Manuale inapplicabile

Volontà di verità e veglia etica

di Antonio Ricci

“Resta con noi, perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. (Lc 24,29). 

L’esperienza e il tempo rendono migliori molti mestieri: aumenta la conoscenza, si approfondiscono gli studi, si raffinano le competenze. Nei mestieri d’aiuto, come quello pedagogico e psicologico, la ricerca educativa e clinica può andare più in profondità, gli interventi professionali possono diventare più efficaci e autentici. Sono bei lavori che riconoscono l’insostituibilità dell’esperienza, l’importanza quindi della persona per ciò che è insieme a ciò che sa fare. Persona e funzione non essendo equiparate, mantengono la giusta sproporzione di valore a vantaggio della prima: la funzione è sempre sostituibile, la persona no. Cresce perciò la conoscenza, si fa più qualificata la competenza, aumentano i saperi e si raffinano le tecniche. Si diventa esperti. Eppure a tutto questo può accompagnarsi un crescente senso di disagio. Riguarda la natura del proprio saperea che mi serve tutto ciò? Quanto davvero conosco di me? Quanto davvero conosco dell’altro? Dove voglio condurlo? Quanto posso e devo incidere? Ne nasce un sentimento ambivalente, apparentemente irrisolvibile, tra tale dubbiosità disorientante e la solidità dell’esperienza; si assiste interiormente ad una inarrestabile danza tra eccedenza e formapiù si conosce e maggiore è la sensazione di non sapere davvero nulla d’importante e d’essenziale; più si contatta un non senso e la propria sostanziale ignoranza, e maggiore diventa il bisogno di codificare e comprendere.

In campo umanistico la realtà della propria insufficienza spesso aggredisce le proprie certezze, spinge all’umiltà e a non dare nulla per scontato, costringendo così a studiare ancora, guardare, ascoltare anche quando si avrebbe voglia di fare tutt’altro, costringe a prendere posizione, a dare proprie risposte e a generare forme pur nella certezza della loro provvisorietà. Prende posizione chi ha contattato il profondo non senso di ogni rigida posizione teorica, di ogni ideologia, di fronte al debordare dell’eccedenza umana. È una crisi inevitabile quanto sacrosanta, che Mounier dichiara essere costitutiva della persona: non so più quale sia il mio posto nell’universo e quale gerarchia stabile di valori può quindi guidare le mie preferenze.[1] È una condizione che tocca il fondo della propria umanità e chiede di comprendere davvero, trascendendo il campo culturale, sociale, economico. Ma in questa condizione di crisi di riferimenti e d’identità, si libera uno spazio occupato da teorie, pregiudizi e convinzioni ideologiche, e qualcosa d’importante può finalmente emergere come dato di coscienza e totalità corporea: si sperimenta il limite della propria tolleranza. Ciò che si tollera o non si  tollera non è più un fatto impersonale, ideale e relativo, c’è per me dell’intollerabile.[2] È proprio il debordare di tale eccedenza a generare la necessità di conoscenza e di discernimento dei valori, la necessità di dargli una forma, di renderla dicibile ed orientabile. È un disagio utile, una buona salvaguardia contro l’irrigidirsi di ogni sapere. Come risposta alla crisi emerge il criterio dell’impegno, il bisogno di schierarsi arrischiandosi di prendere posizione.

Emerge la propria differenza, nell’accettazione del limite e nella fedeltà alla direzione scelta.

