Divagazioni irriverenti per persone desideranti.
“Ogni vittoria è più o meno una menzogna. Ci tocca solo in superficie, mentre una sconfitta, pur minima, ci colpisce in ciò che vi è in noi di più profondo, dove baderà a non farsi scordare, così che possiamo, qualunque cosa succeda, contare sulla sua compagnia”. E. Cioran – Al culmine della disperazione
“Se non fossi in collera ti avrei già ammazzato”. Plutarco – Vite di Sparta.
Nel nostro incontrarci a volte ci accorgiamo, con fastidio, dolore o rabbia, che il conversare procede insicuro, sballottato come una barchetta di carta in un fiume, tra un distratto ascolto, una sospettosa disponibilità, un bisogno di consenso ed una approssimativa esposizione. Le parole fluttuano e spesso si perdono senza arrivare al cuore di chi ascolta. A volte l’incontro naufraga zuppo di opinioni superficiali e pregiudizi rigidi; qualche volta approda in un luogo asciutto, caldo di pareri e pensieri che edificano. Devono accadere molti naufragi per desiderare qualche sicuro approdo di senso. Devono accadere molte cose prima che il campo della comunicazione si liberi da impedimenti gravosi. L’incontro a volte sembra un miracolo, ma perché possa manifestarsi è necessario uscire dalla propria zona di sicurezza e accettare che l’altro ci tocchi e ci trasformi.
Individuazione, destino e libertà.
Socrate rivela ad Alcibiade che l’età adulta consiste nel passaggio dall’essere desiderato ad essere desiderante. Due movimenti dell’anima ben diversi il cui motore è l’eros, la forza d’attrazione; la cui meta è la relazione; la cui differenza sta nel dinamismo di chi cerca e si muove verso, e di chi vuole essere solo cercato e perciò rimane fermo lì dov’è. L’età adulta per Socrate è un tempo nel quale donarsi, passando dall’attesa di essere esauditi da qualcuno, che può diventare pretesa, alla condizione progettante del desiderio che diventa volontà. È il tempo in cui si esce di casa, tentando di comprendere come il bisogno di entrambe le cose ci condizioni; cercando un sano equilibrio tra l’essere desiderato e desiderante, certi che la caduta esclusiva nell’una o nell’altra sfera faccia ammalare. Sono movimenti d’individuazione, la linea più aperta e lontana dell’orizzonte evolutivo; è la paideia, la dimensione di perfettibilità umana. Il termine viene da paideuo, nutrire, allevare e, secondo Edda Ducci: “indicò e indica, in modo raffinato e appropriato, la dimensione di perfettibilità dell’uomo, quel suo enigmatico poter diventare ciò che è, la capacità di raggiungere quella misura che è sua ma che nessuno può da fuori, prevedere, oggettivare, o, tanto meno, stabilire, in una parola quel fascio di energie che costituisce il suo mistero e il suo dramma. Per questo il termine paideia impone rispetto e generà stupore. […] Con una certa libertà lo si può rendere con educabilità. Cosa saggia è lasciarlo nella sua forma originaria”. [1]
Per non perdere tale orizzonte abbiamo quindi bisogno di tracciare continue coordinate che, a partire da dove crediamo di essere, si slancino in ogni direzione in attesa che tornino a noi per darci la reale misura di dove siamo. Come? Attraverso tutte le nostre relazioni, cioè persone presenti o passate incontrate sulla nostra strada. Le coordinate? Emozioni, sentimenti e significati che l’esperienza della relazione ci ha riconsegnato e ancora ci riconsegna.
Quando, nel bene o nel male, non possiamo ignorare qualcuno, dobbiamo accettare il fatto che sia entrato nella nostra vita e che ciò ci sta cambiando. Che posto dargli, perché, e in che rapporto possiamo metterci, sta nella nostra libertà di scelta, direttamente proporzionale alla libertà interiore realmente posseduta. Ogni cosa che accadrà parlerà di sé, dell’altro e della relazione. Ignorare ciò vuol dire negare l’unica strada che abbiamo per non morire soffocati dalla paura e da noi stessi, delirando un’esistenza completamente sotto il nostro controllo.
