I forzati del benessere

di Antonio Ricci

C’è una idea di benessere che vorrebbe il ripristino degli equilibri perduti, una sorta di ritorno al passato; oppure un’idea che vorrebbe l’esistenza priva di frustrazioni, o un futuro migliore privo di fatica e angosce, alla ricerca unicamente di piaceri sensuali. Sono idee di benessere che anelano ad un mondo frutto sostanzialmente di fantasie infantili onnipotenti; fantasie di dominio e d’accudimento, appoggiate su bisogni sempre più primari; fantasie che spaccano la realtà in due, associando in modo acritico, come se fossero sinonimi, piacere e bene da un lato, e dolore e male dall’altro. Un mondo dove la morte con tutto il suo corollario di incertezza, minaccia e precarietà, la si vorrebbe inesistente e sconfitta.

Eppure, se si realizzasse sarebbe un mondo invivibile, abitato da adulti/bambini avidi e violenti, parassiti incapaci di modulare i sentimenti e di tollerare la benché minima frustrazione, dediti al controllo e allo sfruttamento della vita degli altri; un mondo feroce di delinquenti o di psicotici. Ma forse in parte è già così, perché il delinquente per essere tale ha bisogno di chi non lo è per sfruttarlo, e lo psicotico, per diventare tale, ha avuto bisogno di generazioni di dinieghi, scissioni e dolori mai superati, ma infine il pazzo è lui e non chi lo ha preceduto.

Forse in ognuno di noi c’è un pazzo, un assassino o un delinquente ma crediamo tutti, in fondo, di essere innocenti.

In questo articolo del 2013 mi schiero nettamente dalla parte di un’educativo e di una psicologia che non sono né addestramento né ammansimento, che vogliono  restituire la dignità del vivere alla persona, con tutte le sue contraddizioni e aporie, all’interno di una idea di benessere che rifiuta l’illusorietà della felicità a tutti i costi e che mira all’interezza e non alla scissione.

Roma, 21 marzo 2021

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Siamo nella Spagna dell’inquisizione. Nella penombra di una cella il cardinale “grande inquisitore” sta parlando ad un prigioniero silenzioso e attento: è il Cristo che è tornato. In quest’immagine così potente de “I fratelli Karamazov”, Dostoevskij ci lascia una riflessione che ancora fa pensare e inquieta: gli uomini non vogliono libertà ma mistero, autorità e miracoli.[1] Inquieta perché interroga, da voce a pensieri e domande difficili, scruta una realtà umana senza tempo che obbliga a cercare una propria risposta. Contrapponendo la libertà al mistero, all’autorità e ai miracoli, egli ricolloca la responsabilità al centro dell’esistenza di ogni persona. Eppure non è così chiaro quanto grave sia ciò che denuncia, cosa comporti questa contrapposizione e perché l’una cosa sia incompatibile con le altre.

J.P. Sartre rapporta l’angoscia di vivere con la libertà di scelta, il cui manifestarsi è proprio l’elemento che rivela la nostra condizione originaria di uomini e donne liberi di autodeterminarsi. In tal senso ogni scelta, azione e stile di vita diventano un problema di coscienza dove vero e falso, giusto e sbagliato si formulano a partire da se stessi nel rapporto con il mondo e dai significati che ognuno è riuscito a dare. L’uomo deve creare la propria essenza attraverso la sua libera scelta. La fondamentale libertà della persona è un peso da sopportare ed è fonte di angoscia nell’incertezza delle proprie scelte, nell’instabilità del propria esistenza, nella possibilità di errore e fallimento.

Partirei quindi da questa definizione.

Guardo me, guardo le persone che incontro, sconosciute o familiari che siano, guardo le persone che si rivolgono a me come insegnante o educatore, come clinico o pedagogo e vedo molti modi di vivere tra desiderio e paura, modi diversi di coniugare tale rapporto tra angoscia e libertà. Guardo e imparo.

Quali soluzioni hanno trovato? Per cercare d’ottenere cosa? Con quale successo, a quale prezzo pagato e ancora da pagare? 

In molte persone esiste un fragile equilibrio tra voglia di anestesia e apertura all’esistenza, sempre tentati dall’illusione di ottenere molto facendo poco, e soprattutto senza sofferenza e senza esiti incerti. Non sono pochi però anche coloro che, al contrario, pur seguendo il loro desiderio d’apertura all’esistenza, ricercano l’interezza senza più l’illusione di ottenerla a buon mercato. Interezza e passione di vivere sono obiettivi primi dagli esiti incerti per definizione, inconciliabili con la ricerca d’immunità dal dolore di vivere. La mia esperienza appartiene a questo secondo ordine di cose e da essa parto nel mio lavoro psicopedagogico e di educazione degli adulti.

