La malattia spirituale e le radici della violenza

di Antonio Ricci *

Ferdinand Ebner, maestro dialogista del ‘900, riconosceva nella totale autoreferenzialità dell’io la malattia dello spirito per eccellenza. Per definirla coniò un neologismo: Dulosigkeit, mancanza di tu dell’io. Vedeva la coscienza dotata di una duplice natura, di “io” (Ichhaftigkeit) e di “tu” (Duhaftigkeit), ed affermava che essa avrebbe potuto formarsi solo con la relazione, per la relazione e nella relazione.[1]

Ebner fu tra i primi ad intuire tale verità: siamo per struttura esseri dialogici dotati di parola e la relazione è costitutiva dell’essere, così come le cellule lo sono della materia. Fu una grande e silenziosa rivoluzione, nel mentre esplodevano le due grandi guerre mondiali dove “l’altro” si aveva il diritto di concepirlo come nemico, carne da macello, numero, ostacolo, oppure come complice o alleato, difficilmente come prossimo. Ebner ribadisce invece un semplice principio: senza l’altro la nostra umanizzazione non può procedere. L’effetto che ha dichiarare tale “fatto” alla luce delle trincee, dello sterminio nazista, dei gulag è equivalente a quello che può avere oggi dichiararlo di fronte alle più recenti pulizie etniche della guerra dei Balcani, ai massacri in nome di Dio o della democrazia esportata. Evidenzia un’inquietante verità: non siamo capaci di trovare una strada alla convivenza civile nel rispetto di tutte le differenze e ci affidiamo infine alla violenza. Purtroppo nulla è cambiato e una cosa è certa: è una forza “debole” che non si afferma per diritto ma in virtù di una scelta responsabile. Senza cibo perisce il corpo, senza relazione muore la coscienza e quindi l’umanità.

Cosa diventano un uomo e una donna senza coscienza?

L’io s’inaridisce e per paura arretra su fronti sempre più meschini e superficiali, sviluppando significati di vita angusti e autoreferenziali, tra la cattiveria, l’abbrutimento e la ricerca di potere sull’altro; altro che diviene minaccia e ostacolo. Ci si ammala di isolamento e disprezzo per gli altri, d’impotenza e d’ottusa mancanza di prospettive di vita. L’io cresce in onnipotenza e diminuisce in consistenza; tanto più occuperà la scena con le sue certezze  e minore sarà l’ampiezza dello sguardo e la profondità del pensiero; più vorrà definire il mondo a partire da sé e più la realtà apparirà confusa, tronca ed insufficiente. Che speranza può mai dare un io cieco e autoreferenziale? Nessuna. La natura della coscienza è duale e l’io da solo non può farcela. Questa è la malattia dello spirito: negazione del bisogno di un tu.

Quali visioni del mondo, della vita e dell’uomo ne possono derivare? Azzardo un’ipotesi: un mondo unidimensionale fatto di certezze e di pretese, sorrette dall’evitamento di qualunque confronto. Proviamo quindi a guardare attraverso questa lente dialogica la realtà quotidiana per come si manifesta.

Se l’obiettivo dell’io diviene quello di evitare confronti che possano minacciare la sua fragilissima versione della realtà, l’altro andrà allora eliminato dal proprio orizzonte, per azzittirlo, controllarlo, convincerlo o sottometterlo, perché inquieta, fa domande, interroga, perché ama, odia e vuole quanto e più di noi. Sarebbe bello se fosse solo una metafora intrapsichica e relazionale, ma basta aprire i giornali per capire che non è così: continui elenchi di soprusi, omicidi, violenze, stermini. Difficile fare una classifica: a che posto mettiamo la violenza di qualche pio uomo che lancia acido in faccia ad una donna perché non indossa l’Hijab, il velo islamico? E l’aggressione fisica fino alla morte di un senza tetto da parte di adolescenti indifferenti e benestanti? L’uccisione a botte da parte della polizia di un ragazzo colpevole di essere nero di pelle o tossicodipendente? Che dire infine dello sterminio sistematico di minoranze religiose o la morte in mare di uomini donne e bambini in barconi putridi, lasciati soli perché clandestini, quindi colpevoli di cercare una speranza? Quali ragioni filosofiche, giuridiche, religiose o politiche si possono sollevare? Moltissime, basta non avere una coscienza. Il manicomio come il carcere hanno avuto in passato questa funzione e continuano ad averla:  controllare la voce del diverso, interrompere e rendere innocuo il suo discorso, nascondere la propria responsabilità, deviare la violenza, impedire che si facciano nessi tra il proprio operato, il proprio privilegio, la malattia o lo svantaggio dell’altro. Scollegare, dividere, sezionare, negare, annientare per tenere in piedi il privilegio di pochi sulla miseria di molti.