Voler piegare il proprio destino alla propria volontà, afferma Jung, è una forma di onnipotenza e di arroganza, così come il voler evitare i compiti che il destino c’impone è segno di un’enorme pretesa, nella perenne richiesta di risarcimento e di accudimento infantile. Siamo collocati esattamente nel mezzo tra necessità e libertà. Chiamati sia alla resa, sia al combattimento, siamo obbligati a comprendere quando è opportuno opporsi e combattere e quando invece è necessario fermare ogni azione contraria: combattere per imprimere la propria direzione e dare forma alla vita senza imbrigliarla; arrendersi per diventare completamente recettivi e accettare la forma che la vita ci ha dato e ci sta dando, senza subirla. Ampi, flessibili e recettivi. Discernere per scegliere. In continuo contatto con forze di diversa natura e potenza sappiamo che alcune di esse vanno dirette e cavalcate, altre accolte e trasformate, altre ancora seriamente evitate. Perciò è necessario guardare e ascoltare, perciò è necessario sapere riconoscere tali forze per quello che sono e per l’effetto che hanno su di noi. Abbiamo bisogno di sapere per trasformare.
La conoscenza di sé è la condizione sine qua non per prendersi cura di sé, anche se molte persone si fermano a questo primo stadio: sanno molte cose su di sé ma non hanno alcuna intenzione di prendersene cura. Sapere non basta poi bisogna agire.
Dialogare è stare sulla soglia dell’incertezza
Nel lavoro educativo ciò che importa non è stabilire una verità moralmente onesta, ma un filo narrativo a più dimensioni, che ci riconsegni una versione della realtà abitata sia dalle apparenti evidenze dei nostri sensi e dalla logica delle nostre convinzioni, sia dalle ombre profonde, a volte confuse e contraddittorie, del mondo inconscio. Ciò che importa sono i significati che assumono, nella realtà soggettiva, i dati sensoriali e cognitivi assieme a tutte e le contraddizioni, le alterazioni e le irruzioni dell’inconscio, e come tutto ciò operi nel nostro rapporto con la realtà e nella costruzione dell’identità.
Ciò che importa è la soglia, il punto di rottura tra ciò che riteniamo certo e tranquillizzante e ciò che sfugge e inquieta.
Quando a circa due anni di età emerge la funzione simbolica, e quindi il bambino comincia a parlare, qualcosa si conquista e qualcosa si perde. La capacità di mettere in parola l’esperienza apre al mondo della relazione e consente di condividere significati con altri, ma al contempo fa perdere parti della nostra esperienza personale profonda e immediata, perché divengono difficilmente comunicabili. La relazione si sposta verso un piano più astratto e in qualche modo più distante dall’esperienza globale corporea: l’esperienza del Sé nucleare.[2] Il destino, per esperienze del genere, sarà quindi quello di “condurre una vita clandestina, non verbalizzata, in una certa misura sconosciuta, ma tuttavia assolutamente reale”.[3] La parola è un compromesso tra il mondo interno e quello esterno. Di fatto nel tentativo di comunicare, qualcosa necessariamente andrà perduta e, nel flusso descrittivo, la parola frammenterà l’esperienza dovendo far riferimento ad elementi sensoriali ed emotivi parziali. Dalla capacità simbolica acquisiamo però un nuovo potere, nuove competenze relazionali, diventiamo capaci di condividere significati, di contrattarli e modificarli; diventiamo membri di una comunità culturale e sociale, ma al contempo corriamo il rischio di perdere il contatto con la pienezza della nostra esperienza originaria, infinitamente più profonda e complessa di quanto la coscienza possa catalogare e descrivere.
Il nostro corpo conosce più di quanto sia in grado di dire. La coesistenza di due significati e due relazioni porta vantaggio e complessità ma anche confusione e difficoltà; in questa interazione l’identità del bambino, qualora mantenga un giusto equilibrio tra la frustrazione dell’incomprensione e l’accoglienza empatica, si consoliderà e costruirà un sano senso del “noi”. [4] Alla luce di ciò esisterà quindi sempre uno scarto tra vita vissuta e vita narrata, lasciandoci molte domande: quanto può essere grande questo scarto? È possibile ridurlo? Quante distorsioni, coscienti o inconsapevoli, possono esistere in tali rappresentazioni?
