La città sostenibile – Ecosistemi biologici ed ecosistemi urbani

di Mauro Annunziato*

Periagogè da quest’anno collabora con l’ENEA (Ente Nazionale Energia Alternativa) alla realizzazione del progetto “Smart City” che si sta sviluppando sul territorio nazionale a partire da L’Aquila per espandersi poi su altre città. Pubblichiamo quest’interessante articolo sul concetto di Città sostenibile di Mauro Annunziato, ingegnere, responsabile ENEA del progetto, dove introduce il concetto di “Smart City” alla luce delle più aggiornate teorie sugli ecosistemi. (ndr)

“La proprietà di questa (città) è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori sì accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh !, gli viene da invidiare quelli che ora pensano di aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici”. 

                                                                                                                   Italo Calvino  –  “Le città invisibili” 

La memoria per Italo Calvino è uno degli elementi più importanti della città. E’ una memoria impressa nelle strutture urbane e nelle menti delle persone che vi abitano. E’ una intimità fondata su esperienze vissute, come se le emozioni si scrivessero indelebilmente sui muri. E’ una creazione collettiva stratificata nei decenni, a volte nei secoli, a costruire un equilibrio delicato e dinamico, che non si riesce a spiegare ma solo a percepire. Un equilibrio che può rompersi o ricostruirsi in relazione alle nostre scelte poiché la città è parte di un equilibrio più vasto, l’ecosistema di cui la città è parte integrante, e da cui parte il nostro ragionamento.

Un ecosistema è una porzione di biosfera delimitata da confini naturali, in cui una variegata popolazione di esseri viventi agisce in simbiosi, interagendo con l’ambiente circostante. Attraverso un’incessante danza biologica si viene a creare un equilibrio dinamico che non altera le proprietà del sistema stesso. È un sistema aperto, tipicamente delimitato nello spazio e nel tempo, attraversato da un flusso di energia e caratterizzato dalla circolazione di materia tra le componenti viventi e non viventi. Il motore principale dell’ecosistema è l’energia solare, utilizzata dagli organismi fotosintetici per trasformare in sostanza organica la materia inorganica che attraverso le reti alimentari entra in circolo nell’ecosistema. Nell’ecosistema, l’ambiente non è un semplice contenitore che esercita pressione selettiva sulle specie, ma una sorta di organismo che scambia con gli esseri viventi. Questi evolvono sotto la pressione ambientale ma il loro metabolismo e comportamento cambiano l’ambiente stesso che di conseguenza sposta le regole della pressione ambientale. In questa dinamica, ambiente ed esseri viventi coevolvono cercando di mantenere il più a lungo possibile la vita. È il sistema di relazioni che si sviluppano a determinare il successo dell’ecosistema. Dalle relazioni interne dipende la plasticità di un ecosistema, ossia la capacità di trovare nuove soluzioni agli elementi di criticità che emergono nel tempo. La sua forza risiede non tanto nella qualità dei singoli componenti, quanto nella capacità di creare al suo interno un insieme efficace di relazioni.

Pertanto un ecosistema entra in crisi quando si smantellano progressivamente le sue relazioni interne. Questa è esattamente la risultante globale del comportamento delle popolazioni umane industrializzate in particolare con l’avvento dell’epoca consumistica. Il comportamento che ne deriva ha profondamente trasformato la relazione tra l’uomo ed il suo ecosistema attraverso un’alterazione progressiva delle condizioni ambientali (deforestazione, colonizzazione abitativa, caccia intensiva, drastica riduzione della biodiversità animale e vegetale, immissione nell’atmosfera dei gas serra e di rifiuti chimici nel terreno, utilizzo di combustibili non rinnovabili, isole di calore in relazione ai grandi insediamenti urbani o industriali). L’effetto globale di questi cambiamenti può essere sintetizzato in uno shift di paradigma culturale: da un “vivere nell’ecosistema” in un “vivere a spese dell’ecosistema”. Questo prelevare continuamente ed impunemente risorse dall’ambiente, pone la nostra civilizzazione consumistica in un enorme debito nei confronti delle generazioni di domani.