Affrontare per incontrare è al polo opposto dell’interagire per eliminare. In tal senso, sbilanciati nella seconda possibilità, si può diventare del tutto simili nelle intenzioni a delinquenti mafiosi, pur senza commettere crimini. La relazione che vuole affrontare per incontrare non esclude il confronto e non rifiuta lo scontro, mantiene però ferma l’intenzione di edificare ed esclude ogni forma di violenza; chi invece vuole interagire per eliminare ha come unico obiettivo quello di dominare, perciò ben venga lo scontro, violento e prevaricante, ben venga la paura, l’omertà, l’impotenza giustificatoria, la superficialità ed ogni ideologia del mio contro il tuo. Esiste una mafia che è più subdola e invisibile di quella che compie crimini, perché è un’attitudine alla negazione dell’altro e dei suoi diritti nell’affermazione unidirezionale dei propri.

Chi conosce le lettere dal carcere di Dietrich Bonhoeffer,[2] ricorda il travaglio di quest’uomo nel valutare se fosse lecito o meno uccidere anche una sola persona, anche se lo scopo fosse quello di salvare l’intera umanità. La persona era Adolf Hitler e lo scopo era quello di salvare milioni di vite. Giunge ad una conclusione, condivisibile o meno: poteva concepirlo solo a patto che lui pagasse altrettanto con la propria vita. Donare la vita per la vita.  Fallì l’attentato e fu impiccato assieme ad altri congiurati tedeschi.  Ma se possiamo sentirci nei fatti molto lontani sia dall’assassino mafioso che dal santo, e quindi da ogni possibile iperbole delinquenziale, psicotica o sacrificale, non possiamo però dirci immuni dalla Dulosigkeit, produttrice di sofferenza e disperazione.

In molti adulti c’è un’insicurezza irrisolta, un narcisismo disperante che può disgustare, un’avidità e un’invidia senza fondo mai affrontate, un egocentrismo maniacale senza senso, bisognoso di riconoscimento infantile e di continue insulse vittorie; sono malattie che in parte potrebbero essere affrontate con gli strumenti educativi e psicologici a nostra disposizione. Eppure è chiaro che la battaglia si gioca su un terreno perdente, perché ciò che andiamo “curando” viene al suo opposto incentivato socialmente, frutto di una cultura predatoria dell’azione e del profitto, dell’efficacia senza etica in quanto più conveniente e più produttiva. Così abbiamo la clinica che cura ciò che la società incentiva: una schizofrenia solo apparente. In fondo è come avere un’officina sempre pronta a riparare i danni, disponibile a dare buoni consigli per una miglior utilizzo e in grado di restituire la macchina funzionante ed efficiente come prima. La crisi rientra, il dolore s’attenua, le domande svaniscono, il disagio si diluisce, la paura comanda e la coscienza torna ad inabissarsi.

Le leggi del mondo contro le leggi del cuore, senza alcuna soluzione: se la situazione non si può cambiare allora che cambi la persona, quando poi si rompe si può sempre aggiustare, altrimenti si butta. Un meccanismo perverso che non accetta alcuna critica radicale, forse qualche lamento, qualche buona intenzione, buone azioni da un giorno, ma il gioco non si cambia. Eppure, almeno a parole, tutti concordano sul valore assoluto della persona  e della coscienza. A parole, ma nei fatti e tutt’altra cosa, tranne che in alcuni ristretti baluardi: nel mondo educativo libertario, nel cristianesimo delle origini, nell’umanesimo buddhista, nel discorso psicanalitico lacaniano, nella pedagogia dell’incontro o nel pensiero politico di Mounier o Foucalt, solo per citarne alcuni. Un adattamento indotto per far tollerare una realtà intollerabile lo si paga a caro prezzo: abbassando il livello di coscienza. Chi invece tollera la sofferenza e indaga il valore della propria intolleranza per ciò che lo degrada, umilia o annienta, innalzerà la sua coscienza pagando un prezzo altrettanto alto in termini di solitudine, ma ricevendone in abbondanza altrettanta dignità e libertà, nonché senso e prospettive di vita.

