La Psicoterapia: tra richiesta di guarigione e domanda di conoscenza

di Giuseppe Esposito *

La psicoterapia, in quanto pratica di cura, non si esaurisce e non si riduce ad essere solo una risposta al bisogno di guarigione in quanto, nella richiesta di guarigione, si mescola e si annoda, sempre, una domanda di cambiamento e di conoscenza. Possiamo parlare di esito e di un buon effetto della cura solo se essa è compresa nel significato e nella  cornice di una conoscenza più ampia per la persona. Già Freud, con la Psicoanalisi, aveva sottolineato che il valore degli “effetti”, nella guarigione e nella risoluzione del sintomo attraverso la cura, possono essere ritenuti validi solo se sono anche il risultato e l’esito di una conoscenza più profonda che determina, di fatto, un reale cambiamento nella vita del paziente. Nel trattamento  terapeutico, l’oggetto di attenzione non è tanto il sintomo ma è la  struttura psichica e la struttura relazionale del soggetto che lo determina e produce.

Per C.A. Whitaker e T. Malone: “La Psicoterapia, pur essendo basata sulla psichiatria, ha un orientamento un po’ diverso, in quanto non è focalizzata nella patologia in sé, ma sulle dinamiche terapeuticamente rilevanti della patologia presentata. Lo psicoterapeuta è essenzialmente un empirista, interessato alla relazione tra patologia e crescita; egli tenta di comprendere la psicodinamica patologica di un individuo specifico, ma con lo scopo di facilitare la crescita terapeutica della persona. Il suo interesse verso la genesi della psicopatologia è secondario all’idea di poter influire sul potenziale terapeutico insito nella patologia attuale”. (1)
La clinica della sintomatologia psichica evidenzia come nella richiesta di guarigione si mescoli un interrogarsi ed una riflessione sulla qualità della propria  vita, della propria umanità, sulla propria storia, sulle proprie modalità relazionali, al rapporto con il proprio corpo,  sulla propria morte, sul proprio divenire, ecc. Perseguire con realismo un bisogno di salute psichica necessita di un fisiologico movimento evolutivo che il paziente è chiamato a compiere e, attraverso il processo terapeutico, si creano e si determinano quelle condizioni che possono sbloccare una dinamica evolutiva che, con il sintomo, si è ancorata, fissata ed ingessata nel godimento di una sofferenza sintomatologica. E’ la sofferenza sintomatologica, e l’angoscia ripetitiva che ad essa si accompagna, a funzionare da stimolo, da forza, da spinta e da motore affinché il paziente possa orientare la propria azione nella direzione di cura e di una conseguente conoscenza della propria singolare soggettività. Il sintomo è il significante di una più lunga ed articolata catena di significanti che ha origine nel luogo più intimo di noi stessi, ed è una chiave di accesso per la comprensione della propria soggettività e del proprio desiderio inconscio. Il qui ed ora della relazione terapeutica evidenzia come il processo di costruzione e costituzione della singola soggettività, i conflitti interni e le rappresentazioni inconsce delle modalità relazionali primarie, si esprimano anche attraverso le modalità comunicative, rappresentative e simboliche della sofferenza sintomatologica. Il bisogno di guarigione crea l’opportunità e l’occasione per comprendere cosa la sintomatologia sofferta vuole dire della ed alla persona. Dalla mia esperienza clinica si evince che insieme alla richiesta di guarigione emerge anche una domanda di più ampia conoscenza che consente alla persona in trattamento di occuparsi, oltre che delle proprie modalità di funzionamento psichico e relazionali, anche dell’ignoranza che ha su di sé.

Da P. Menghi, come da altri psicoterapeuti, è stato evidenziato  come la sofferenza psichica abbia origine e sia strettamente correlata all’ignoranza, nel senso dell’ignorare una conoscenza di sé. Menghi evidenzia come, per il paziente, l’obiettivo di star meglio sia una sorta di obiettivo intermedio e sposta più in là (con una specifica domanda che più avanti prenderemo in considerazione) del bisogno di salute, in uno spazio più aperto e  più incerto, la questione relativa alla conoscenza di sé  in quanto invita la persona e non più il paziente, ad interrogarsi ed a riflettere sul senso e sulla direzione della propria esistenza una volta che si ritenga di aver raggiunto uno stato di ragionevole benessere, una volta che l’azione terapeutica  possa ritenersi conclusa.