Dobbiamo in ogni caso accettare l’incompletezza del nostro parlare, la difficoltà a dire ciò che siamo e sentiamo; l’approssimarsi insoddisfacente di ogni nostra rappresentazione ad una verità sempre sfuggente. Vogliamo essere capiti ma quanto possiamo davvero esserlo? Vogliamo capire l’altro, ma fin dove possiamo davvero arrivare? Siamo discorsi incompleti che si rincorrono in cerca di verità incerte, dentro esperienze mai interamente descrivibili, che presumiamo essere simili a quelle di altri. Presumiamo avere esperienze simili, presumiamo di capire l’altro, senza alcuna vera certezza se non quella di approdare a realtà parziali e, in questa dubbiosità, essere continuamente spinti dal bisogno di comprendere e contemporaneamente essere frenati dalla paura di sbagliare.
Evoluzione e apprendimento
Evoluzione e apprendimento stanno nel mezzo tra il bisogno di comprendere e la paura di cadere, l’una cosa allontana l’altra. Evoluzione e apprendimento hanno bisogno di differenze e stanno in quella linea sottile che passa per la consapevolezza, a tratti dolorosa, che nulla è permanente; linea che passa per la speranza progettuale, dove ogni cosa è approdo e nuova partenza, e per il bisogno di conoscenza mai pago. Dobbiamo imparare il valore della caduta. Dobbiamo apprendere a cadere. Tra la resistenza e la resa c’è un raffinato processo che valuta e discerne, che si confronta con le forze che incontra, che si chiede come può reindirizzarle e trasformarle. Non dobbiamo dimenticare che confronto significa accettare la forza dell’altro, senza negare la propria, osservando ciò che reciprocamente si diventa. Confronto è incontro tra due differenze, è una condivisione di prospettive e non una manipolazione. Lo sforzo, afferma Carl Whitaker, maestro del dialogo e della psicoterapia, consiste nell’essere coinvolti in una esperienza reale con l’altro, non di cercare di cambiarlo.[5]
Lo scontro è il tentativo di far prevalere la propria differenza, sentita più fragile, annientando quella dell’altro. Le azioni distruttive tendono ad impedire qualunque confronto, quindi ogni possibilità di trasformazione, comunicazione e scambio. Nello scontro si vogliono annullare la parola e i significati dell’altro; si vuole annullare il suo potere trasformativo, rivelatorio di altre verità evidentemente insostenibili, affinché non turbino il proprio equilibrio precario. Accettare la realtà psichica propria e dell’altro è segno di forza e maturità. La difficoltà a distinguere l’altro da sé e ad accettare che abbia una vita indipendente dalla propria, sono manifestazioni di una scarsa differenziazione nonché forme narcisistiche irrisolte. Chi vive in questa condizione è inevitabile che compia quindi tentativi per piegare a questi travisamenti le proprie relazioni dando il via ad una vita faticosa, infelice e senza soluzione.[6]
La violenza è la strada per non cambiare mai, per imporre senza proporre, per strappare all’altro, senza il suo consenso, ciò che non vuole darci; per ammutolirlo, controllarlo o immobilizzarlo, per predarlo o annientarlo, per togliergli il potere di trasformarci. I violenti sono persone deboli e pericolose. L’altro, con il suo mistero e la sua differenza, porta inquietudine e domande, obbliga al cambiamento e impone il suo volto sulla nostra strada, ma spesso dimentichiamo che “l’altro” siamo anche noi, nella reciprocità. Bisogna solo cambiare punto d’osservazione. È attraverso le differenze che cresciamo e percepiamo il reale: quando una differenza entra nel nostro campo di coscienza rompe un equilibrio precostituito e, per contrasto, ci fa vedere ciò che c’è. Dolore e piacere, intuizione e paura, conflitto e quiete sono condizioni transitorie: indicano l’irruzione di differenze. Le differenze destabilizzano e inquietano, le differenze ci parlano e ci obbligano al movimento. Le differenze ci fanno vedere chi siamo: ci fanno cadere. Impossibile evitarlo, intelligente prevederlo. Necessario comprendere le differenze, difficile non vederle. Eliminare le differenze per non soffrire porta quiete, molta quiete, quiete eterna ed ha un prezzo: l’immobile stupidità.
L’io e la violenza
Abbiamo bisogno d’individuarci per vivere come si vuole e in pace con tutti. Ma la pace è un tema scottante, ambivalente e irrisolto, rispetto al quale è necessario interrogarsi con serietà e non operare semplificazioni ingenue.
