella leggerezza pronto ad accogliere qualunque cosa arrivi, convinto di quanto poco importi essere stanchi o riposati, contenti, tristi o arrabbiati quando si è fatto tutto ciò che era in proprio potere. Sono approdi conquistati, frutto di scelte e rinunce non semplici. Perciò si procede in leggerezza sorridendo comunque ma senza far finta che non ci sia stanchezza, fiduciosi di ciò che la vita porta. In un testo in ricordo di Edda Ducci leggo: “Tra le sue ultime parole ricordiamo la raccomandazione fatta ad un suo fedele collaboratore, in partenza per Torino a sostituirla in una tavola rotonda: « la vita è una cosa molto bella, molto importante, è un dono di Dio e di essa nulla va sprecato. Va e cerca di fare bene; parla più con il cuore che con la testa!»”. Nel 1996 ero a Milano per condurre un seminario e Paolo Menghi per telefono dagli Stati Uniti, dove era ricoverato per curarsi il tumore che lo aveva colpito, mi disse con un fil di voce: “La vita è una cosa bella è non va sprecata”. Mi disse di fare bene il mio lavoro per poter infine dire, a suo nome, questa semplice e importante verità a tutte le persone presenti. Non so quante persone oggi ricordino quella frase, forse qualcuno sarà anche rimasto deluso pensando “tutto qui l’insegnamento?”, ma per me come, sono sicuro, per qualcun altro dei presenti, fu importante sentirla: era reale, era un sí secco e definitivo alla vita, anche nella peggiore delle situazioni.
Considero questo il bene: essere dalla parte della vita sempre.
Credo che un educatore e un terapeuta non possano eludere la domanda: che cosa sia per loro il bene e il male. È una domanda che può avere risposte relative connesse alla propria realtà particolare: ciò che è bene e male per me in questa situazione; oppure in senso più generale: cosa è indiscutibilmente bene e male per me in qualunque situazione. Significa comunque prendere posizione attraverso un’attenta azione di discernimento che tenga conto del particolare come del generale. Chi si occupa di processi evolutivi ha il dovere, ma si spera anche l’esigenza, di essere onesto e sincero con i propri utenti. Nessuna crescita può avvenire al di fuori sia di un confronto schietto sia di una condivisione di prospettive, lasciando però l’altro libero di fare ciò che vuole con ciò che gli si dice e consegna. Sostenere la libertà di scelta dell’altro significa anche indurlo a prendere sul serio se stesso, la propria vita emotiva e relazionale, rifiutando, in tal senso, qualunque delega inappropriata. Significa creare le condizioni in cui è possibile manifestare onestà e sincerità nel rapporto. Sono buone occasioni per addestrare il proprio volere.
La vita è bella, è un dono e non va sprecata. Lo penso ogni giorno, e ogni sera mi chiedo quanto ancora c’è da fare e quanto spreco c’è stato. Mi chiedo cosa ho fatto e cosa invece ho evitato di fare e cosa sto costruendo con le mie azioni. Perciò cerco d’impiegare bene il mio tempo quando sono in presenza di qualcuno, sia che mi chieda sostegno e aiuto, sia che voglia solo dialogare. La sobrietà ha un duplice significato: essere svegli, con i sensi aperti e la mente lucida; essere misurato, senza eccessi e sprechi. Mi piacciono entrambi e sono un’ottima indicazione e un bel piano di ricerca per chiunque operi nell’umano.
Credo che le cose davvero importanti non siano molte e che non possano essere insegnate, piuttosto suggerite e sostenute con la propria testimonianza. Ritengo che la propria giornata possa essere resa bella e significativa per ciò che si è e ciò che si fa, nella semplicità di un quotidiano vissuto in pienezza e presenza. È un ritorno all’essenziale ed una lotta costante contro la dispersione. Chi mi chiede in cosa consista la mia ricerca rispondo, senza stancarmi, sempre la stessa cosa: vigilanza e apertura perché ogni giorno io abbia il tempo per fare cinque cose importanti.
Penso non sia ridondante ricordare quali siano:
- un tempo per il lavoro e lo studio
- un tempo per l’amore, gli affetti e le relazioni
- un tempo per il riposo, il nutrimento e la pulizia
- un tempo per l’arte e il gioco
- un tempo per la preghiera.
Quando viene a mancare definitivamente uno di questi tempi penso che la persona non possa stare bene; quando si eccede con il tempo di uno lo si toglie agli altri; quando si trova un giusto equilibrio tra un tempo e l’altro la persona non spreca la sua vita e sta bene.
Se si considera il male come la totale eliminazione dell’altro e dei suoi bisogni dall’orizzonte della propria esistenza nell’esaltazione dell’io, e il bene come la profonda dedizione all’altro nella rinuncia al primato del proprio io, pochi, se non unici, saranno gli esempi estremi di umanità appartenenti a queste due categorie, tra orrore e meraviglia, bestialità ed eccellenza. La maggioranza di noi vive piuttosto in una terra di mezzo dove le due possibilità si mescolano e a volte si confondono. Può capitare che di fronte a talune nostre azioni, il dubbio ci sorprenda rendendo impercettibile la frontiera tra ciò che è bene e ciò che è male, così un malessere profondo potrebbe destabilizzare ogni sicurezza, ogni posizione etica, ogni idea di salvezza. Cosa resta da fare quindi? Attendere di vedere i frutti, quale ricompensa ci aspetta o quale pena, quale danno o quale premio ci giunge, infine, per chi non lo ritiene una perdita di tempo, pregare “non abbandonarmi nella tentazione e liberami dal male”.
Durante l’anno a volte mi ritiro per qualche giorno in un piccolo monastero per cercare riposo nella compagnia di monaci cristiani, per il bisogno personale di ascoltare ed essere ascoltato, di condivisione nella comunanza e nella gratuità del dare e ricevere. Uno di loro, recentemente, alla mia domanda su cosa fosse la fede mi ha così risposto: prova a sostituire la parola fede con relazione e vedi cosa succede.
Gli sono grato per avermi ricondotto con semplicità a ciò che veramente importa.
La speranza è un dono, il credere di essere già salvi una menzogna.
La via della speranza si traccia percorrendola.
Buone vacanze e buon riposo a tutti.
(*) Psicopedagogista, direttore e fondatore del Centro Studi Educativi e Pedagogici “Periagogè”