Vi chiediamo perdono

di Federica Cervini *

In questi giorni giornali e telegiornali ci hanno atterriti con il racconto dell’esecuzione di una coppia e del bambino che uno dei due teneva in braccio, esecuzione, pare, dovuta ad un regolamento di conti per fatti di droga tra clan malavitosi, ad uno dei quali era affiliato l’uomo della suddetta coppia. La sera in cui è stato ucciso lo stavano riaccompagnando in carcere, scontava una pena per duplice omicidio. Il bambino era figlio del precedente marito della donna, morto in un’esecuzione simile tre anni prima. Ce n’è quanto basta (associazioni a delinquere, droga, omicidi, regolamenti di conti) per confermarci che siamo profondamente lontani, estranei, alle atmosfere nelle quali presumiamo possa essere cresciuto quel seme che quando diventa pianta produce frutti di questo tipo: uomini capaci di togliere la vita ad altri uomini, e talvolta anche ai bambini, in totale e definitiva indifferenza.

Prima di proseguire vorrei chiarire una cosa: provo una profonda repulsione per l’interesse talvolta morboso che questi fatti sollecitano, anche se credo che esso derivi dal farci riscoprire che il male, nelle sue infinite forme e declinazioni, non è lontano, e non è affatto sconfitto. Cerco per disciplina personale di non indulgere ossessivamente in questi pensieri, e tantomeno li utilizzo come argomenti di conversazione. In questo fatto di cronaca però c’è qualcosa di cui non riesco a liberarmi e che come adulto mi devasta e mi fa misurare un fallimento globale, collettivo. Qualcosa che non si vede , e che forse neanche gli assassini hanno visto: gli altri due bambini seduti dietro, illesi nel senso di non feriti fisicamente, e che i carabinieri hanno trovato singhiozzanti e terrificati. Quanto tempo dopo, mi sono chiesta. Quanto tempo sono stati lì nel buio e nel silenzio, prima che arrivasse un adulto a porgere una mano, un tentativo di consolazione, un bicchiere d’acqua. Una presenza, di fronte alla cancellazione incomprensibile, violenta,ingiusta, immediata e irrevocabile della tua vita così come la conoscevi fino ad un minuto prima.

Ho due figlie, sono state piccole: come ogni genitore conservo il ricordo quasi viscerale della loro paura, del loro sconforto e del loro smarrimento quando la vita arrivava a toccarle in maniera troppo rude – e sto parlando di fatti banali come una spinta o un pugno da un compagno di giochi, un brutto voto, una derisione.  Qualche giorno fa mi sono fermata per far attraversare sulle strisce un ragazzino, avrà avuto dieci anni. Io ero ferma ma lui non aveva guardato dalla mia parte, e quando si è girato era ormai in mezzo alla strada, e si è spaventato da morire anche se non correva alcun rischio. Si è spaventato della sua stessa distrazione (e spero si sia ricordato in quel momento di tutte le volte in cui i suoi genitori gli hanno detto di guardare da tutte e due le parti prima di attraversare). Gli ho sorriso e fatto cenno di passare: e tanto era stata trasparente la sua paura, così fu la sua gratitudine, il suo sollievo.

Trasparenti, indifesi, aperti, così se ne vanno in giro per il mondo. E per la miseria, sono tutti figli nostri: tutti i bambini del mondo sono figli di tutti gli adulti che hanno la forza per stare in piedi sulle gambe e la lucidità per pensare e per prendersi la responsabilità di quello che vedono, di quello a cui a diverso titolo partecipano. Prendersi la responsabilità: questa è l’unica definitiva pratica di salute, di attenzione, di integrità, di salvezza, alla portata di un essere umano adulto.

Che adulti diventeranno quei due bambini che la vita ha travolto con così tanta violenza? In questa catena di cui costituiscono un anello, che potranno fare della ferita assurda che è stata loro inferta? Avranno forza e aiuto sufficienti a spezzare questo susseguirsi di sofferenze? Esiste una preghiera buddista che dice:
“che nessuno sia solo, ferito, triste, arrabbiato, abbandonato”.
Che nessuno più lo sia: perché ne basta uno, e possono di nuovo generarsi infinite catene di sopruso e dolore.

Per questo, bambini, vi chiedo perdono. Perché non sono riuscita, perché non siamo riusciti, ad arrivare con il nostro impegno e la nostra attenzione fin lì dove siete voi. Perché la violenza che è esplosa l’altra sera su quella strada ha alle spalle la prepotenza, che ha alle spalle la pretesa, che ha alle spalle l’indifferenza, che ha alle spalle la disattenzione, che ha alle spalle questo continuo patologico bisogno di distrarsi, di disimpegnarsi, di riposarsi, di non pensarci. E nessuno di noi colti, impegnati, legalisti, civilizzati, lontani, può dirsi del tutto esente da atti di disattenzione, indifferenza, pretesa, prepotenza, distrazione.

Spero che la vostra storia infelice e assurda vi porti giorni di riscatto e redenzione: e che sia per noi un monito e un’indicazione di direzione.

(*)
Insegnante e formatrice di Normodinamica. Didatta nei percorsi di Analisi Normodinamica – Meditazione Relazionale. Si occupa dello studio della biografia secondo il modello Normodinamico, attraverso la consulenza individuale e di gruppo. Conduce gruppi di lavoro sulle tematiche di genere attraverso le fiabe.