“Guardate che bella pace mi si propone. Chiudere gli occhi per non vedere il delitto. Agitarsi dalla mattina alla sera per non vedere la morte spalancata. Credersi vittorioso prima di aver lottato. Pace di menzogna! Adattarsi alle proprie vigliaccherie, poiché lo fanno tutti. Pace di vinti! Un po’ di ubriachezza, un po’ di bestemmia, un po’ di sudiciume, sotto motti di spirito, […] un po’ di mascherata, di cui si fa virtù, un po’ di pigrizia e di sogno con intorno una confetteria di belle parole, ecco la pace che ci viene proposta. Pace di venduti. E per salvaguardare questa pace vergognosa, si farebbe di tutto, si farebbe la guerra al proprio simile. Perché esiste una vecchia ricetta sicura per conservare sempre la pace dentro di sé: accusare sempre gli altri. Pace di tradimento”. [7]
Pace di vinti, di venduti, di tradimento. Menzogne e illusioni per sentirsi vittime e accusare sempre gli altri. Rischi reali.
Le vittime eterne sono pericolose, hanno sempre molti buoni motivi per odiare. La gente comune è terrorizzata dalle proprie fantasie distruttive perciò le nasconde o le dissimula, ma queste continuano ad agire nel profondo, condizionando i comportamenti. Più vengono negate e più diventano potenti. Ma è possibile agire la propria pericolosità senza essere pericolosi? Con l’arte e il gioco possiamo sicuramente esaurire e reindirizzare parte delle nostre forze distruttive ma ciò non basta. Serve maggiore consapevolezza.
L’aggressività costruttiva è una funzione dell’io al servizio dell’autorealizzazione, ed è sempre rivolta verso oggetti riconoscibili e concreti; è una funzione fondamentale per esplorare e vincere l’ambiente. È un mezzo per la comunicazione: essa rende possibile il confrontarsi, la separazione, l’unione e la differenziazione, quindi l’approfondimento e l’arricchimento della relazione. È la forza che aiuta a superare gli ostacoli e a fare esperienza; aiuta ad andare verso il mondo, le cose e le persone, o ad allontanarsi da esse, senza eccessiva paura e con curiosità.
La distruttività al contrario è un divieto di comunicazione e d’esperienza, avendo perso, o rimosso, gli oggetti originari verso i quali la forza aggressiva doveva dirigersi, divenendo così estranea all’io e alla coscienza. La distruttività è il tentativo disperato di liberarsi di un conflitto interiore del quale si è persa l’origine: si agisce spinti da rabbia e paura senza alcun fine cosciente e con l’unico effetto di vedere rappresentato fuori di sé l’inferno che si ha dentro. Chi non riesce a comunicare con i propri bisogni e desideri profondi, non può nemmeno comunicare con quelli degli altri. La distruttività cerca e genera indifferenziazione, svuotando il rapporto per paura che la comunicazione annienti i comunicanti, in una altalena estenuante e ambivalente tra il desiderio di un legame fusionale e quello di diventare qualcuno. È un problema di identità. Chi riconosce il valore del proprio io e la propria identità saprà sempre delimitare se stesso nei confronti di un altro io, rispettando e lasciando intatta l’altra persona. [8]
Dovremmo concederci più occasioni per toccare il disprezzo, l’odio e la rabbia che ci abitano per poterle comprendere e gestire e, all’occorrenza, fermare quando rischiano di provocare danni. Dovremmo avere più occasioni per far emergere la nostra intolleranza e guardarla bene in faccia; sentirla deformarci il volto con il suo ghigno compiaciuto che cerca vendetta, annotarne le fantasie infantili premonitrici di disfatta e dolore, isolarne i pensieri di onnipotenza delirante, gustarne le lamentele e le infinite pretese di risarcimento. Dovremmo imparare a riconoscere la voglia di distruzione e annientamento, sentirla contorcerci le budella e muoverci mani e lingua per ferire, per fare male e per giustificare se stessa.
