Per un’askēsis normodinamica (prima parte)

di Antonio Ricci

Dall’incontro con l’altro sorge a volte un dolore lieve e diffuso, una piccola pena timidamente raccolta dalle storie di tutti. Un umano sentire l’altro nel quale sorge un misto di tristezza, gioia e paura. Un contatto profondo con l’anima propria e dell’altro, un patire insieme nel riconoscerci partecipi di un’identica natura e al contempo radicalmente diversi, con un senso struggente di solitudine senza soluzione. Siamo tutti soli e perciò ci cerchiamo, a volte trovandoci, a volte negandoci, a volte perdendoci.

Operare nella relazione d’aiuto, sia essa educativa o terapeutica, non è una missione speciale fatta da persone speciali, è piuttosto un mestiere molto delicato e difficile, il quale assieme a specifiche competenze professionali, richiede l’impiego, e quindi la formazione, di forze mentali, emotive e relazionali particolari, proporzionate alla complessità che si vuole gestire. Incontrare l’altro significa essere disponibile ad accogliere ciò che c’è, vuol dire rendere significativo quel momento. Perciò è importante saper gestire in modo ottimale i propri stati mentali, emotivi ed energetici, occupandosi quindi della propria salute fisica e mentale, se si vuole aiutare altri a fare altrettanto. È un fatto ovvio, spesso dimenticato; è un passaggio obbligato, spesso saltato.

Regoliamo il nostro equilibrio emotivo sia in solitudine, sia in relazione. In termini psicologici vuol dire che agiamo sul nostro stato intrapsichico e sulla nostra condizione interpersonale attraverso queste due possibilità. Nel tempo dell’interazione tendiamo a considerare l’altro anche in funzione dello squilibrio che provoca nel nostro stato emotivo e delle conseguenze che ciò genera. Prontamente, e spesso inconsapevolmente, agiamo per ristabilire tale equilibrio, che in termini più semplici vuol dire tornare a sentirsi a proprio agio, non minacciati dalla troppa intimità o al contrario da un eccesso di distanza, freddezza, indifferenza, a seconda delle occasioni. Ci autoregoliamo e regoliamo l’altro modulando distanza e vicinanza, nel tentativo di comprendere ed essere compresi. Tanto più la relazione sarà significativa e maggiori saranno le variabili che interverranno nella valutazione e nella regolazione di tali distanze. Siamo sempre alle prese con la propria e altrui intensità emotiva e continuamente regoliamo la nostra disponibilità all’intimità.

Una relazione adulta può dirsi sana qualora questo tentativo di auto e etero regolazione venga operato da entrambe le parti senza che emerga troppa ansia, o angoscia, quindi in modo flessibile e rilassato, senza eccessive pretese, nel rispetto del reciproco bisogno di solitudine e d’incontro; qualora le reciproche intolleranze e i reciproci bisogni, commisurati alla natura di quella specifica relazione, abbiano diritto di esprimersi nella ricerca palese di una risposta nell’altro. Una relazione adulta può dirsi sana se non si ha eccessiva paura dello squilibrio che ingenera, non temendo di “cadere” o al contrario di “spostare” l’altro dalla comodità nella quale è; se si riconosce la necessità del duplice tentativo dell’”andare verso” e del “rimanere stabili”. Significa aver raggiunto un buon livello di maturazione interiore e relazionale, la cui misura sta nella capacità raggiunta di differenziarsi. Differenziazione significa accettare che l’altro abbia una vita psichica indipendente dalla propria. Nel caso delle coppie, vuol dire smetterla di pretendere che l’altro sia accessibile a comando, sempre a disposizione per la propria sicurezza, il proprio godimento o conforto; vuol dire riconoscergli il diritto di scegliere, a suo piacere, se essere molto intimo o al contrario inaccessibile emotivamente; se essere sessualmente disponibile, non attratto o non attraente a fasi alterne. Differenziazione significa che l’altro non sarà mai ciò che io voglio ma ciò che lui, o lei, vuole. Quando, al contrario, ciò non accade e nessuno dei due è in grado di operare alcun cambiamento significativo, il livello della sofferenza s’innalza, dando così il via ad un rapporto insano, bloccato, senza riposo e senza crescita, sovente nella reciproca sensazione che la causa di ogni male risieda nell’altro. Alla luce di questo dinamismo di dipendenza immatura, appare più chiara la difficoltà che in una relazione d’aiuto si deve affrontare.