Menghi chiede: “L’obiettivo è star meglio, ma star meglio per fare cosa? Per andare dove?…”. (2)
E’ una domanda rivolta alla persona pronta ad interrogarsi, perché meno assillata dall’incombenza e dall’ingombro sintomatico, sul proprio desiderio (qui, da me inteso come desiderio inconscio così come  coniato nell’insegnamento della psicoanalisi e nello specifico da J. Lacan) e su ciò che lo contraddistingue e singolarizza. Egli pone una questione che non si esaurisce nel solo  bisogno-obiettivo del raggiungimento di uno “star meglio”, attraverso una richiesta di guarigione, perché il più delle volte questo “star meglio” ritorna ad essere uno star peggio per cercare di nuovo di star meglio e così via in una coazione ripetitiva. La psicoanalisi ha ampiamente descritto e spiegato la tendenza distruttiva dell’uomo attraverso la pulsione di morte, o pulsione distruttiva o tendenza della vita a dissiparsi, la tendenza dell’uomo allo spreco distruttivo della propria vita, di una vita votata allo spreco.
Menghi invita, attraverso tale domanda, ad entrare nella profondità di se stessi per interrogare il proprio singolare desiderio.
Egli dice: “Il desiderio è energia vitale in azione nella psiche. Esso nasce dalla mancanza, che nasce dalla coscienza di separazione, che nasce dallo struggente ricordo della coscienza di unità. Il desiderio è il ponte. Il desiderio è l’ostacolo. E’ il ponte se noi ci serviamo di lui, è l’ostacolo se è lui a servirsi di noi. Desiderio e volere non sono due cose opposte: il secondo è il prodotto del primo. Ma è fondamentale non confonderli perché altrimenti si perde molto tempo e si genera molta sofferenza inutile. Quando il desiderio dà energia alla volontà di perseguirlo e quando la continuità di questa unione ha reso trasparente sia il desiderio che la volontà, si accende un fuoco nel  cuore…”. (3)
Significa provare a spingersi  più in là, attraverso di esso, per andare oltre il bisogno di salute, in una zona, in un territorio sconosciuto per poi potersi incamminare alla ricerca di altra soddisfazione, una soddisfazione che non è riducibile al solo voler star bene. Ciò che Menghi pone, a mio parere, non è distante ma in sintonia con la teorizzazione e l’insegnamento della psicoanalisi sul modo di intendere la cura, la salute ed il processo di conoscenza della persona e su ciò che, attraverso una richiesta di guarigione, viene  attivato nel soggetto perché, come vedremo e approfondiremo più avanti, la clinica, la salute e la conoscenza di sé si muovono su strade e percorsi diversi che in alcuni momenti coincidono ma che non sono sovrapponibili. Quella di Menghi  è una domanda che interroga la persona sulla propria vita una volta che sente di star meglio, evidenzia come il processo di cura e di guarigione sia, in qualche modo, sempre connesso ed agganciato ad una domanda ma anche ad una chiamata per il raggiungimento di una più ampia conoscenza di sé, una conoscenza intesa come il frutto di un processo esperienziale e non come l’accumulo di un sapere, come possiamo trovare detto in più modi nel testo Trasformare la mente (3). Si potrebbe affermare che non si ha effetto di guarigione solo perché si è capito che fare quella cosa mi fa male (attraverso un processo di razionalizzazione), non basta capire, ma si guarisce, e contemporaneamente si entra in un altro piano di conoscenza di sé, solo se entra in gioco una soddisfazione più forte di quella del godimento sintomatico, una soddisfazione che sia più forte del cibo, dell’assenza di cibo, della droga, dell’alcool, della dipendenza nevrotica da una relazione, da un’ossessione, da una paura paralizzante, da un automatismo ecc. Un soddisfacimento che non è l’effetto di una sostituzione (nella forma e nelle caratteristiche di un legame di dipendenza) di un oggetto con un altro oggetto di godimento ma è ampia apertura verso altra forma di soddisfazione in quanto l’oggetto può soddisfare il bisogno ma non il desiderio che nella sua natura è caratterizzato e costituito dall’essere mancanza (come evidenzia nell’ambito del pensiero filosofico Hegel e poi, in quello psicoanalitico, prima  Freud e poi Lacan, ed in ambito normodinamico, Menghi).
Quella di Menghi è una domanda che viene da un altrove, non solo da un dentro ma anche da un fuori del soggetto: è una  chiamata, una chiamata che convoca, chiama in causa e si rivolge al desiderio inconscio del soggetto, quello nascosto, coperto ma attivato, resuscitabile e reso accessibile  dalla sofferenza sintomatologica. La richiesta di cura rimanda sempre ad una domanda più ampia perché è domanda di conoscenza ma è anche chiamata che viene da un altrove, non solo da un dentro ma anche da un fuori del soggetto, perché interroga la persona. Ciò, a mio parere, apre un varco per una riflessione (anche in ambito psicoterapeutico) sulle possibili molteplici risposte e percorsi che possono essere intrapresi senza travisare e senza eludere, o negare, l’angoscia e le inquietudini che a una tale domanda e chiamata si accompagnano.