Che si veda che razza di stronzi siamo, soprattutto ai nostri occhi. Non siamo né buoni né cattivi per nascita. Per nascita non siamo nemmeno innocenti o colpevoli. Colpevoli in caso lo diventiamo esistendo, perché dobbiamo continuamente conferire senso al nostro agire, prendere posizione, scegliere da che parte andare, cosa fare. Sbagliamo per eccesso di zelo o mancanza di coscienza, ci macchiamo di cattiverie, misfatti e crudeltà in nome di Giustizia, Dio e Verità ma quasi mai lo ammettiamo. Il danno lo vediamo sempre dopo, se lo vediamo, e spesso solo perché qualcuno, o la vita stessa, ci presenta brutalmente il conto. Ma solo chi agisce sbaglia, chi non agisce lascia sbagliare gli altri ed è perciò doppiamente colpevole. L’illusione di una eterna innocenza è un delirio di verginità e di purezza molto pericoloso.
Basta poco per diventare minacciosi, un semplice tocco al nostro fragile senso d’importanza personale e il gioco è fatto. Ma chi vuole vedere, e perché poi andare a stuzzicare la bestia? E se il cane ringhioso si gira e ci azzanna? Vero, ma forse ci sta già sbranando da tempo e non sappiamo come fermarlo. “Ciò che respingo lo accolgo in me pur senza accorgermene. Ciò che accetto finisce nella parte della mia anima a me nota; ciò che rifiuto va nella parte della mia anima che non conosco. Quello che accetto lo faccio io stesso, quello che rifiuto viene fatto a me. […] Ma il veleno del serpente cui hai schiacciato il capo penetra in te attraverso il morso nel calcagno. E così il serpente diventa per te più pericoloso di prima. Infatti qualunque cosa io respinga fa comunque parte della mia natura. Pensavo che fosse esterna a me, e perciò ho creduto di poterla distruggere. […] Ne ho distrutto le sembianze credendo di esserne vincitore. Invece non ho ancora vinto me stesso. […] L’opposizione esterna è un’immagine della mia opposizione interiore. Dopo che l’ho capito, taccio e penso alla voragine dei conflitti presenti nella mia anima”. [9]
Che almeno si provi a guardare il drago dritto negli occhi, per verificare se davvero lo abbiamo già domato come crediamo o se, al contrario, siamo da tempo suoi servitori mansueti e spaventati. Dovremmo avere più coraggio per accettare il gusto ambivalente che proviamo, tra piacere e vergogna, nel vedere lo scomposto incalzare interiore delle nostre ombre, indifferenti e feroci. Uno spettacolo ignobile e magnifico come l’inferno dantesco, dove però preferiamo essere demoni, o angeli vendicatori, pronti a punire con solerzia le anime colpevoli, che sono sempre tutti gli altri.
Stige, da stygeo “odiare”, fiume infero e divinità greca, partorisce quattro figli: Zelos (Zelo), Nike (Vittoria), Bia (Forza) e Cratos (Potenza). Così “Il freddo odio della madre è trasformato dai figli in quei tratti implacabili che abbiamo finito per accettare come virtù. […] prototipi di quella moralità bellicosa e fanatica che accompagna l’Io nelle sue moralistiche missioni di distruzione finalizzata all’autoconservazione”.[10] Giustificare la violenza richiede attrazione per l’inferno e dimestichezza con l’odio, sentendosi al sicuro tra i santi del paradiso. L’io preserva se stesso con la lotta, e l’odio è il terreno sul quale coltiva le sue virtù da lottatore: zelo, vittoria, forza e potenza. “L’Io odia, aborrisce, perseguita con intento distruttivo tutti gli oggetti che gli provocano sentimenti dolorosi […] lotta per la propria conservazione e affermazione”.[11] L’io, nostro necessario filtro psichico con il mondo, è anche il nostro problema più grande quando, per eccesso di zelo e protezione, propone e impone soluzioni al dolore e alla paura, violente, drastiche e unilaterali. Diventa in tal modo, paradossalmente, il vero pericolo per sé stessi e gli altri.
Sotto ogni eccesso di fastidio sta ben nascosta una più primitiva paura. Per conoscerla bisogna quindi scovarla, smascherarla nei sui abili travestimenti ideologici o religiosi, dietro le ipocrisie del buon senso nel mentre semplifica fantasie di disprezzo e di omicidio; bisogna sentirla invocare perfetto ordine e severa giustizia, o masticare bestemmie per il pezzente ubriaco che fa schifo o per la lentezza del pedone sulle strisce. Dove affonda le radici tutta questa violenza sorda, nascosta e benpensante con la quale facciamo fatica a confrontarci? Che cosa sono questi pensieri così pieni di cattiveria? È follia? Cosa sono queste forme d’intolleranza malcelate da necessità morale? Ci vorremmo tutti buoni e innocenti ma contro qualcuno o qualcosa.
