A proposito di eccellenza

di Fabiana D'Onofrio *

In questi ultimi tempi la parola eccellenza è tornata al centro del mio interesse. A diversi livelli, personale e professionale. Servizio eccellente. Prestazione eccellente. Relazione eccellente. Professionalità eccellente.

Spesso nel mio lavoro mi soffermo su questo aspetto, con l’idea di trasferire ai miei clienti l’importanza di non accontentarsi e coltivare la capacità di andare oltre le loro più evidenti capacità. Ricercare l’eccellenza vuol dire porsi il problema del ben fatto, attraverso un atteggiamento consapevole e direzionato. Lo sperimento per me stessa, cercando di individuare nel quotidiano quel sottile confine che separa l’agire da una presenza piena e maggiormente qualificata. Con questo non mi riferisco a un concetto di eccellenza in senso assoluto, quanto piuttosto a una condizione di benessere consapevole che nasce dalla precisa coscienza di avere fatto tutto il necessario, nel rispetto di sé e nei limiti della situazione.

Meno spesso mi accade di osservare e cogliere l’eccellenza agita da altri nei miei confronti.
Il mio luogo di lavoro e di ricerca, come già detto in passato, sono le organizzazioni, dentro le quali si produce e si vende. Tra i miei clienti, multinazionali farmaceutiche, aziende commerciali, strutture di ricerca universitarie e alcune importanti aziende ospedaliere.

Di recente ho transitato per un paio di settimane in una di quest’ultime. Questa volta non da consulente, ma da utente. Un ricovero inatteso in una condizione di bisogno e di dipendenza, molto diversa da quella a cui ognuno di noi è normalmente abituato. Giornate trascorse a curarmi e a osservare i segnali deboli delle relazioni che attorno a me si andavano costruendo. Con una domanda in testa: cosa vuol dire eccellente? Quando una prestazione si può dire eccellente? Rassicurata dal fatto di trovarmi in un centro di eccellenza della sanità lombarda, curiosa e attenta osservo e provo a individuare di cosa è davvero fatta questa eccellenza.

In un recente scritto pubblicato su questo blog, Valeria Vicari ci fornisce interessanti chiavi di lettura riguardo al concetto di servizio, partendo da due principi potenzialmente contrapposti: produttività e servizio, appunto.

Per esperienza professionale, so che l’azienda ospedaliera è da tempi relativamente recenti considerata alla stregua di altre imprese. Parole come efficienza ed efficacia si fanno spazio tra quelle più consuete di cura, riposo, presa in carico. Appare dunque necessaria una sintesi che tenga insieme questa complessità.

Antonio Ricci nel suo recente articolo “Un tempo di riposo e di riflessione”, apre cogliendo un punto importante: “….. l’efficacia produttiva esprime disprezzo per tutto ciò che non è guadagno, volontà e azione”. Ne parla in riferimento alla necessità di guardare al lavoro e al riposo come due polarità in una ricerca di equilibrio tra l’una e l’altra, compito al quale, suggerisce  Ricci, siamo tutti chiamati a dare risposta.

Due piani, due livelli, due polarità. All’interno della struttura ospedaliera, osservo quanto mi accade intorno e come prima evidenza colgo tutta l’area delle competenze hardware. La scienza per così dire. Le analisi, le diagnosi, gli strumenti, i saperi scientifici. La struttura organizzativa, le procedure, le macchine. In poco più di tre ore la diagnosi è certa. Smistata nel reparto di cura adatto, iniziano gli incontri.

A questo primo livello se ne sovrappone un altro. Gli impiegati e gli operai della struttura, quelli addetti al servizio. Uomini e donne competenti nel loro lavoro. Con gesti esperti entrano, escono, comunicano, toccano e agiscono. La sensazione di essere l’oggetto del loro lavoro inizia a farsi strada.

Le differenze che esprimono mi iniziano ad apparire chiare. In tutti si coglie una certa consuetudine e abitudine per i gesti professionali. Nonostante questo, in alcuni casi l’eccellenza legata a quelle prestazioni è per me evidente. Provo a descrivere la sottile linea di demarcazione tra un lavoro ben fatto e uno eccellente. Tra una relazione operatore/paziente di qualità e una eccellente.

A colpirmi è la qualità della presenza, ancora una volta. La capacità di stare, distinguendo sé dall’altro, senza tuttavia escluderlo l’altro. Al contrario, la capacità di includere la persona con la sua sofferenza, senza esserne contaminato e travolto. L’indifferenza, come coglie bene Vicari, in risposta al contatto continuo con malattia e sofferenza, è il vero killer in una relazione di aiuto. Atteggiamenti fintamente leggeri ed evitanti tolgono forza  e allontano dalla possibilità che quella relazione agisca, insieme al resto, come cura. Sapersi quindi collocare in uno spazio preciso dove poter esprimere competenza intesa come sapere e capacità intesa come essere. L’eccellenza trova la sua espressione solo in presenza di entrambe queste condizioni. Il potere della cura si esprime nella relazione. I saperi scientifici costituiscono la condizione necessaria ma non sufficiente affinché l’eccellenza possa manifestarsi.

Il mio pensiero e la mia riconoscenza vanno a una donna, espressione di eccellenza umana e professionale. La sua capacità di essere presente senza ingombro, di saper attendere alla ricerca del gesto professionale più adatto, agito con precisione ma anche con cura, in modo tempestivo ma senza nessuna fretta. La sua capacità di intercettare una richiesta di aiuto e di tradurla in una risposta composta e al tempo stesso generosa. Il saper bilanciare la riflessione con il fare e l’ascolto con un uso accorto della parola.

In questo modo si esprime potere, inteso come la capacità di fare accadere le cose. Il potere della conoscenza che diventa valore e quello della consapevolezza che libera un potenziale e crea un incontro difficile da dimenticare.

In un altro recente articolo, Antonio Ricci, parlando della difficoltà di educare, formare e curare, identifica questi ambiti come :…“territori incerti colmi di trabocchetti dove conta l’esperienza e dove manuali e tecniche vincenti non possono aiutarti, anche se bisogna essere molto ben preparati e formati. Un mestiere difficile dove la propria umanità, anche se equilibrata e compaginata, non può bastare se non sostenuta da una solida preparazione professionale e accademica e dove le lauree e le specializzazioni sono insufficienti per operare con efficacia, se sul piano umano e relazionale poco si è fatto e coltivato”.

Polarità da tenere insieme dunque, senza gerarchie e classifiche, resistendo alla tentazione di privilegiare l’uno o l’altro aspetto, attraverso un atteggiamento di parte, utile solo a concepire la realtà come dimezzata, piuttosto che a saperne accettare la complessità e l’imperscrutabile ricchezza.

(*) Sociologa, formatrice e counselor. Titolare della Società Open Sky Formazione. E’ membro dell’equipe del Centro Studi Educativi e Pedagogici Periagogè, dove opera nel settore Formazione.