Attraverso il percorso  psicoterapeutico la persona ha l’opportunità di rileggere, in profondità, la propria storia, il proprio modo di vedere e d’interpretare le cause dei propri conflitti interni, acquisendo sempre più elementi di conoscenza sulla propria struttura psichica. Insieme ad una maggiore chiarezza  di sé, della propria struttura psichica e del proprio modo di funzionare si fanno strada e si sviluppano, progressivamente, domande e stimoli che aprono la persona ad una conoscenza di più ampia portata. L’entità psicopatologica di un sintomo è una “normale” risposta (che richiama ad altri significanti, perché è anche un modo che consente al soggetto di  esplorare ed accedere ad altri significati che lo rappresentano nella propria storicità) che la persona dà e che continua a dare del proprio vissuto e dei fatti che l’hanno coinvolta ed attraversata. Il sintomo è un automatismo ripetitivo che si fa carne nel corpo e nel processo di costruzione della struttura soggettiva e che consente di accedere, attraverso gli altri significanti,  ad una conoscenza sia della lingua che del modo di funzionare del proprio inconscio aprendo, nella vita del soggetto, scenari sconosciuti e in divenire. Per il trattamento terapeutico la sofferenza sintomatologica non è un qualcosa da eliminare e basta, essa ha le caratteristiche di un’energia creativa e generativa bloccata e pertanto è un qualcosa da interpretare (perché è un dire intorno al soggetto), da comprendere e da trasformare al fine di renderla duttile e generativa all’interno di un processo di cambiamento. E’ come un metallo che va lavorato per ripulirlo da una grossolanità ed impreziosirlo, in modo che possa agganciarsi al desiderio inconscio del soggetto.

Il terapeuta, nella dinamica di una relazione trans-ferale e attraverso  un uso evolutivo del sintomo, sostiene la persona nel progetto e nel processo di conoscenza, aiutando e sostenendo la persona nella costruzione di uno sguardo competente su di sé affinché possa trovare le proprie parole di verità su di sé. Egli non risponde a domande (non si rende ingombrante e non esercita funzione di padronanza con il suo sapere) ma fa sì, attraverso la sua azione fatta di una presenza che custodisce un silenzio in cui è la parola dell’altro a trovar voce, che sia la persona a sviluppare e a trovare le parole che siano veritiere di un sapere su di sé e fonte di comprensione per cercare e trovare le giuste risposte alla propria sofferenza sintomatologica.