Questa paura fa paura, perché è come una lama di coltello affilata pronta a colpire, paura che per molti è meglio dimenticare; meglio continuare a credersi vittime innocenti come gli agnelli e astute come i serpenti. Questa paura di prede perse nel branco dei predatori, che in fondo aspirano a scambiare ruoli e privilegi, fa danni; paura al cui polo sta una pace solo apparente, tregua breve, momentanea quiete del branco di vinti sbranati e sazietà di predatori.
Gli odiatori di professione, convinti attivisti della giustizia delle botte e muscolosi difensori del privilegio, promotori del controllo preventivo, della punizione esemplare e del potere senza mediazioni non sono poi così diversi dall’indecente schiera dei sempre buoni e giusti, saggi correttori di ogni umana bruttezza, odiatori ipocriti e occulti di ogni differenza, missionari sorridenti di un bene e di un bello che però ha il loro volto e vestito. Al pari dei loro indispensabili fratelli cattivi che urlano sguaiati dal polo opposto, i buoni hanno un’unica misura valida: la loro. Sono fratelli di sangue e di odio, e all’unisono incitano alla guerra santa: quella contro gli altri. Voci dissimili ma attinte dallo stesso pozzo di un ego spaventato, infantile, indifferenziato e inconsistente, si credono tutti dei bravi ragazzi.
Ma che siano dell’una o dell’altra fazione non fa alcuna differenza. Di fronte a costoro si ha la netta sensazione che non ci sia qualcuno a parlare, che non ti vedano e non si sentano. Assenti a loro stessi, come fantasmi nella nebbia, sciorinano significati presi in prestito, parole d’ordine e banalità confuse a mo’ di comandamenti, oppure come mazze ferrate. Alla domanda:“…ma tu, proprio tu, cosa pensi?”, non sanno cosa rispondere perché non ne capiscono il senso. Di fronte a costoro si ha la netta impressione che non pensino davvero ma ripetano, senza alcuno spirito critico, slogan, discorsi e giustificazioni preconfezionate, sia che vestano lindi abiti da monaci, cravatte da professori o divise da metalmeccanico; sia che pronuncino discorsi altisonanti zeppi di concetti sofisticati, o s’impastino la bocca con imprecazioni, grappa e invettive qualunquiste. Marionette inconsapevoli, sono un monito costante per vigilare sulla propria paura e stupidita; sono un monito per vigilare sulla propria tendenza a scomparire dietro le voci rassicuranti dell’omologazione dei molti o nel ribellismo isolato e contro dipendente delle certezze dei pochi.
I bravi ragazzi sono pericolosi. Difficile dire chi sia più ripugnante e meno minaccioso. Fanno paura e rabbia entrambi.
Ciò che fa veramente paura è la stupidità, non quella fisiologica e senza colpa, ma quella prodotta dalla mancanza di pensiero autonomo che nasce per un difetto di coscienza e per un rifiuto della responsabilità personale. È quella situazione nella quale, afferma Bonhoeffer: “l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano”[12] diversamente dall’uomo, o dalla donna, responsabile che: “agisce nella libertà del proprio essere senza cercar riparo dietro a persone, situazioni o principi, ma tenendo conto di tutte le circostanze di carattere umano e ambientale e delle considerazioni di principio. Il fatto che nulla possa rispondere per lui o scusarlo, se non le sue azioni e la sua persona stessa, è la prova della sua libertà. Deve osservare, giudicare, valutare, decidere e agire da sé; deve vagliare personalmente i motivi, le prospettive, il valore e il senso delle proprie azioni. L’azione responsabile è un rischio liberamente assunto, che nessuna legge giustifica, che si compie rinunciando a qualsiasi valida auto giustificazione, e rinunciando pertanto a qualsiasi pretesa di avere la suprema conoscenza del bene e del male”.[13]
Essere con qualcuno
Perciò, se deve essere guerra che sia quindi, ma contro chi? Guerra agli altri o dentro di sé? I nostri conflitti non si esauriscono nella loro negazione, esasperazione o proiezione. In una delicata dialettica tra dentro e fuori di sé fluttuano e si trasformano, prendendo a volte il volto e le azioni di qualcuno o rimanendo solo una voce interna. Perciò: “Colui che ha dichiarato questa guerra dentro di sé, è in pace con i propri simili e, benché egli sia tutto quanto campo della più violenta battaglia, nell’intimo del suo intimo regna una pace più attiva di qualunque guerra. E più regna la pace nell’intimo dell’intimo, nel silenzio e nella solitudine centrale, più infierisce la guerra contro il tumulto delle menzogne e l’innumerevole illusione”. [14]
Chi si sente sempre nel giusto e già in salvo, chi sente il migliore, è estremamente pericoloso. Non siamo liberi e quindi potenzialmente siamo tutti pericolosi.
