“Se Gorgia potesse rispondere” – Una riflessione sulla formazione aziendale

di Antonio Ricci

Tempo fa, in un forum di professionisti sul web dedicato alla formazione aziendale, alcune persone si chiedevano se nel rapporto con gli altri andasse usata la persuasione o la manipolazione. Dapprima ho pensato fosse una provocazione, poi una trappola intelligente per far uscire allo scoperto chi di solito usa disinvoltamente entrambe. Infine, leggendo qualche commento in risposta, ho scoperto che facevano sul serio, stimolandomi una riflessione: perché una tale domanda poteva essere posta?

Quando, oltre quindici anni fa, mi venne proposto di lavorare nella formazione aziendale la prima cosa che evidenziai fu la mia totale estraneità a quel mondo, avendo sempre lavorato in ambiti “non produttivi”, come servizi sociali, scuole, asili, comunità infantili, cooperative sociali e così via, e che la mia competenza era del tutto mirata alla persona, alle sue relazioni, ai suoi bisogni o disagi ma non alla sua produttività o efficacia. Mi venne risposto che era proprio quello il motivo per il quale mi interpellavano ma che forse era meglio non dirlo ai clienti. Accettai quindi il mio primo incarico con molti dubbi e molta curiosità. Mi venne richiesto di intervenire in un gruppo nel quale i rapporti tra un manager neoassunto e i suoi collaboratori erano giunti ad una totale conflittualità e incomunicabilità. Se non fossi riuscito a cambiare la situazione avrebbero dovuto licenziare il manager, con relativa maggiore spesa per l’azienda.

La situazione e il contesto aziendale erano, secondo me, patologici ma non si poteva né dirlo né evidenziarlo, la violenza espressa nel gruppo era la normale conseguenza delle pressioni che a catena si scaricavano dal gruppo dirigente verso il basso, senza possibilità di critica né di trasformazione. L’ultimo anello della catena era questo gruppo affidatomi, guidato da un ingegnere esperto di procedure e numeri ma un totale disastro nei rapporti umani, profondamente angosciato per il suo futuro e rabbioso nei confronti di tutti. Mi chiesero di agire come se fossi un formatore qualunque che si occupava quindi di problemi organizzativi, puramente tecnici, tacendo invece il fatto che mi avevano esplicitamente chiamato per “guarire” quella situazione. Mi chiedevano di “manipolare”? Chiesi di parlare con i vertici “invisibili”, quei manager che imponevano regole e tempi di produzione ai limiti del vessatorio, lasciando poi scannare il gruppo che doveva garantire il “budget” per tutti. Volevo osservare l’intero sistema coinvolto e dialogare direttamente con esso, visto che non accettavo la definizione del problema che l’azienda dava né tanto meno la soluzione che imponeva: “cambia loro senza che se ne accorgano e senza evidenziare, né cambiare, i reali motivi del loro disagio”.

Agivano come le famiglie disfunzionali quando tentano, però in modo inconsapevole, di spostare l’attenzione del terapeuta sui sintomi di un unico membro, reso capro espiatorio, per non esporre mai loro stessi né mettere a repentaglio la coesione dell’intero sistema. Non mi venne concesso, ovviamente, ma ne parlai con tutto il gruppo. Volevo che sapessero cosa pensavo: a mio avviso denunciavano in modo violento la rigidità di un intero sistema, ma lo facevano in una forma vigliacca, irrazionale e sintomatica. La loro responsabilità era quella di non essere mai espliciti, di agire a loro volta come tutti gli altri, di partecipare quindi ad un gioco che non piaceva più loro solo perché ne pagavano le spese direttamente. Le regole ovviamente non potevano essere cambiate né il gioco stesso. L’unica cosa che potevo fare con loro era essere onesto. Passai qualche mese ancora tra incontri individuali e di gruppo, dialoghi surreali, aggressioni, frustrazioni e richieste silenziose ed impotenti d’aiuto.