J. Lacan evidenzia la molteplicità di interpretazioni che in una richiesta di guarigione vengono evocate e come una tale richiesta  non possa essere recintata nel solo valore-obiettivo di salute. Egli mette in luce come la richiesta di guarigione  porti in sé molteplici e diverse interpretazioni sui significati di guarigione di relazione terapeutica: “Quando il malato è inviato presso un medico o quando ci va direttamente, non dite che egli si aspetta puramente e semplicemente la guarigione. Egli mette il medico alla prova per farlo uscire dalla sua condizione di malato, cosa che è molto differente perché questo può implicare che egli possa essere completamente attaccato all’idea di conservarla. Talvolta, viene proprio a domandarci di legittimarlo come malato. In altri casi viene nel modo più evidente, a domandarci di preservarlo nella sua malattia, di curarlo nel modo a lui più conveniente, quello che gli permetterà di essere ben collocato nella sua malattia(4)
A mio parere, Lacan sottolinea che la domanda di guarigione è anche una domanda d’altro. Vuol dire che è una domanda che apre la persona ad una conoscenza più ampia di sé. La richiesta di guarigione racchiude in sé anche il suo contrario, porta al suo interno l’illusione che uno star bene possa essere acquisito senza passare per un reale cambiamento in quanto, nella richiesta di guarigione, si mescola e si annoda anche un bisogno omeostatico e di rassicurazione che ha l’effetto di spegnere la spinta evolutiva e di realizzazione della persona di contro all’incertezza ed al disorientamento, come effetto di una vitalità, che si crea quando invece il soggetto è chiamato a vivere un processo di reale cambiamento. Lacan mette in evidenza il carattere ambivalente e di esigenza normalizzante  che porta in sé la richiesta di guarigione  ed invita il medico (in questo passaggio) e il terapeuta, a riflettere sui molteplici saperi a cui i significati di guarigione e di relazione terapeutica richiamano. A sottolineare i diversi aspetti, le aspettative ed i significati insiti nella relazione che intercorre tra richiesta di guarigione, domanda di conoscenza e relazione terapeutica è anche  G. Cangueilheim che dice: “Il mio medico è colui che accetta che io lo istruisca su ciò che solo io posso dirgli, su ciò che il mio corpo annuncia a me stesso con i suoi sintomi il cui senso non mi è chiaro. Il mio medico è colui che accetta che io veda in lui un esegeta, prima di accettarlo come un riparatore”. (5)

Un  percorso psicoterapeutico non si riduce ad essere ed a rispondere alla conformità di un  modello uniforme di un ideale di salute, dal carattere normalizzante e caratterizzato da una generica idea salutista della vita. La pratica psicoterapeutica, a mio parere, non mira all’aggiustamento ed alla normalizzazione comportamentale dell’individuo ma, la pratica psicoterapeutica, può essere definita una pratica di liberazione atta a sostenere la persona in un percorso attraverso il quale possa accedere alla  verità di sé, qualunque essa sia.

E’ questa l’etica, a mio parere (e come Freud ha con chiarezza indicato parlando di effetto di cura nell’analisi), a cui essa deve rispondere. M. Recalcati, in una definizione di salute, chiarisce bene  come, a proposito della pratica analitica, essa non risponda ad un concetto normativo di un certo ideale di salute  omnicomprensivo, che annulla la singolarità del soggetto:  “Il concetto di “salute” si pone come una sorta di concetto normativo, come un modello di riferimento ideale che trascura il carattere unico e singolare dell’esistenza che dà per scontato che il corpo vivente segua naturalmente la via universale del cosiddetto benessere”. (6)

