«La meditazione è il necessario veicolo per il viaggio più interessante e divertente che possiamo fare. È uno strumento che rende possibile utilizzare ogni circostanza, ogni opportunità, ogni cosa: ci rende capaci di funzionare con qualunque carburante, di usare ogni opportunità come nutrimento. Possiamo, così, smettere di subire quel che accade e divenirne esperti». [1]
Si parla molto di meditazione e l’interesse intorno a questa disciplina è in continuo crescendo. Tra chi la pratica regolarmente, chi ne ha fatto esperienza, e chi nell’ambito scientifico ne studia gli effetti a livello neurologico, psicologico e immuno-endocrinologico, si è concordi nel ritenerla una pratica che può portare molti benefici, non solo sul piano della salute e del benessere generale, ma più ampiamente sul piano esistenziale, dell’essere.Vorrei qui parlare della mia esperienza di pratica, scusandomi da subito per i limiti di questo tentativo, ritenendo che proprio per questo motivo possa essere utile a chi si senta curioso di sperimentarla e al contempo tuttavia, anche un po’ annoiato dal rumore generato dalle mode del momento in tema di benessere e/o di virtù da perseguire. Ritengo che l’attrazione per l’arte del meditare sia dovuta ad una mescolanza di bisogni, tra lo spirituale e il mistico da un lato, e dall’altro la speranza di trovare una liberazione dal dominio delle emozioni che ostacolano il raggiungimento dei nostri obiettivi. Il rischio che si intravede è che questa attrazione risponda ad una sorta di illusione di poter eludere la vita stessa con le sue problematiche.
Andando un po’ oltre possiamo dire che si medita per contattare il proprio mondo interno, per cercare il silenzio, per sintonizzarsi con le proprie aspirazioni quando le onde si fanno flebili, per cercare ispirazione nei momenti di crisi e cambiamento, per mettersi in ascolto, per far calare nel profondo la domanda: chi sono io. Si medita per imparare a stare in contatto con quello che siamo, anche se non lo sappiamo, o non lo sappiamo ancora dire e descrivere, con quello che c’è in noi e intorno a noi. Meditare è l’equivalente di mettersi in cammino, risponde ad un desiderio di ricerca e di conoscenza, si è curiosi di ciò che si incontrerà. È un viaggio, e come tale richiede una preparazione, strumenti idonei e una direzione.
È interessante soffermarsi sul fatto che alcune abilità che si posseggono da bambini vadano perdute, o quantomeno si affievoliscano mano a mano che si cresce e si diventa adulti. Se diamo quasi per scontato il fatto che si tenda a perdere la flessibilità articolare del corpo col passare degli anni, forse lo è un po’ meno il fatto che molto presto si perda la capacità spontanea di respirare in profondità. Anche il meditare è un’attitudine dell’essere vivente, ma pare che per i più anch’essa svanisca molto presto. Pensiamo per esempio ai bambini quando sono interamente assorti in una loro attività: corpo, mente, percezioni ed emozioni vivono all’unisono. Quando inizia a disperdersi questa facoltà? Si potrebbe dire che la difficoltà, crescendo e imparando a vivere su questa terra, sia di coniugare la vita attiva e fattiva con l’attitudine alla percezione e all’ascolto. Per esperienza personale posso dire che la pienezza della vita nelle sue valenze positive e negative si ottiene provando a ri-coniugare l’approccio attivo e quello passivo nei confronti dell’esperienza, riportandoli ad un equilibrio dinamico, imparando ad essere consapevoli degli effetti del loro squilibrio nella nostra vita e delle conseguenze della sua rigidità. In parole povere significa riappropriarsi in termini di maggiore pienezza e ampiezza della propria esperienza di vita. Si tratta di decidere di incamminarsi verso questa direzione.