La progressiva segregazione dell’uomo dall’ambiente è diventata una ossessione nelle grandi città. Sentirsi protetti entro scatole di asettico cemento artificiale, lontani da animali e verde “infestanti”, sembra essere un sintomo fobico dominante nell’uomo comune di oggi. Lo ritroviamo come modello di riferimento nei cartelloni e negli spot pubblicitari dove la casa è presentata come un sistema di “protezione dall’ambiente”. La segregazione culturale e fisica dall’ambiente è la misura della nostra tendenza alla rottura della relazione principale, quella che regola il principio di coevoluzione. Tale approccio separativo ha frammentato il valore d’insieme della rete di relazioni che ci lega al mondo circostante riducendo ognuna di queste relazioni ad una singola entità. L’animale è visto perlopiù come cibo da produrre a costi sempre più bassi; la produzione d’energia è scissa dall’effettivo consumo e dalle implicazioni ambientali; gli spazi privati hanno il predominio sugli spazi pubblici. In sintesi l’ambiente è visto come un bacino di

risorse da predare, in un mondo in cui la densità abitativa realizza una fortissima pressione sull’ambiente stesso. Lontana è l’idea che l’uomo sia “ospitato” dalla terra e tutti gli atomi della sua civiltà vengono e tornano all’ambiente. Così come il corpo di ognuno di noi è formato da atomi che hanno servito molte altre vite e molte altre ne dovranno servire e pertanto è soltanto “in prestito” in questo ecosistema.

Forse è l’insieme di questi aspetti, densità di popolazione e comportamento aggressivo verso l’ambiente, il motivo per cui l’urbanistica ha perso quella sua qualità magica di aggregazione cellulare eppure strutturata che caratterizzava le città storiche. Quel processo, basato sull’auto-organizzazione, era fondato sulla crescita cellulare (teorizzato da Wolfram come “automa cellulare”) in cui ogni nuovo elemento veniva spontaneamente realizzato in perfetta relazione con gli elementi circostanti costruendo un pattern complessivo coerente. Questo processo oggi si è interrotto proprio perché l’atteggiamento predatorio ha rotto l’etica della relazione locale che non viene più rispettata spontaneamente. L’obiettivo è prendere quanto più possibile da ciò che è intorno, spazio, luce, attenzione, separazione. È diventato allora necessario imporre un sistema di regole costruttive, una pianificazione rigida del territorio per difendere la comunità dall’aggressione individuale. Ma ponendo regole rigide e stilemi predefiniti, si sono interrotti i flussi creativi e le relazioni locali, la “magia cellulare” di un tempo si è vanificata, l’urbanistica ha cessato di essere un’arte spontanea.

L’allentamento della relazione uomo-ambiente non è un aspetto isolato ma è un atteggiamento tipico della cultura consumistica individuo-centrica dove anche le relazioni persona-società, persona-persona e persona-Sé sono alterate dalla dinamica del possesso di beni materiali, potere ed immagine sociale. Lo stesso progresso della nostra società si misura nell’aumento del PIL. Paradossalmente in un’era dominata dalla nuova connettività, l’uomo sembra più isolato di prima e più confinato all’interno di stereotipi consumistici. L’avvento delle tecnologie elettroniche ed ICT (Information & Communication Technologies) non sembra aver avuto la forza di rovesciare la tendenza all’isolamento individuale ma semmai ne ha amplificato il fenomeno.

In un sistema siffatto l’innovazione tecnologica è quasi del tutto sostenuta dal gioco della domanda-offerta e la maggior parte delle innovazioni introdotte rispondono alla esistenza di una forte richiesta del mercato. Molte delle tecnologie ICT cui abbiamo assistito hanno grandi potenzialità nel rinforzare la coesione sociale (il telefono, la radio, la televisione, le automobili, i cellulari, i giochi elettronici, internet, l’amministrazione digitale), eppure l’uso o meglio l’ab-uso che ne viene fatto oggi ha in molti casi deviato dalla potenzialità originaria. Tutto sembra rispondere ad una forte richiesta sociale di “tecnologia per l’assenza” ossia di tecnologie che spingono la persona ad “assentarsi” dalla realtà che li circonda attraendone desiderio e tempo aldilà di ogni ragionevole aspettativa. Passare molte ore davanti ai programmi spazzatura o ai videogiochi o in fatue estenuanti comunicazioni al cellulare o nelle chat o fare “gite al centro commerciale” (si potrebbero fare moltissimi altri esempi) non ha più il senso dell’intrattenimento o dello scambio ma semmai produce distacco dalle altre persone e da se stessi scivolando in una sorta di realtà virtualizzata con una sempre più profonda assimilazione degli stereotipi consumistici e globalizzati uguali in buona parte del mondo fortemente industrializzato e con l’assorbimento di una consistente dose di “paura” verso il mondo stesso.

