Amare combattendo

di Antonio Ricci

Si può amare solo rinunciando al controllo onnipotente sull’altro. Ci si può considerare definitivamente adulti quando siamo in grado di fare ciò.

È una certezza che guida il mio lavoro, un principio che mi apre molte domande sia sui significati che racchiude, sia sulle sue implicazioni pratiche. È la sintesi perfetta, quindi semplice, di ciò che perseguo sia come uomo, sia come professionista impegnato in processi evolutivi e clinici. È un faro che illumina quella notte molto buia che spesso giunge quando nessuna strategia, teoria, conoscenza può aiutarti a compiere le giuste scelte di fronte alla contraddittorietà ed alla complessità della persona e quindi di tutte le nostre relazioni. Amare la libertà dell’altro significa operare per l’interezza ed inserirsi con competenza e umanità nella sofferenza, toccandola con mano, ricercandone l’origine e infine riconsegnandola alla persona nella sua pienezza di senso e potenzialità evolutiva, cosa che include anche l’incontestabile accettazione della condizione umana colma di incertezza, insensatezza, contraddizione e mistero.

Interezza però non è sinonimo di perfezione.

Il termine greco teleios sta per «integro»,«completo in tutte le sue parti», integrità che si esprime nella giusta e funzionante connessione tra elementi anche molto diversi tra di loro, che assumono senso proprio in virtù di questi loro legami, come l’organismo umano: dalle cellule alla coscienza e viceversa. Assoluta semplicità e incomparabile bellezza che emergono dall’armonia tra forma e contenuto. Secoli di esegesi e traduzioni più attente a confermare ideologie religiose piuttosto che a ricercare realtà umanamente valide, evidenziandole, hanno trasformato un principio di cambiamento in un assoluto irraggiungibile. Dire perfetto è dichiarare un non senso, alludere alla possibilità di non avere bisogno di alcunché, proprietà del divino abissalmente distante dalla evidentissima condizione umana, imperfetta e bisognosa di tutto, condizione mai risolvibile.

Dire uomo intero, al contrario, porta speranza: ecco l’anthropos teleios.

Non più diviso al suo interno, intero perciò nella sua ricerca di coerenza tra ciò che pensa, ciò che agisce e ciò che dice; ricerca incessante sempre in continuo divenire; pronto ad assumere la responsabilità delle sue azioni quando cade in contraddizione; in lotta con le sue pulsioni senza autoindulgenza; tenero con i suoi limiti, spietato con i suoi imbrogli, disponibile a rendere giustizia al bisogno di verità e a dichiarare guerra ad ogni giustificazione ideologica dei suoi fallimenti. Una persona onesta quindi perché amante della verità e umile perché cosciente di non potercela fare da sola; prudente perché non vuole confondere la ricerca d’interezza con un’illusione di perfezione e d’intoccabilità; una persona sincera perché ha smesso di nascondere i propri fallimenti narcisistici dietro il lamento e la proiezione vittimistica, non più succube quindi d’incontrollabili forze inconsce, chiamate in causa ogni volta che deve render conto di se stessa. Il passaggio all’età adulta segna anche la rinuncia all’illusione di poter manipolare la realtà a propria misura ogni qual volta l’ego si sente ferito e minacciato.

Quante volte abbiamo assistito in noi e di fronte a noi, al contorto balletto mentale tra il «non voglio» e il «non posso». Quante volte, di fronte ad una nostra evidente contraddizione, chiamati ad un confronto troppo schietto e diretto, siamo prontamente scappati dalla responsabilità del «pur non riuscendo voglio», quindi tento, penso, valuto, scelgo perché preferisco, e riconosco il fallimento e l’errore per migliorare la mia direzione; all’irresponsabilità del «vorrei ma non posso» quindi non penso, non scelgo, perché non riconosco la mia volontà nel fallimento e nell’errore in quanto vittima inconsapevole di forze più grandi. Nel primo caso accetto sia fallimento, sia vittoria, riconosco il mio volere e quindi ciò che è assolutamente in mio potere e cosa assolutamente non lo è. Valuto, secondo la filosofia stoica, ciò che è Efemin e ciò che è Ukefemin: sia il mio reale potere di scelta, sia il mio destino. Lo valuto perché voglio essere una persona autentica, un parresiastes: colui che parla in verità per coerenza interiore, quindi bisognoso di una verifica costante della distanza tra ciò che sono e ciò che credo di essere. Nel secondo caso accetto solo la vittoria e solo come conseguenza totale delle mie azioni ma non il fallimento. Ecco allora che emerge un senso d’irrealtà che trasforma l’idea di vittoria in un orpello narcisista. La normale conseguenza di quest’ultima attitudine sarà l’evitamento di qualunque confronto che evidenzi l’incoerenza delle mie azioni e quindi il mio reale volere e valore. Ma per salvare cosa? Un’immagine artefatta e fragile di sé? Perché? A volte l’inautentico, che tenta di prevalere nella sua mascherata narcisistica, pronto a negare l’evidenza di fronte all’incalzare di chi vuole verità, di chi vuole capire e liberarsi dal suo controllo, può addirittura diventare molto violento nel suo tentativo di diniego. Una battaglia che si gioca prima di tutto al proprio interno.