A chiarire  la differenza che intercorre e la diversità dei piani su cui si muovono l’obiettivo della clinica e l’obiettivo di guarigione è lo stesso Freud, che precisa: “Quando la guarigione dai sintomi si produce troppo rapidamente e quando soprattutto, non appare come il risultato di un guadagno di un sapere autentico su di sé, dunque di una trasformazione radicale dell’esistenza, è necessario porre il problema di un utilizzo difensivo della guarigione stessa”. (7) Freud ci dice che una reale guarigione deve coincidere con una reale  conoscenza e una vera trasformazione  della propria esistenza, facendo emergere ed evidenziando il carattere di unicità e di singolarità del soggetto. Ritengo che il percorso psicoterapeutico debba favorire e generare un movimento reale, autentico, un cambio di rotta radicale nel modo di porsi della persona nei confronti della propria esistenza. La psicoterapia deve puntare a favorire  un viraggio, una conversione del soggetto nei confronti ed a sostegno di una  vita che vuole vivere, mettendo la persona di fronte all’occasione ed all’opportunità evolutiva e creativa che la sofferenza psichica gli offre per una possibile conoscenza autentica di sé, una conoscenza che, come abbiamo visto, non coincide con l’ideale unico di salute. Bisogna lavorare, terapeuta e paziente, per generare una liberazione dall’assoggettamento sintomatico e per far sì che tale processo di liberazione sia anche il risultato di un utilizzo costruttivo e creativo del sintomo connesso e non sganciato dalla ricerca di un sapere autentico di sé. L’etica della pratica terapeutica si riferisce, a mio parere, fedelmente a questi intenti  avendo nei suoi scopi un approdo ed un guadagno per un sapere euristico, non per un sapere che è un di più, ma di un sapere di verità. L’ideale di salute o l’idea di un suo ripristino, attraverso la riparazione di un pezzo,  non dirige, a mio avviso, la prassi e l’azione  psicoterapeutica. Sia il sintomo che la malattia non vanno intesi come una sorta di interruzione dello stato di salute che la cura ha il compito di ripristinare. Essi sono l’espressione di una costruzione singolare nella continuità soggettiva e vanno osservati e conosciuti nella loro storicità. Lavoro clinico e salute sono due campi che non vanno fraintesi e soprattutto non vanno sovrapposti perché seguono linee e discorsi diversi. Per il lavoro clinico, il sintomo ha il valore di un significante che richiama ad altri significanti fino al punto da essere rivelatore della verità inconscia del soggetto, quella più inconfessabile, quella che è più difficile da conciliare con la struttura dell’Io. Il sintomo è occasione ed evento che favorisce e permette l’incontro con quanto è stato rimosso dal soggetto. La posta in gioco non è solo guarire da qualcosa ma è far fronte ad una domanda di conoscenza che origina dal profondo di sé. Nella richiesta di guarigione c’è una domanda che mi costituisce come soggetto, è una domanda che chiede di un sapere di me non  inteso come un accumulo, ma sono chiamato ad  accedere ad un sapere esperito e di attraversamento che mi muove e mi orienta verso e nella mia umanità come persona, e mi permette di accedere al mio desiderio inconscio innestato, conservato e custodito nella sofferenza sintomatologica.
E’ nella sofferenza sintomatologica che si è iscritta una mia verità  che chiedo e sono chiamato a trovare ed a conoscere.

In fondo, tutti, terapeuti e pazienti compresi, siamo partiti da un inciampo, da una mancanza e da un sacro dolore, ma per far sì che questi si trasformino in opportunità di vita vera e non pretesti per una rinuncia alla vita.

(*) Psicoterapeuta, Psicologo, Presidente del Centro Studi Anìstemi-Connessioni di Napoli.


Bibliografia

(1) C.A. Whitaker, T. Malone, “Le radici della psicoterapia”, Franco Angeli, Milano,1998.

(2) P. Menghi, Seminari “Da una posizione passiva ad una attiva” T.T.T., maggio 1992.

(3) P. Menghi, “Trasformare la mente”, Astrolabio, Roma, 2009.

(4) J. Lacan, “Psicoanalisi e Medicina”, tr.it. in La Psicoanalisi, 32, 2002, p.13.

(5) G. Canguilheim, “La Salute: concetto volgare” tr. It. In Sulla medicina, Einaudi, Torino 2007, p.31.

(6) M. Recalcati, “L’uomo senza inconscio”p.55, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.

(7) S. Freud, “Opere”, Bollati Boringhieri.