I risultati evidenti sono quindi nella perdita di relazione con l’ambiente, con gli altri e perfino con se stessi. L’evidenza di ciò nel tessuto urbano è l’allentamento del senso di comunità e della coesione sociale e la perdita di una identità locale intesi in termini di scambio, di memoria del luogo, di segni urbani e della loro specificità. Rimanendo nella metafora degli ecosistemi biologici possiamo dire che stiamo progressivamente perdendo biodiversità culturale a favore di una omologazione consumistica sui format globali.

Occorre partire da queste motivazioni profonde se si vuole orientare la trasformazione della città verso un principio di sostenibilità inteso non soltanto come recupero di un rapporto corretto con l’ambiente ma anche come sostenibilità sociale dello sviluppo. Occorre trattare in un’unica cornice culturale sia gli aspetti energetici ed ambientali e sia gli aspetti relazionali e sociali. In questo senso il paradigma dello sviluppo sostenibile può essere la chiave di volta perché, per sua natura, mira a ricostruire attenzione e cura nel rapporto tra – persona ed ambiente -. Aggregare a questo paradigma forme di attenzione e cura per il rapporto tra – persona e città – e – persona e comunità – è quindi una logica adiacenza come lo stesso rapporto tra – persona e persona -. Si tratta di forme di relazione da ascrivere alla attenzione verso un “patrimonio comune”.

Questo principio può ancora applicarsi per discernere le tecnologie da impiegare per trasformare la città in una città “smart”. E’ importante sottolineare che un atteggiamento scettico nei confronti della tecnologia in genere non avrebbe altro risultato che quello di lasciare spazio alle sole “tecnologie dell’assenza” sopra esposte. Un atteggiamento poco attento alla “critica della tecnologia” otterrebbe lo stesso tipo di risultato negativo, mentre un impegno verso un utilizzo alternativo ed attento delle stesse tecnologie è l’unica strada percorribile. Occorre un

impegno nello sviluppo di tecnologie che potrebbero definirsi “della presenza e della partecipazione”, tecnologie che mirino alla crescita di consapevolezza della attività locale e spingano le persone a contribuire alla trasformazione dal basso piuttosto che attendere scelte industriali e/o governative che vengano imposte dall’alto.

Il riferimento ideale che potrebbe ispirare tali trasformazioni è quello dell’ecosistema urbano. Progettare insediamenti e città come ecosistemi significa fare attenzione all’intero ciclo di vita dell’insediamento a partire dall’impatto ambientale della sua stessa realizzazione. Operare un approccio sistemico significa tenere conto dell’interrelazione di una moltitudine di flussi di materia e di energia che sono messi in moto dalle forze sociali e naturali che intervengono. Forze sociali quali mobilità lavorativa, logistica delle merci, energia termica ed elettrica, acqua, cibo, gioco, salute, attività sportive e culturali, attività produttive e direzionali, integrazione multietnica, rapporto con la natura ed il mondo animale, solidarietà sociale, riciclo e smaltimento dei rifiuti, telecomunicazioni, creatività sociale, sono i motori che poi determinano le dinamiche delle relazioni interne.