Sedersi a meditare nell’immobilità del corpo è come accettare di tornare alla scuola primaria. Non è facile. Molte sono le resistenze che si levano. E una volta accettata la condizione, altre sono le resistenze e gli ostacoli che seguiranno: le aspettative, le idee e i concetti, la fretta, la fuga dal presente, per citarne alcuni di mia conoscenza. Ho iniziato a praticare la meditazione molti anni fa ormai, con la segreta certezza che mi ha accompagnata per molto tempo che sarei stata una persona migliore grazie al mio impegno in questa pratica. Mi accade oggi di provare vera sorpresa quando mi accorgo talvolta con estrema lucidità che alcuni aspetti a mio parere limitanti del mio carattere sono ancora radicati in me nonostante gli anni e le esperienze vissute nell’ottica del loro superamento. Emozioni e comportamenti reattivi possono manifestarsi talvolta esattamente con la stessa intensa drammaticità di quando ero bambina o adolescente, anche se meglio gestiti e tenuti più a bada.
Capita di pensare dopo qualche tempo di pratica: ma meditare non doveva far sorgere sul nostro volto quel sorriso beato e distaccato che Nulla più mi può turbare? Non mi arrabbio più? Sto bene ovunque con chiunque? Definitivamente imperturbabile e matura? Non è esattamente così per quanto mi riguarda. In verità però qualcosa di profondo accade, e la vera sorpresa è questa: meditare mi ha insegnato a vivere l’esperienza dello stare in me nel rispetto di ciò che sono. Non parlo di accettazione, piuttosto di disporre in sé dello spazio per accogliere. Credo che questo sia il punto, non fuggire più da sé e dal presente, non far dipendere dalle conferme degli altri il profondo valore del proprio esistere, provare vera curiosità per se stessi, guardare all’altro per vedere sé, dirigersi verso la compassione. È una tappa importante, e un nuovo inizio. Cosa accade quindi nel tempo e nella pratica della meditazione?
L’immagine che vorrei usare è quella di una casa le cui stanze si ampliano, i vetri delle finestre si ripuliscono, i muri respirano. Ogni stanza riceve la giusta illuminazione, ogni angolo è visitato (o lo sarà) ed ha la sua destinazione, con cura è stato (o verrà) mano a mano messo in ordine, ogni oggetto considerato, curato, collocato o buttato. Lo studio della meditazione è incamminarsi con consapevolezza lungo la strada dell’accettazione della vita in ogni suo aspetto, dell’affinare la capacità di ascolto e di attenzione verso quando accade in noi e intorno a noi. Come un albero affondiamo nella terra le radici per allungare i rami verso il cielo. Per farlo servono energia, dedizione, costanza, pazienza, e il coraggio di affrontare la guerra interiore, fatta delle nostre angosce, ambiguità, ipocrisie, compromessi, imbrogli, violenze sopite. Serve disciplina, appunto. La vita è movimento, ritmo, azione, pulsare. La domanda che può sorgere è: Perché dunque fermarsi a meditare?
Anche nella meditazione si ritrova tutto ciò, sia che si stia seduti immobili in silenzio ad occhi chiusi, che si cammini, o che si dialoghi intensamente con qualcuno. La meditazione è sintonizzarsi col proprio ritmo vitale senza bisogno di scinderlo dalla coscienza della propria morte. Per questo non ci può essere fretta. Servono dolcezza e pazienza. Una frenetica e ossessiva tendenza all’azione è un surrogato della vitalità, genera molte scorie inutili, e i suoi frutti non nutrono in profondità. Una passività pigra e pavida è per contro un surrogato dell’accettazione e dell’apertura, in realtà è come uno stagno di acque ferme e putride.
Il viaggio interiore silenzioso e vitale che si intraprende con la pratica della meditazione, attraversa anche territori impervi e desertici, gli agguati e le guerre della psiche, gli smarrimenti dell’anima. Il suo frutto è una quiete reale, disintossicata, che ha accolto la solitudine e che non ha più bisogno di proiettare sugli altri fantasmi e paure. Anche questa è una tappa, nella direzione di una pace vera, profonda, conquistata, dentro di noi e voluta anche intorno a noi.
[1] P. Menghi, Trasformare la mente, Ubaldini, 2009, pag. 110.
(*)
Federica Angriman, psicologa clinico-dinamica.