Riuscii a modificare qualcosa cercando di far comprendere i motivi di tanta violenza, esplorando alcune possibilità di cambiamento, tentando di aprire spazi di dialogo tra le persone: feci tutto ciò che era in mio potere per impedire soprattutto la negazione e l’abuso di ogni rapporto. Infine il manager non fu licenziato, le persone trovarono un modo più civile di rapportarsi, l’azienda fu soddisfatta e io fui pagato bene. Fu un lavoro impegnativo ma per quanto contento del risultato, mi lasciò un senso di tristezza e squallore complessivo, nonché un dubbio: quelle persone erano sofferenti, quel luogo produceva sofferenza ed io forse avevo aiutato tutti a sopportare meglio ogni cosa senza poter cambiare sostanzialmente nulla. Preso atto della mia ingenuità me ne feci però una ragione, visto che quello era il lavoro che si erano scelti e non l’avevano perso, ma ero profondamente dispiaciuto per quelle persone e per il senso d’impossibilità e di abuso che molti di loro vivevano. Decisi quindi che il mestiere di formatore aziendale non faceva per me e che quello sarebbe stato il mio primo e ultimo lavoro in quel mondo, per quanto ben pagato. Non ero interessato a persuadere nessuno a sopportare ciò che io stesso non sopportavo e in fondo non ero nemmeno bravo a farlo. Il mio lavoro si fonda sull’onestà, la libertà di pensiero, l’empatia, la fiducia, la richiesta autonoma d’aiuto, la sincerità, la neutralità di sguardo e l’accettazione della fallibilità non certo sulla menzogna. Perciò è sempre a rischio di fallimento ma è il punto dal quale devo ripartire ogni volta per sentirmi a posto. Voglio essere sempre certo di aver guadagnato i miei soldi con correttezza professionale e umana. Non si concilia certamente con il mestiere di persuasore o manipolatore, per quanto si possa chiamarli “mestieri”.

La formazione è necessaria per apprendere elementi professionali utili al proprio lavoro e può essere condotta attraverso mezzi didattici consueti: stiamo parlando d’apprendimento ordinario. Che sia in ambito organizzativo o tecnico il rapporto docente-discente è chiaro, lineare, senza scopi occulti. Cosa c’entrano la manipolazione e la persuasione quindi? Quando si parla di formazione della persona ecco che insorgono tutti i pericoli e gli equivoci possibili. Non scomoderò certo Platone e secoli di pensiero alto e qualificato per ricordare la differenza tra doxa e aletheia. Chi la conosce proverebbe molto imbarazzo di fronte a chi pone domande come quella del forum dei formatori. Un’attenta rilettura del Gorgia potrebbe forse chiarire alcune idee ma ciò non porterebbe sicuramente l’illusione di risultati certi in poco tempo né clienti ben paganti. Nella cura, nell’educazione e nella formazione umana la persona e la sua dignità devono rimanere sempre al centro se ciò non accade è in atto un abuso. Gli scopi di un’azienda sono relativi alla produzione e al profitto, gli scopi di una persona sono relativi alla sua realizzazione globale, anche nel lavoro, ma non riducibili unicamente ad esso. Proprietari e dipendenti sono persone. Proprietari e dipendenti sono l’azienda. Questa complessità va riconosciuta e con essa è necessario sapere come confrontarsi, valutando con cura i diversi scopi e bisogni dell’una e dell’altra realtà. Conciliare le due diverse esigenze è un mestiere difficile e importante, che richiede un’alta competenza professionale e umana e soprattutto la volontà reciproca che ciò accada. Nessuna manipolazione potrà mai raggiungere tale obiettivo, piuttosto potrà servire gli scopi dell’uno contro l’altro ma per breve tempo e verso una progressiva disgregazione. Ciò che invece può essere cercato è il giusto equilibrio tra i bisogni di produzione aziendale e i bisogni di realizzazione personale.

Dopo qualche anno da questa mia prima esperienza incontrai una carissima amica che lavorava nella formazione e mi propose di collaborare in un progetto formativo su competenze relazionali rivolto ad alcuni manager. Mi lasciai convincere incuriosito dal suo modo di lavorare, dalla situazione didattica e non conflittuale e spinto dalla voglia di fare qualcosa insieme. Posi però una condizione: esplicitare da subito la mia professione, il mio interesse quindi per le persone e le loro relazioni e la mia totale estraneità al mondo aziendale. Accettò, anche se da subito non comprese bene il perché di quella mia insistenza a rivelare quell’apparente “mancanza”. Funzionò benissimo e da più di dieci anni collaboriamo sviluppando progetti per me di grande soddisfazione perché utili. Cosa è cambiato quindi da quella prima volta? Nulla direi, piuttosto ho valutato con attenzione una possibilità: se il mondo del lavoro aziendale produce sofferenza perché non occuparmene come ho sempre fatto, cioè come ogni altro “sistema d’appartenenza”, al di là del fatto se le persone si aggregano per costruire un cellulare, vendere un farmaco o gestire un asilo nido? Bisognava semplicemente dichiararlo subito. Non mi sarei dovuto occupare di alcuna efficacia o produttività quanto dell’umanità di ognuno e dell’intero sistema di rapporti con il quale sarei venuto a contatto.