Un riferimento culturale molto interessante per la sua trasversalità è costituito dalla grande cornice della teoria delle reti complesse che si è sviluppata a partire dagli anni Duemila (Barabasi, Watts e Strogatz). Lo studio delle reti complesse in molti settori (dalla biologia al linguaggio, alle reti telematiche ed energetiche) ha mostrato che la topologia della rete ha una rilevanza enorme sulle problematiche e prestazioni che tali reti faranno emergere. Modellare o comunque avere come riferimento il sistema di forze sociali di una città come una grande rete complessa, può permettere una visione più ampia e realistica dei bisogni che si stanno innescando con una determinata scelta urbanistica (es: mobilità, logistica, energia, rifiuti). Molto più che nel passato, la città si presenta oggi come un addensamento geografico di reti di relazioni strutturali (frazioni, quartieri, strade), materiali (scambi di merci, mobilità, rete idrica ed energetica) ed immateriali (comunicazione, servizi) spostando il modello verso una struttura a “reti urbane interconnesse”. La interconnessione tra reti è pertanto la nuova materia tecnologica su cui possono essere fatti grandi passi in avanti. L’interconnessione può essere in molti casi strutturale (es: la rete di trasporto della energia elettrica può coincidere con la rete di trasporto della informazione) o funzionale (più funzioni vengono svolte dagli stessi oggetti urbani) o sensoriali (le stesse informazioni sulla attività urbana possono essere utilizzati per diverse finalità).

Anche la rete di relazioni presenta molti livelli di opportunità per lo sviluppo di una tecnologia a misura d’uomo. L’ambiente urbano è per sua natura differente dall’ambiente domestico in cui tutte le relazioni sono “fisiche” e dall’ambiente digitale (internet, TV, telefono) in cui tutte le relazioni sono “virtuali”. Nello spazio urbano è possibile creare nuovi modelli di interazione persona-ambiente che potrebbero avere la specifica finalità di creare scambio, coesione, informazione in contesti ibridi reale-virtuale, creare cioè nuovi luoghi di incontro ibrido in cui reale e virtuale si attraggono. Molti oggetti urbani attualmente mono-funzione possono divenire multifunzionali. I lampioni della illuminazione pubblica possono diventare intelligenti ed ospitare sistemi multisensoriali (traffico, qualità dell’aria, sicurezza, attività) così come chioschi, fermate e paline dell’autobus, panchine, giardini, manifesti, cassonetti per la spazzatura, marciapiedi, alberi. Perfino gli edifici pubblici possono essere dotati di una “pelle interattiva” per permettere comunicazione a distanza, dare informazioni, creare punti di incontro o di supporto sociale o di creazione collettiva, essere schermi per l’espressività artistica o ospitare la memoria storica del luogo o favorire lo scambio multietnico.

Le tecnologie di base in realtà esistono (energia pulita, mobilità sostenibile, ICT, connettività, interattività, sensoristica wireless,….) ma ciò che manca ancora è la capacità di costruire un uso urbano efficace di tali tecnologie. Manca la capacità di integrarle e di sviluppare una visione tecnico-sociale verso l’idea della tecnologia “human oriented” capace di sciogliere la paura dell’altro e creare coesione. Manca ancora la capacità di rendere economico e competitivo tale approccio e mancano i cosiddetti nuovi “modelli di business” che permettono la diffusione degli interventi su vasta scala. Manca ancora soprattutto la presenza di una domanda forte che possa sostenere lo sviluppo e l’offerta sul mercato di soluzioni competitive.

Ma la domanda è fortemente connessa alla sensibilità culturale del cittadino e delle sue comunità. Senza uno spostamento culturale, tali esperienze si rivelano fughe in avanti, fondamentali per aprire nuovi varchi culturali e tecnologici ma poco efficaci da sole per trasformare il territorio in città a misura d’uomo. Occorre tornare ad avere il coraggio e la responsabilità di sognare città più sostenibili ed agire di conseguenza.

“Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!”. Martin Luther King, ’63

*Laureato in Ingegneria Nucleare. Attualmente è coordinatore delle attività ENEA sulle tematiche della Smart City e della Ecoindustria.  Delegato italiano del network europeo EERA Smart City (European Energy Research Alliance) dove coordina il programma “Urban Energy Networks”.

link utili:

http://eu-smartcities.eu/
http://patrimonioculturale.enea.it/ambiti-di-ricerca/uso-sostenibile-e-gestione-dei-rischi-ambientali-ed-antropici/smart-city