Chi può dirsi libero quindi? Libero è colui che vuole impattare l’essere[15] e che, per ottenere ciò, non ha mai scarsità di tempo perché ha sfoltito le inutilità. Libero nel suo pensare e ragionare, esige da sé coerenza ma non rifiuta la contraddizione e l’aporia, rischia di dire la propria parola ma è anche capace di silenzio quando ignora un tema. Mai pago di domandare cerca di divenire sempre se stesso. “Alla gente educata a servire, invece, manca sempre il tempo. L’acqua che scorre non aspetta. Non sono liberi nella scelta dei temi del loro ragionare”. [16]
Imbattersi nell’essere vuol dire cercare l’essenziale in ciò che è pienamente umano, in ciò che è davvero portatore di significati e senso, in opposizione a tutto ciò che è effimero. Libero è colui che vuole avere un proprio pensiero su ciò che è giusto o sbagliato, che non si adegua facilmente alle mode, né è mentalmente e spiritualmente asservito ad alcuna ideologia religiosa o politica.
Non possiamo davvero sapere che cosa sia il bene e il male senza passare per la nostra coscienza. Guardini ci ricorda che la coscienza è compagna della solitudine: è consapevolezza di qualche cosa, vi è incluso un carattere d’interiorità, un aver presso di sé, un trovarsi da solo a solo. Essa risponde al bene, cioè quel qualche cosa davanti al quale non è lecito restare indifferenti se non si vuole mettere a repentaglio la propria dignità. Il bene è quell’ultima cosa non più discutibile.[17] Se scompare la persona scompare la coscienza, e con essa ogni possibile adeguato metro di misura per ciò che è bene e male.
L’oggetto di ogni riflessione dedicata all’uomo dovrebbe ritornare ad esso migliorandone la qualità di vita nella convivenza. La persona nella sua singolarità rimane l’unico orizzonte possibile dell’educativo. L’educativo è una forza debole fondato sul rapporto da persona a persona, uno ad uno, nel tentativo, e nella speranza, che ogni relazione dispieghi la sua potenza dialogica e si trasformi in un rapporto da anima ad anima.
Ducci, nel definire inattuale tale dimensione della relazione educativa, afferma che: “Sarebbe ben ingenuo il pensare che il passaggio sia quantitativo. […] L’anima potrebbe non prendere assolutamente parte all’incontro. La menzione che il Fedro fa dell’anima è determinante: non da uno ad uno, ma da anima ad anima. Delicato e faticante è parlare con efficacia a uno (alla sua anima, cioè al fondo libero del suo essere) della ricchezza e della bellezza, quelle interiori, però, così dissimili da quelle esteriori. Lo si può fare soltanto e appropriatamente se l’anima di chi parla è convinta e persuasa tutta e soltanto non per deduzione logica, ma per la forza dell’aver esperito l’immensa tenuta della sua libertà nella scelta della bellezza e ricchezza interiore, e nel letificante aver allontanato ogni volontà di male. […] Il da anima ad anima resterà eternamente una proposta inattuale. Non diventerà mai una moda.” [18]
Il mondo interpersonale può avere molti significati ma perché possa dirsi tale bisogna essere con qualcuno. Non basta la vicinanza fisica perché nasca incontro, rimarrebbe una pura interazione, ma è necessario che si generi qualcosa di più intenso e penetrante. Di cosa si tratta quindi? Di due soggettività che si riconoscono nella loro differenza, disponibili quindi a far emergere una possibile estraneità, un conflitto o una incomprensione, e che al contempo si compenetrano nella loro similitudine, disponibili cioè ad una possibile intimità, comprensione e condivisione. L’uno modifica l’altro e contemporaneamente l’uno rimane se stesso di fronte all’altro, sperimentando sia la sua permanenza sia la sua trasformazione con l’altro.