Nell’ottica relazionale normodinamica “aiutare” assume il significato di individuare se stessi nella relazione, spostando quindi l’attenzione sugli effetti che l’incontro produce su di sé. L’invito è quello di entrare e lasciar entrare, accogliere, osservare e riconoscere le variazioni del proprio equilibrio fisico e psichico. Aiutare vuol dire operare in modo costante, attivo e consapevole per trasformare e ristabilire l’equilibrio nella relazione a partire da sé, con l’intento di mantenere il contatto e il rapporto con l’altro. Ciò può esser fatto solo tenendo conto dell’unicità della relazione a partire da due domande: “chi sono io di fronte a questa persona?”; “chi è questa persona di fronte a me?”. Vanno perciò riconosciute le forze in campo, i significati, i bisogni, le paure, le richieste inconsapevoli, le proiezioni, le debolezze reciproche.

Si cura la relazione curando se stessi. L’attenzione va spostata da sé all’altro, da sé alla relazione, in un processo circolare dove il proprio sforzo d’individuarsi chiama l’altro a fare altrettanto, facendo emergere gradualmente le difficoltà e le potenzialità esistenti. Pur non essendo un fattore sufficiente di cambiamento, è sicuramente una base solida e reale sulla quale poggiarsi, una condizione senza la quale è difficile prendersi cura della relazione.

Le persone che soffrono a volte non vogliono farsi domande sul perché, e temono chi le fa. Preferiscono rimanere in una condizione d’ignoranza, che è spesso causa di sofferenza per se stessi e per gli altri. Aristotele afferma che tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza, il cui fine è la verità. Ma sarà poi vero? A volte sembra che accada proprio il contrario: tutti gli uomini aspirano per natura all’ignoranza, il cui fine è la menzogna. Forse la verità, direbbe ancora una volta Aristotele, sta nel mezzo: chi cerca conoscenza dovrà inevitabilmente combattere con la propria tendenza a non voler sapere, e non tutti sono disponibili a pagarne il prezzo. Il punto di collegamento è il volere. Volere conoscenza, non volere ignoranza, non volere sofferenza. Bisogna volerlo e praticamente farlo. Perciò è necessario porsi il problema degli strumenti, della pratica e delle strade per realizzare concretamente quanto si comprende. Nella filosofia platonica questa strada che unisce il logos, il pensiero, la parola, il ragionamento, con l’ergon, l’azione, il combattimento, il fatto, è detta askēsis.

Dalla tendenza a non voler sapere possono nascere rapporti collusivi: ti prego, toglimi il disagio, però non facciamoci domande e nemico sia chi ci prova. Quando però la sofferenza diventa insopportabile, l’incontro è l’unica speranza e così comincia il lavoro. All’educatore e al terapeuta il compito quindi di dosare tempi e modi per porre le domande giuste, cioè domande reali; il compito di individuarle, di preparare il terreno perché siano accolte, di attendere e ascoltare le risposte senza precederle, né suggerirle o indurle. Per porre domande reali bisogna saper sostare in uno spazio aperto di non risposta e attendere che il processo giunga ad una sua maturazione.

L’obiettivo primario della relazione d’aiuto, nell’ottica educativa normodinamica, è sia quello di sostenere la differenziazione, cioè l’emergere dell’unicità della persona, sia di favorire la coesione nel rispetto delle differenze, quindi l’incontro nella relazione. Significa condurre l’altro verso una maggiore individuazione, autonomia e responsabilitàÈ un processo nel quale è necessario fornire accudimento, conforto e protezione in modo consapevole e differenziato, rispondendo a effettivi bisogni di crescita piuttosto che a reciproci bisogni narcisistici. Una delle manifestazioni del narcisismo sta nella difficoltà a distinguere l’altro da sé, nella non accettazione che l’altro abbia una vita indipendente dalla propria. In tale dinamica si annida la pericolosa negazione di aspetti dolorosi e intollerabili del proprio mondo interno. Chi vive in questa condizione è inevitabile che compia quindi anche tentativi per piegare a questi travisamenti le proprie relazioni tramite manipolazioni, proiezioni e fantasmi, dando il via ad una vita faticosa, infelice e senza soluzione, dominata da un senso di sé inautentico e falso.

Molte professioni d’aiuto possono essere intraprese per la soddisfazione occulta di un bisogno narcisista, perciò credo che i processi formativi debbano essere molto selettivi, profondi e seri, lavorando contemporaneamente sulle competenze tecniche e professionali e sulla consapevolezza e formazione della persona.

Portare all’altro la propria battaglia per essere reali e autentici, nell’evidente fatica che ciò comporta, è un tentativo dignitoso, che conferisce speranza e può curare. La vita implica lotta e le relazioni richiedono impegno e lavoro. Il potere trasformativo deriva solo dalla capacità di essere reali. Cambiare significa assumere la responsabilità della propria vita e fissare confini più appropriati per se stessi.

Da ciò può sorgere una sana e auspicabile preoccupazione: chi sarà questo se stesso che si mette di fronte ad un’altra persona la quale chiede formazione, sostegno e aiuto? Di quale askēsis avrà bisogno?  (continua).

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