Dialogare con la sofferenza altrui, e con la relativa ambiguità di fondo che l’accompagna, può essere molto faticoso perché, a volte, non si può fare null’altro che ascoltare, si può piuttosto aiutare la persona a sostare in quella scomoda condizione con dignità e ad accettare la momentanea o la definitiva mancanza di soluzioni. Inoltre può succedere che, inconsapevolmente, ci giunga una richiesta d’aiuto accompagnata dalle regole, più o meno esplicite, di come esso debba essere fornito, di come dobbiamo essere, quali emozioni provare, quali sentimenti esprimere, quali divieti, obbligazioni affettive e relazionali siano ammesse, ciò che deve essere salvato e ciò che deve essere estirpato. Comprensibile, e punto di partenza spesso obbligato, ma comunque faticoso. Dietro l’ambiguità s’intravede la paura e, prima di essa, tutta l’opposizione e l’intenzione di non mollare la presa: via la sofferenza, certo, ma senza rinunciare a nulla.

Un muro enorme si erge tra la profondità dell’anima, il desiderio di quiete, la voglia di libertà e il bisogno di comprensione e amore. Un muro di paura e di controllo che non può essere abbattuto con la violenza, né scavalcato con l’inganno, ma che deve piuttosto sbriciolarsi da sé, come una pietra scavata dall’acqua e dal vento, frantumata dal caldo e dal ghiaccio: crolla un po’ alla volta, dolcemente, senza rumore, crolla per il bisogno d’ampiezza e di spazio e per la necessità di tenerezza e d’autenticità. Crolla per amore della verità nell’accettazione della propria debolezza e vulnerabilità. La fatica di ogni relazione sta forse proprio in quest’ultima esigenza di tempo: non si può avere fretta quando è in gioco l’integrità propria e dell’altro.

Recentemente l’industria degli psicofarmaci ha immesso sul mercato rimedi antidepressivi che, a parità di effetti sui sintomi, sono molto più veloci ad agire. Benessere immediato, senz’attesa. Il principio è semplice: perché soffrire inutilmente, perché attendere quando puoi avere subito la quiete che desideri? Perché faticare anni con risultati incerti, magari scoperchiando verità scomode e destabilizzando rapporti chiaramente insani, quando puoi togliere tutta quell’inquietudine in pochi minuti con una pillola e con la massima efficacia? È pur sempre una questione di chimica.

Rispetto alle persone gravemente depresse, a volte penso che viverci assieme in effetti non deve essere semplice, perché possono essere perniciose e ostinate, silenziosamente aggressive e giudicanti, dotate di sistemi evacuatori dell’angoscia molto attivi e scaltri, prive d’iniziativa ma invidiose dell’iniziativa altrui, noiosissime, arroganti, affettivamente ricattatorie, massicciamente proiettive, lagnose e dipendenti. Insomma possono essere dei veri pesi inerti e condizionanti. Perciò può sorgere il dubbio che il farmaco, più che a loro, possa servire a coloro che ci convivono per neutralizzarli più rapidamente e senza rischi di liti, crisi, confronti, angosce e separazioni. Ha sicuramente il suo senso, però, così come il troppo dolore rende inabili, anche l’anestesia eccessiva e prolungata crea degli inetti avidi e psichicamente mutilati. Genera una sazietà illusoria e passiva, rapporti sterili e infelici.

Allo psichiatra compassionevole spero rimanga aperta una domanda: questa quiete di farmaci sta danneggiando o sta favorendo la persona nella sua umanità? Al terapeuta e all’educatore invece, con certezza, credo non debba mancare la medesima domanda: questa quiete di spiegazioni, questo contenimento e accudimento stanno danneggiando o favorendo la persona nella sua umanità? Indurre una sazietà passiva e a buon mercato, toglie il bisogno di porsi domande scomode, induce a non cercare i giusti cibi e produce una dipendenza insana. Togliere il farmaco, far toccare il dolore, riconsegnare la sofferenza e con essa l’angoscia della libera scelta e della responsabilità, senza togliere il sostegno e la fiducia, sono atti dovuti che certamente devono essere preparati, e per far ciò ci vuole tempo, competenza e passione; atti che prima o poi devono emergere affinché possa davvero nascere una relazione sana, un’umanità pensante e libera, ben poggiata sulle propria coscienza e le proprie gambe. All’angoscia c’è soluzione alla sofferenza no, ma il problema è un altro: se il punto d’approdo nessuno lo rifiuta, la strada per arrivarci invece si.

Mi rendo conto che il mercato di una certa cultura del benessere, propone un’opposta direzione ben più proficua, fatta di soluzioni rapidissime e certe. Essere felici è così diventato un obbligo da consumare in fretta, monodimensionale e passivo, sensuale e di superficie, reiterato e senza fondo. Condizione al contrario angosciante per chi invece, pur ritenendo la felicità uno stato importante, la coniuga e misura in molti modi: al suo passare nell’attesa che torni, nella sua quieta profondità o nella sua assenza; amandone le infinite sfumature e continue fluttuazioni o assaporandone la bellezza che le si associa in ogni sentimento, sia esso di tristezza o di gioia. Questa è una condizione possibile per l’uomo e la donna maturi che hanno scelto quella forma di piacere che non esclude alcuna lotta, sacrificio, strettoia o rinuncia.