Abbiamo bisogno di formarci con molta cura per non procedere casualmente nelle nostre relazioni educative e cliniche, per non essere guidati dai nostri automatismi inconsapevoli, dalle nostre ideologie occulte, manie e pregiudizi, dalle nostre perversioni, credenze e lealtà familiari. Abbiamo bisogno di riferimenti chiari dai contorni ben definiti, di principi guida e metodi d’intervento appropriati. Abbiamo bisogno sia di cultura qualificata, sia di scienza, sia di formazione personale e ampiezza di ricerca. Abbiamo bisogno di riappropriarci della nostra interiorità ed essere capaci di silenzio, di sospensione del giudizio, di raccoglimento e discernimento. C’è qualcosa nell’umano che non si lascia incastonare, che vuole espandersi o dilatarsi a suo piacimento, che non vuole essere colto e catturato, che è continuamente sfuggente e di natura inesprimibile. Spirito puro che non si sottomette. Eppure se questa natura potesse andare fino in fondo a tale orientamento finirebbe nel caos, farebbe nascere un terrore infinito, negando qualunque possibilità di costruzione, continuità e riconoscibilità. Nell’esistente che si manifesta, nella nostra vita concreta quindi, non esiste un’eccedenza pura e perché vi sia una possibilità di azione deve esserci un minimo di forma e di ordine. Il rapporto tra la forma e l’eccedenza è dialettico. La vita cerca forma: dal caos aspira all’ordine, alla regolazione, al rendersi comprensibile e viceversa. Cresce la forma e diminuisce il caos. Nell’eccedenza pura non vi è sosta, nella forma irrigidita vi è morte. Questo è il principio regolatore di ogni genesi evolutiva, di ogni apprendimento, di ogni cambiamento e crescita. Impedirlo, esasperarlo o bloccarlo equivale a danneggiare un’umanità. Inserirsi in esso consapevolmente con delicatezza, attenzione e competenza è un atto di responsabilità. Romano Guardini la definiva teoria degli opposti polari, o principio enantiologico, sulla quale ha fondato la sua riflessione filosofica del concreto-vivente.[3] Riflessione complessa quanto reale.

Come possiamo applicarla ai processi educativi e clinici?

Paolo Menghi definisce il processo terapeutico come tentativo di aiutare la persona ad individuarsi all’interno delle sue relazioni nella dialettica tra differenziazione unione.[4] Equipara inoltre il processo d’apprendimento a quello terapeutico, in particolare nella formazione dell’educatore e del terapeuta, rintracciando in esso la stessa esigenza d’individuazione, dapprima nella relazione con i suoi colleghi e familiari, poi con i suoi clienti. Laddove l’esigenza ultima formativa risiede nel conferire spessore umano e consistenza al sapere, affinché esso possa servire per operare un reale cambiamento in se stessi e nella relazione con gli altri. La spinta al cambiamento l’imprime la sofferenza, quindi il tentativo di superarla, qualunque sia la sua forma. L’illusione che il saper fare sia la soluzione ultima, per coprire la paura di manifestare chi si è, prima o poi si scontra con l’evidenza del suo fallimento, ma può non bastare e così la convinzione e la sofferenza permangono: sto male perché non so che fare e non riesco a capire, perciò spiegami, insegnami, curami, ma toglimi questo disagio, questa paura e questo dolore. In totale onestà, a parte l’iniziale contenimento all’angoscia che qualche spiegazione può dare, nulla davvero cambia rispetto alla sofferenza: nessun sapere può bastare. Nel processo clinico e d’apprendimento si giunge ad un punto in cui non c’è più qualcosa che si deve capire ma piuttosto qualcosa che si deve agire non agire in coerenza con quanto si è già compreso. Non è più un problema di competenze e conoscenze ma di coraggio. Accettare questo è già un profondo cambiamento.

La quiete che ne può derivare è il risultato di una resa profonda alla vita e non l’annientamento di una polarità negativa, cesura che ha il solo fine d’ottenere un paradiso amniotico ed illusorio, privo d’attriti e ostacoli. C’è un’idea di equilibrio, purtroppo molto diffusa, che ritiene si possano raggiungere pace, armonia, benessere tentando d’eliminare ogni attrito. È un’idea fallimentare quanto irreale, contraria alla idea stessa di vita e crescita, alibi frequentemente usato per evitare scelte, per non affrontare contraddizioni e ambiguità. Il proliferare di proposte risolutive a buon mercato sono convinto risieda in quest’illusione: dalla droghe legali della farmacopea psichiatrica, alle droghe illegali di quella delinquenziale; dalla pedagogia ultra sapiente per genitori sempre perfetti e competenti, alla psicoterapia onnipotente e risolutiva; dalle tecnologie di programmazione neuronale, alle svariate proposte di corsi infallibili per diventare felici, sani e santi; dalle religioni messianiche occidentali della salvezza, alle ideologie esoteriche orientali dell’illuminazione.