L’uomo etico è un uomo responsabile che agisce secondo coscienza ed ha lo sguardo apertamente rivolto all’altro. L’uomo egocentrico e narcisista, lo psicotico socialmente giustificato e adattato è al contrario indifferente al destino di chiunque tranne che al proprio e, forse, a quello dei suoi più diretti affetti; non ha sue vere opinioni ma si serve d’ideologie al momento vincenti; non pensa troppo ma agisce rapido ed efficace; considera gli altri suoi strumenti quando non li disprezza, ma se toccato nei propri interessi è capace di molte cose per togliere l’ostacolo, fin’anche di uccidere. Se poi comanda un’intera nazione…Spero davvero si possa far qualcosa.

La Duhaftigkeit apre ad una riflessione sulla maturità della coscienza e, secondo Ebner, impone un’attenzione in termini esistenziali e spirituali su due fronti di rapporto, con l’altro e con Dio, rimanda infine alla natura psicologica della relazione. Sappiamo quali gravissimi danni può subire un bambino che non ha avuto cure amorevoli e adeguate. Le basi per la capacità d’amare e il senso di essere amati, di stringere amicizie significative, di concepire una vita sociale orientata all’altro, si costruiscono nei primi tre anni di vita e sono frutto di relazioni importanti. Cosa serve ad un individuo, in termini psichici, affinché sia capace di relazione?

Daniel Stern, psicoanalista svizzero che ha impegnato la sua vita nella infant-research, ha studiato a fondo la questione arrivando a definire la genesi evolutiva del sé in termini relazionali a partire dall’interazione precoce del neonato con la madre. La scuola sistemico-costruttivista, alla quale Stern apparteneva, afferma che le primissime strutture di coscienza del neonato non possono prescindere da questa interazione precoce, dal cui buon esito dipende la salute psichica e la capacità sociale del bambino. La funzione materna, (che, in mancanza della madre naturale, può essere svolta anche da un sostituto, detto care-giver, in grado quindi di prendersi cura del bambino in maniera altrettanto amorevole, dedicata e continuativa), ha un ruolo fondamentale, in quanto deve proporsi come tu di un io che ha il compito di arrivare a riconoscersi in quanto tale, quindi come entità separata e capace di relazione con gli altri e con il mondo.

Stern ha rintracciato quattro livelli di sviluppo del sé: sé emergente, sé nucleare, sé soggettivo, sé verbale[3]. Il sé emergente è il risultato di una primissima forma d’apprendimento dalla nascita ai due mesi, che fornisce il senso di una organizzazione che va  strutturandosi  e che rimarrà attiva per il resto della vita. In questa fase gran parte delle  interazioni sociali sono al servizio delle regolazioni fisiologiche. Nella seconda fase, tra i tre e i sei mesi, comincia a strutturarsi il sé nucleare: nel bambino emerge la prima chiara differenza tra sé e l’altro attraverso quattro distinte esperienze.

  • la sensazione di essere autore delle proprie  azioni, d’avere volontà, controllo e aspettative di causa ed effetto: sé agente.
  • La percezione di essere un’entità corporea intera, non frammentata, sede di un’azione integrata provvista di confini: sé dotato di coesione.
  • L’avvertire la presenza di stati intimi aventi qualità affettive ed emotive organizzate: sé affettivo.
  • Il riscontrare una regolarità nel flusso degli eventi, quindi il senso della durata e della continuità con il proprio passato: sé temporale.

Il senso del sé nucleare risulta quindi dall’integrazione di queste quattro fondamentali esperienze in una prospettiva sociale e da esso dipende la vita relazionale presente e futura di ogni individuo.