In fondo, ad ognuno è data la possibilità di vivere come preferisce, di soffrire o gioire delle proprie scelte. D’altronde non credo possa nascere alcuna reale esigenza di cambiamento se non dalla valutazione sofferta delle conseguenze del proprio agire, esigenza tanto reale quanto difficile da sostenere. Nessun cambiamento radicale e profondo può prodursi in un giorno, ogni tentativo è lecito e alla consapevolezza di cosa ognuno di noi abbia realmente bisogno per sentirsi appagato, si può giungere anche per vie molto lente e tortuose. Il cambiamento è  sia il risultato di una resa che di una lotta, sia di una rinuncia, che di un’appropriazione. Nessuna soluzione può dirsi più giusta di un’altra se non come testimonianza, che per sua natura può essere solo ostensiva, che non vuole dimostrare né imporre alcunché, ma solo presentare ciò che è per quello che è.  Ritengo che questa sia l’unica strada relazionale possibile per un educativo edificante.

L’illusione d’intoccabilità che può aver accompagnato gli esordi di molti educatori e terapeuti, prima o poi cade, o meglio, cade se lo si vuole.  L’empatia e la disponibilità all’ascolto richiedono che ci sia un posto per gli altri in se stessi. Cade l’illusione di poter “frequentare” la sofferenza altrui rimanendo neutri: è un’idea che somiglia all’indifferenza e coltiva semi di un narcisismo velenoso e vampiresco. La sofferenza altrui può essere piuttosto attraversata insieme, il che comporta il lasciarsi toccare e trasformare da ciò che succede, senza  esserne travolti. Serve uno stabile senso della propria identità e umanità, prima ed oltre qualunque tecnica.

Le strategie terapeutiche, la tecnica scaltrita, le procedure standardizzate, le valutazioni diagnostiche, le certezze cliniche e pedagogiche, servono perché orientano, aprono le porte ma una volta entrati nel mondo di chi ci sta di fronte, ha davvero il diritto di parlare solo l’uomo e la donna che siamo. Si parla a qualcuno non a qualcosa, qualcuno che dobbiamo prima vedere e toccare, nell’insufficienza della nostra visione. Il bisogno di comprendere sorge, forse, subito dopo. Ascoltare qualcuno, nella sua sofferenza, richiede rispetto, quindi l’esserci tutt’interi, presenti e visibili.

Intero non è sinonimo di perfetto. Chiede vigilanza. Perché stupirsi quindi: la relazione impegna, perciò a volte stanca.

Carl Whitaker[2] descrive bene il suo “essere per l’altro” nella relazione terapeutica, in quanto soglia visibile tra “cura” e “crescita”. Parafrasandolo credo si possa quindi dire che educare e curare abbiano il significato di tentativo; cioè l’essere coinvolti in un’esperienza reale con la persona, senza forzarla verso alcun cambiamento; tentativo di coinvolgerla in un confronto e in una condivisione di prospettive, lasciandola però libera di fare ciò che vuole con ciò che le diamo e diciamo. Educare e lavorare per la  “guarigione” quindi, in questa prospettiva significa portare la persona ad assumersi la responsabilità di ciò che pensa, desidera e vuole, allontanandola dalla dipendenza illusoria del nostro insegnamento.

Educare e operare per la “guarigione” vuol dire indurre la persona a prendere sul serio la propria vita emotiva e relazionale, senza essere noi a prenderla più seriamente di quanto essa sia disposta a fare, nel rifiuto di essere responsabili al suo posto. Vuol dire stabilire le condizioni in cui si può sviluppare la possibilità di essere sinceri e onesti nella relazione.

Se l’obiettivo più grande dell’educativo e del processo individuativo, è quello di giungere ad esperire il mondo e la realtà in modo sempre più ampio e profondo, espandendo sia la nostra esperienza di vita, sia la nostra coscienza e conoscenza, credo si debba quindi includere nel concetto di benessere tutto ciò che sembrerebbe negarlo, come l’incertezza, l’attrito, il brutto, il disarmonico, il dolore, la sofferenza, ovviamente quand’essi sono il risultato passeggero di tale ricerca e dell’esistere stesso e non il prodotto di una volontà distruttiva.

Questo è un benessere sicuramente difficile da accogliere, perché non di facile accesso, più complesso e molto lento nel progredire ma è un benessere che di certo può radicarsi in profondità ed avere il sapore sanante di realtà, che parla di stabilità, consistenza e pienezza.

[1] Cfr. F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov – Il grande inquisitore.

[2] Cfr., C. Whitaker, Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio.

Foto di A.R.