In questi anni mi sono sempre portato dietro due domande: esiste una soglia oltre la quale non si può più dire “persona”? Chi ha il diritto di tracciarla?
Mi sono poi basato su due convinzioni: la funzione non deve mai annientare e sostituire la persona e l’organizzazione non può disumanizzarla per raggiungere i suoi scopi.
Certo, quale azienda avrebbe voluto pagarmi per svolgere un lavoro del genere? Non sono luoghi di crescita né tantomeno si può pretendere che lo diventino, ma qualcuno deve aver intuito che a lungo andare, lasciare irrisolte situazioni personali e relazionali difficili, avrebbe potuto danneggiare l’intera organizzazione. Occuparsi della qualità della presenza delle persone e delle loro relazioni però non garantisce automaticamente maggiore produttività né la sopravvivenza del sistema stesso, anche se certamente non la mina. Rimane la convinzione che contesti d’aggregazione attenti alla qualità della convivenza siano destinati a durare più a lungo e a stimolare maggiore creatività, collaborazione e solidarietà, ciò può apportare vantaggi anche sul bilancio perché più volentieri si partecipa: a buon rendere per tutti quindi, dipendenti e proprietari. Tale risultato può nascere però solo da un volere condiviso e nessuno può essere forzato a sopportare l’insopportabile a meno che non venga ricattato. Il mondo del lavoro è fondato prima di tutto su rapporti economici: non si può chiedere a nessuno di essere disponibile a migliorare qualcosa di personale se non esiste già una contratto di lavoro che soddisfi entrambi: questa è la condizione “sine qua non” per intervenire in contesti lavorativi con azioni formative di questo tipo altrimenti è solo materia sindacale.

Tornando alla mia riflessione iniziale: perché una tale domanda poteva essere posta?
Il motivo credo risieda in una confusione ingenua e superficiale tra formazione professionale e formazione della persona. Nel primo caso però non si capirebbe il senso di dover scegliere tra manipolare o persuadere qualcuno nell’insegnargli un software o una teoria comunicativa, essendo pura didattica. Nel secondo caso invece la domanda diventa più inquietante visto che si dovrebbe esplicitare il motivo, cioè tentare di cambiare una persona senza il suo consenso, dichiarando quindi la propria incompetenza a farlo diversamente nonché l’inganno. Tutto ciò lascia credere inoltre che si possano cambiare delle situazioni complesse con dei trucchetti comportamentali e dei giochetti comunicativi oppure formare umanamente qualcuno con strategie manipolatorie come se fosse privo di coscienza e volontà, cioè un oggetto.

C’è una palese sproporzione e confusione tra obiettivi e strumenti. Come se un idraulico si paragonasse ad un cardiochirurgo, “tanto è sempre una questione di pompe e tubi”. Il mestiere dell’idraulico è dignitoso e utile se rimane nel suo ambito, ma sarebbe davvero preoccupante se ciò non accadesse e imbarazzante se qualcuno dovesse far notare la differenza esistente tra un cuore e un lavandino, tra un bisturi e una chiave inglese e, nel nostro caso, tra una coscienza pensante e una scatola vuota da riempire. Chi invece la differenza la conosce bene, sa quanto sia difficile educare, formare, curare considerando la complessità della persona e delle sue relazioni: è un territorio incerto, colmo di trabocchetti, dove conta l’esperienza e dove manuali e tecniche vincenti non possono aiutarti, anche se bisogna essere molto preparati e ottimamente formati. Un mestiere difficile dove la propria umanità, anche se equilibrata e ben compaginata, non può bastare se non è sostenuta da una solida preparazione professionale e accademica e dove le lauree e le specializzazioni sono insufficienti per operare con efficacia, se sul piano umano e relazionale poco si è fatto e coltivato.

Pretesa eccessiva, dirà qualcuno ma, aggiungo io, commisurata al compito e alla materia di cui ci si vuole occupare.