Falso sé versus sé autentico. Falso sé e sé autentico che non sono in rapporto polare ma di contraddizione: la sussistenza dell’uno non dipende dall’altro, il prevalere dell’uno impedisce la manifestazione dell’altro.

Siamo perfettibili e in questa consapevolezza risiede l’educabilità umana e la sua direzione primaria: sviluppare coscienza.

Chi può aspirare quindi a tale possibilità? Tutti fin dal primo giorno e per tutta la vita. Alla domanda però se tale possibilità sia qualcosa di fondamentale importanza, non credo che tutti risponderebbero allo stesso modo, pur considerandone il valore. Ecco il primo ostacolo: per sviluppare coscienza bisogna volerlo. Chi può volerlo? Può volere coscienza chi è arrivato  alla chiarezza di non sapere chi è e dove va, e ne soffre; qualcuno che è arrivato a comprendere l’enorme differenza tra il parlare di una cosa, e il tentativo di perseguirla perché l’ha davvero compresa.

Credere nella possibilità di un cambiamento significa tentare di generarlo senza fermarsi di fronte ad ogni spinta contro evolutiva, che sempre si attacca alle nostre pulsioni, si nutre della nostra angoscia e si giustifica con le nostre ideologie. Disperatamente volere è un , a volte ostinato e furioso, a volte tenero e quieto, ma sempre profondamente silenzioso e fermo; un  alla vita che si contrappone alle forze che operano per inabissare ogni barlume di coscienza, per tenere sotto controllo paura e angoscia. Il processo per sviluppare coscienza non prefigura scenari idilliaci da teorema del benessere ad ogni costo, non è perseguibile nei ritagli di tempo, tra complicate teorie di salvezza, un motto di spirito, quattro chiacchiere tra amici, una buona lettura e un prevedibile finale cinico «siamo concreti, la vita è ben altro»; bensì prevede l’attraversamento di zone cupe e in ombra dell’essere, nonché l’accettazione di attriti crescenti derivanti dall’emersione di verità su di sé spesso intollerabili.  Serve senso di realtà, disciplina e costanza. Serve volontà di combattimento.

Chi può volerlo? Colui che è inconsolabile perché ha «toccato il fondo» ed ha avuto paura, perciò parla poco e agisce curando i dettagli, perché vuole risalire e vivere da uomo e da donna interi, senza più cercare scorciatoie e inganni. Per farlo è necessaria la forza autonoma del volere che può emergere solo di fronte alla consapevolezza della propria perniciosa dipendenza dalla paura di vivere. In un chiarimento di Paolo Menghi del metodo Normodinamico si legge: “Il nostro lavoro è per chi ha concluso con successo una psicoterapia e, soddisfatto dei vantaggi ottenuti e conscio dei limiti di ogni psicoterapia, desideri andare oltre. Così come fecero altri uomini e donne di ogni epoca, senza le garanzie e i consensi del loro tempo. Il nostro lavoro è anche per chi senza aver fatto alcuna psicoterapia, sofferente e consapevole delle proprie perversioni, se ne vuole liberare e per questo lavora molto e ne parla poco. Costui non considera però questo l’obiettivo delle sue fatiche, ma soltanto una tappa necessaria verso un cammino di liberazione. Egli però ha già deciso di non usare più le proprie perversioni come nascondiglio, tutte le volte che il suo ego verrà smascherato.”[1]

Menghi parla di cammino di liberazione, di perversioni, ego e consapevolezza. A fronte di un unico obiettivo da sempre dichiarato, lo sviluppo della coscienza come veicolo di libertà interiore, mostra due possibilità d’inizio egualmente valide la cui discriminante sta nella capacità già acquisita di scelta consapevole, che sia essa la conseguenza di un processo terapeutico o frutto di un processo personale.  Menghi, neuropsichiatra e psicoterapeuta, aveva ben chiaro cosa volesse dire «concludere con successo una psicoterapia», così come quali fossero i suoi limiti, perciò sapeva considerare con serietà il disagio psichico di una persona e i suoi bisogni di cura, sapeva riconoscere la differenza tra un delirio psicotico e un bisogno esistenziale di libertà e ampiezza. Non confondeva i livelli e sapeva rispondere adeguatamente alle diverse esigenze delle persone, che fossero di cura o di conoscenza, impiegando inoltre molte energie per formare collaboratori altrettanto capaci in tal senso, cosciente della sua personale necessità d’avere aiuto per portare avanti il suo lavoro. Ciò che intendeva evitare era la contrapposizione, nonché la confusione, tra psicologia che cura e via di ricerca che propone l’evoluzione consapevole. Infatti l’una sostiene l’altra e l’una non può sostituire l’altra.