Siamo occasione di crescita reciproca e al contempo possiamo farci molto male. La crescita non procede linearmente e non è una sommatoria di competenze, forze, intelligenza o potere ma è un processo di continua ristrutturazione della realtà e del nostro rapporto con essa, che nasce dalla cooperazione di forze d’integrazione, destrutturazione e conservazione dell’esperienza. È proprio su questa soglia che si colloca il difficile compito dell’educativo: operare perché tali forze emergano e affinché la cooperazione si attui. Il problema non è quello di definire i contenuti e le azioni, che devono rimanere fondamentale prerogativa della persona e della sua libertà, ma di attivare e sostenere il processo d’individuazione e, qualora ce ne fosse bisogno, ripararlo se danneggiato o riattivarlo se bloccato.
Che l’educativo continui quindi a svolgere il suo compito smisurato e incerto, come un Sisifo liberato e inarrestabile; che metta in guardia contro i pericoli della perdita di sé e dell’omologazione rassicurante; contro il dilagare di manuali del come fare e le tecnologie spirituali o psicologiche vincenti, che siano in otto o mille passi; contro le menzogne delle strade facili, del benessere superficiale e ad ogni costo, della felicità obbligatoria; contro lo svilimento del pensiero, della responsabilità, della profondità e dell’esperienza, e che continui la sua incessante opera: rimettere l’uomo, la sua irripetibilità e la coscienza al centro.
Come un masso che continua a rotolare giù, la coscienza va costantemente riportata in alto, al suo posto, nonostante le molte forze che si oppongono e che vorrebbero che fosse un’opera del tutto inutile.
Chi ha paura di una persona libera?
[1] Edda Ducci, Il tempo della paideia, in Per una paideia del III millennio, vol. II, a cura di Cosimo Scaglioso, Armando ed., pg. 168.
[2] Su questo articolo, una breve sintesi dei livelli di sviluppo del Sé e della intersoggettività negli studi di Stern e Ebner. http://manualeinapplicabile.it/educativo/la-malattia-spirituale-e-le-radici-della-violenza/
[3] D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pg. 181.
[4] Cfr. op. cit. pgg. 180-182.
[5] Cfr. C. A. Whitaker, W.M. Bumberry, Danzando con la famiglia, Astrolabio, 1989.
[6] Cfr. Manuale Inapplicabile, Per un askesis normodinamica. http://manualeinapplicabile.it/normodinamica/per-unaskesis-normodinamica-prima-parte/.
[7] René Daumal, La conoscenza di Sé, Adelphi, pg. 44.
[8] Sul tema dell’aggressività e sulle dinamiche di gruppo, sono molto significativi gli studi di Gunter Ammon in “La dinamica di gruppo dell’aggressività, Astrolabio” e di Wilfred R. Bion in “Esperienze nei gruppi, Armando Editore”. Sul processo di maturazione infantile delle emozioni e dell’aggressività si vedano gli studi di Donald Winnicot in “Psicoanalisi dello sviluppo, Armando editore” e in “La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Armando editore”.
[9] C.G.Jung, Il libro rosso. Liber Novus, a cura di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pg. 279.
[10] J. Hillman, Il sogno e il mondo infero, Adelphi, pg. 77.
[11] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, pg. 34.
[12] D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo, 1988, pg. 64-66.
[13] D. BONHOEFFER, Fedeltà al mondo, Brescia, Ed. Queriniana, 2004, pg. 94-95.
[14] René Daumal, op. cit., pg. 44.
[15] Cfr. Platone, Teeteto.
[16] E. Ducci, Postille di filosofia dell’educazione, in “Il Quadrante scolastico”, 1995, n. 64, pp. 94-103.
[17] Cfr. R. Guardini, Persona e personalità, Morcelliana, 2005.
[18] E. DUCCI, La comunicazione da anima ad anima è ancora auspicabile?, in Aprire su paideia, (a cura di E. Ducci), Roma, Anicia, 2004, pp. 15-20.