E l’uomo e la donna reali dove sono? Dov’è la persona nella sua misteriosità, dignità e irripetibilità? 

Mi rendo conto di quanto possa essere inattuale in questo quadro di scorciatoie, spesso frutto di un marketing del benessere molto ben congeniato sulle debolezze e insicurezze delle persone, fare una proposta educativa, clinica e pedagogica che chieda a se stessi e all’altro di prendere totalmente sul serio la propria esistenza. Le contraddizioni non affrontate e le polarità non accolte generano sofferenza. Apprendere a distinguere l’una dall’altra realtà, sostiene i processi decisionali e di cambiamento.

Partiamo da un dato di realtà: nessuno sceglie la sofferenza piuttosto ognuno cerca di superarla a modo suo e non c’è ragione al mondo che possa aiutarci a giustificarla. Il dolore psichico rimarca unicamente l’urgenza e la serietà di trovare un senso, il proprio, quand’esso sfugge di fronte all’esperienza di qualcosa d’intollerabile, brutto, incomprensibile o disgustoso che sia. Togliere questa possibilità di comprensione alla persona significa danneggiarla intimamente nella sua umanità e nella sua necessità di crescita. Ben vengano quindi il disorientamento, l’angoscia, il disagio, la vergogna, l’imbarazzo, il senso di colpa, il sentirsi indegni: sono sentimenti reali dei quali occuparsi ed occasioni per comprendere e comprendersi.

Eccedenza e forma, essere e voler essere, sapere e voler sapere, non sono realtà in contraddizione, non si annullano reciprocamente ma sussistono l’una rispetto all’altra. Il Guardini pedagogo e magister, a tale proposito, prende una chiara posizione dichiarando quale sia per lui l’esigenza educativa emergente ed indica una strada: promuovere l’equilibrio dinamico delle forze che nell’uomo sono in tensione tra loro e, al contempo, l’armonia tra i diversi livelli della persona e dell’esistenza, unificati da un centro in stato di continua veglia etica, la coscienza, che è presente e operante in ogni momento e dimensione dell’esistenza. Il fulcro è la responsabilità totale. Promuovere degli atteggiamenti etici che favoriscano la consapevolezza della propria interiorità. Far crescere nell’uomo una volontà di verità che permetta di rendere giustizia alla realtà così com’è.[5]

Le voci autorevoli di Ricoeur e Mounier ci fanno fare un salto ulteriore sul piano sociale, in perfetta sintonia con la proposta guardiniana: rinunciare al sogno infantile di una società priva di conflitti, che al suo opposto sarebbe colma di non rapporti, di relazioni indefinite, legami indifferenziati, abusi e sofferenze sorde ad evitamento di ogni possibile contraddizione e attrito. Propongono perciò la “costruzione di una società che dia ai conflitti i mezzi per esprimersi e crei procedure, riconosciute da tutti, in grado di renderli negoziabili”.[6]

Torno alla domanda iniziale: a che mi serve tutto questo sapere?

Il mio compito, come persona prima e come educatore poi, risiede all’interno di tale esigenza educativa e il problema che mi pone è complesso e reale: la formazione della coscienza, prima di ogni benessere, culto, cura e ideologia. La prospettiva di una responsabilità totale è ciò che più inquieta e impegna, e va di pari passo con l’altra proposta, altrettanto difficile e inattuale: far crescere nell’uomo una volontà di verità che permetta di rendere giustizia alla realtà così com’è, anche se a volte essa può essere insensata, dolorosa, conflittuale e contraddittoria.

In tal senso siamo tutti impegnati.


[1] Cfr. E. Mounier, Qu’est-ce que le personnalisme, in Ouvres, Seuil, Paris 1961.

[2] Cfr. P. Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia, 1998.

[3] Cfr. R. Guardini, Opera Omnia  – Scritti di Metodologia Filosofica, Morcelliana, Brescia, 2007.

[4] Cfr. P. Menghi, Trasformare la mente – Seminari di Normodinamica, Ubaldini Editore, Roma, 2009.

[5] Cfr. R. Guardini, Mondo e persona, Morcelliana, Brescia, 2007.

[6] P. Ricoeur, op. cit., pg. 33.