Esistono diversi livelli di bisogno della persona gerarchicamente ordinativitalmente connessi e tutti egualmente indispensabilicorporei, psichici, relazionali e pneumatologici, per citare i principali. Bisogna occuparsi di ognuno di essi con una profonda conoscenza del loro funzionamento specifico, attenti a non confonderli, con lo sguardo ben puntato sull’interezza della persona e quindi ai nessi dell’uno con l’altro e alle loro relative influenze. Questa è l’ottica Normodinamica: usare quello che c’è, senza negare nulla, per entrare nella complessità dell’umano e penetrarne il mistero, affinché l’evoluzione non si fermi, nella convinzione che la sofferenza, inflitta e subita, sia direttamente proporzionale all’ignoranza, intesa come mancanza di consapevolezza di sé e del mondo. Un processo verso il reale e l’autentico.

In una mia precedente riflessione «Ricerca educativa e meditazione» affermavo che la nostra comprensione della vita deve essere conforme alla realtà oltre che esatta logicamente, aggiungevo inoltre che la possibilità che emerga l’umano e quindi coscienza, sta nel  superamento dell’istinto, fatto che si esprime nella libertà di scelta e nella capacità di dominio sulle proprie pulsioni. Di fronte a questa possibilità di scelta si erge un profondo cambiamento: partecipare volontariamente alla propria evoluzione. Tale possibilità di essere attivi nel proprio processo di cambiamento è proprio della prospettiva normodinamica, contrapposto quindi ad un’attitudine d’attesa, passiva e delegante, che qualcuno si occupi di noi, attitudine che Menghi riassume in due diverse posizioni esistenziali: il paziente e lo studente.

Il paziente cerca un’interpretazione e una guarigione attraverso diversi gradi di delega al terapeuta; lo studente cerca una spiegazione e vuole apprendere. Allo studente è richiesto di partecipare attivamente, condividendo i risultati della sua ricerca, nell’applicazione dei principi compresi e delle indicazioni ricevute. Come ha ampiamente illustrato in un suo saggio Giampiero Piccoli,[2] il processo evolutivo nella relazione educativa si fonda sul dono, fa capo alle forze del volere, non può prescindere da un obiettivo e da un valore, laddove invece la relazione terapeutica fonda il suo intervento sulla domanda di guarigione e di cura. Il processo evolutivo diventa, in tal modo, analogo a quello creativo, dove da una parte lo studente viene aiutato a determinare realizzazioni volontarie, concrete ed obiettive, e dall’altra gli viene trasmesso un vissuto di senso. Ciò significa armonia tra ciò che sente, percepisce ed elabora e i suoi processi profondi e inconsci. Il punto non è negare la malattia psichica ma fornire risposte adeguate ai diversi bisogni di crescita della persona, infatti il campo educativo si allarga a tutte quelle persone che, pur vivendo in una normalità consueta, esprimono un disagio esistenziale e un bisogno evolutivo. Si tratta di persone integre alle quali la sofferenza ha aperto nuove domande e quindi una porta per avviare le trasformazioni che vorrebbero, sofferenza che riescono a manifestare e contenere nella sua intensità, non conferendole il potere di disgregarli interiormente, né il diritto di distruggere esteriormente. Questo stadio può essere sia il risultato finale di una buona psicoterapia, come afferma Menghi, sia una condizione di sicurezza interiore come risultato di una crescita normale all’interno di buone relazioni familiari e personali.

Vorrei ora tornare all’affermazione iniziale: è adulto chi è riuscito a rinunciare al controllo onnipotente sull’altro. Chi può farlo? Chi non teme la solitudine e quindi non ha bisogno dell’altro per curarla e sentirsi intero; qualcuno la cui identità è integra e non teme di fare entrare l’altro nella propria sfera d’intimità, anzi lo desidera, così come non teme la separazione, anzi la cerca tutte le volte che il confine tra sé e l’altro rischia di essere confuso o invaso. Continue unioni e separazioni generano una reale vita relazionale che è incontro. Questo è un processo d’individuazione dove si può appartenere senza possedere ed essere posseduti. Perché volerlo? Forse per un bisogno di semplicità essenziale. Per essere più gioiosi e giungere ad esperire il mondo in modo più reale e profondo. Infatti nell’espandere la nostra esperienza di vivere la vita stessa si fa più ricca. Questo può essere un obiettivo forse troppo semplice per qualcuno ma certamente colmo di senso per molti.