La madre è il tu dell’io che si sta formando, così come il bambino è il tu dell’io della madre che sta imparando ad essere tale. Il bambino giunge così, tra il settimo e il nono mese, a rendersi conto di avere una mente distinta dagli altri, dotati a loro volta di propri pensieri ed emozioni a lui non immediatamente accessibili: il sé soggettivo. Può quindi condividere se vuole l’esperienze soggettive della sua vita interiore e i contenuti della sua mente. Appare l’intersoggettività e il bambino si accorge che gli altri non pensano e sentono le sue stesse cose, che però possono essere comunque condivise e fatte conoscere comunicandole con i gesti, con le azioni, con le parole: il sé verbale.  In questa meravigliosa danza fin dall’inizio l’uno istruisce e ascolta l’altro e contribuisce alla sua crescita, nella reciprocità. La relazione intersoggettiva viene edificata sulle fondamenta della relazione nucleare: questa, che ha permesso una distinzione fisica e sensoriale del sé e dell’altro, ne costituisce la premessa necessaria, poiché il condividere esperienze soggettive non avrebbe alcun significato senza la previa e salda organizzazione  dell’esistenza di un sé e di un altro separati e distinti. La relazione intersoggettiva trasforma il mondo interpersonale, la relazione nucleare al contrario perdura e non verrà mai spodestata da alcun evento: è la base esistenziale delle relazioni interpersonali.

Dialogismo e strutturalismo sono concordi sul medesimo principio: la coscienza è relazionale.

Quando nel secondo anno di vita compare la parola il processo di costruzione  del sé fa un salto qualitativo enorme, perché aumentano i modi possibili di “essere con” un altro. Eppure, assieme a quest’ampliamento, qualcosa va perduta per sempre, infatti l’esperienza  che ha luogo nei campi di relazione emergente può essere fatta rientrare solo in modo parziale nel campo della relazione verbale. Il linguaggio produce una separazione dell’esperienza del sé e sposta l’esperienza della relazione dal livello immediato e personale, tipico degli altri campi, al livello impersonale e astratto proprio del linguaggio stesso: tra l’esperienza vissuta e quella rappresentata si genera una divaricazione e la difficoltà a comunicarla a noi stessi e agli altri cresce enormemente.

La presenza di una struttura psichica ben funzionante, prepara quindi ad essere uomini e donne adeguati ad affrontare il mondo, disponibili a comprenderlo, pronti per costruire con esso il rapporto che si preferisce, ma non definisce la qualità e l’intelligenza di tale rapporto, né tantomeno il successo, la direzione, l’etica e la felicità della propria esistenza. Nessuna pedagogia, né psicologia o filosofia, può in tal senso determinare con assoluta certezza cosa è “giusto fare”, piuttosto tutti e tre gli ambiti, nella prospettiva di collaborare all’edificazione dell’individuo, possono tentare di comprendere chi siamo e il perché del nostro agire, proponendo buone pratiche e mettendoci in guardia sugli errori possibili. Ciò che conta è l’ampliamento del nostro sguardo in profondità e ampiezza e che venga ridotto il margine d’ignoranza, e quindi di paura e pregiudizio, che spesso anima le nostre azioni. La possibilità di diventare veramente umani, ricade comunque nella sfera esistenziale della responsabilità personale ed è frutto dell’inestricabile intreccio tra libertà e necessità. Questa è l’età adulta.

Se quindi la malattia psichica può avere le sue radici in fattori ambientali, genetici o relazionali rintracciabili in particolar modo nella storia precoce della persona, la malattia spirituale, nell’ottica ebneriana, riguarda la vita adulta  e responsabile e parla di scelte, interiorità ed esperienza soggettiva.

La cura è possibile su entrambi i fronti anche se la guarigione non è mai certa. Nel primo caso sarà compito della psicologia e della pedagogia, attraverso la corporeità, l’atto riflessivo e l’esperienza; nel secondo  caso sarà compito della pneumatologia attraverso la parola e l’amore.

[1] Cfr. F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, San Paolo, 1998.

[2] Cfr. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Edizioni San Paolo, 1988.

[3] Cfr. D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, 1987.

* Antonio Ricci, psicopedagogista, presidente e fondatore della scuola Periagogè.