Siamo tutti dentro il conflitto costante tra il desiderio di solitudine e quello di relazione per non essere soli, nonché viviamo l’illusione di poter avere entrambe le cose sempre, quando invece è una dialettica polare da vivere e non da risolvere. Molte nostre relazioni contengono l’illusione di una «fusione» con l’altro, per riempire vuoti esistenziali e psichici, per ottenere pieno appagamento e totale soddisfazione di ogni bisogno in una sorta di completezza e intesa perfetta. Ci aspettiamo tutto questo dall’intimità con l’altro quando invece al fondo sappiamo che ogni cosa, per sua natura, tende ad essere imperfetta. Intera si, perfetta no. Per fortuna. Questo è reale. Se si vuole intimità e incontro bisogna rivedere molte nostre illusioni tra cui quella di mettere fuori dalla nostra vita, quindi dalle nostre relazioni più intime, dolore e conflitto. Eppure l’aspetto umano più reale emerge proprio quando diventa chiaro che il dolore non è il nemico e i conflitti non porteranno all’annientamento. La relazione più reale e intima può crescere solo come conseguenza di uno scambio autentico e di un vero conflitto.

Significa «amare combattendo».

È ancora Menghi a parlare, siamo nel 1993: «Mi ricordo le reazioni, anche di eminenti psichiatri, quando iniziai ad introdurre le arti marziali tra le tecniche del mio insegnamento: “ma cosa c’entrano le arti marziali!”, “per carità io sono assolutamente contrario alla violenza!”. Non si accorgevano della scissione e quindi della violenza insite nelle loro stesse affermazioni. […] La psicologia del combattimento è lì oggi al vostro servizio per insegnarvi ad accettare, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente la necessità dell’attrito e quindi, a dare al vostro interno spazio al conflitto, restando aperti. […]  Vi insegnerà a smettere di fuggire il conflitto come male, e vi insegnerà invece a sperimentarlo come opportunità di crescita. […] Assisteremo allora ad un combattimento d’amore».[3] Una relazione è reale se all’interno di essa ci si può sia rilassare che opporre, nella disponibilità di affrontare questioni che preferiremmo non vedere o che non fossero viste, miscelando premura e opposizione, dove l’interesse per l’altro può garantire che l’opposizione sia utile anziché lesiva. Senza premura non può esserci nemmeno amore.

Essere reali insieme vuol dire non tradire se stessi restando il centro della nostra vita, senza attribuire all’altro colpe e responsabilità per come essa è. La libertà di lottare e il coraggio di sfidare gli altri è fondamentale per diventare una persona, affrontando proprio le illusioni nelle quali ci eleggiamo reciprocamente a finta soluzione l’uno per l’altro, nonché a ostacolo, incastrati in comportamenti controllanti. Ciò porta solo al risentimento. Ecco allora la necessità di superamento dell’onnipotenza infantile, cioè della tendenza a «sequestrare» l’altro, soprattutto nelle relazioni di coppia, superamento inteso come fine della fantasia di possesso incondizionato e come forza che può lasciare l’altro libero di andare e venire. Accettare la realtà psichica indipendente e separata dell’altro e la sua parziale raggiungibilità, il saperlo distinguere da sé sono segni di maturità. Significa quindi anche riprendersi le proprie spinte aggressive, le proprie bruttezze intollerabili, i propri aspetti dolorosi e avvilenti, smettendola di tentare di piegare le nostre relazioni a proiezioni e bisogni infantili inappagati. Prendere atto di questi bisogni e vedere i modi inconsapevoli attraverso i quali tentiamo di rispondere senza efficacia, con tutta la sofferenza che ne deriva, può spingerci a far qualcosa di utile per conquistare una reale interezza.

C’è una speranza nel pensarci soli e insieme, amanti della libertà dell’altro e pronti a contrattare le reciproche intolleranze per edificare e comprendere. Non possiamo continuare a «mangiarci» gli altri a pezzettini, le persone vanno colte nella loro interezza, e se non siamo in grado di farlo che almeno si possa soffrire di questo. Tollerare l’ansia e godere di essa assieme alla sofferenza può sembrare un’affermazione paradossale, ma è ciò che rende reale la vita perché ansia, sofferenza e dolore, assieme al piacere e alla gioia, conferiscono l’esperienza di vivere anziché quella di essere sedati, nella consapevolezza che le questioni difficili non possono essere eluse e, in ultima istanza, che la morte non può essere evitata.

[1] Appunto da supervisione equipe Normodinamica del 10 luglio 1991.

[2] Cfr. G. Piccoli, Pedagogia della psicoterapia, Domenichini Editore, Padova.

[3] TTT, Rivista mensile di Normodinamica, ottobre 1993, Il sistema d’apprendimento, pp. 6-7.