Per amor di chiarezza e per favorire chi ha bisogno di approfondimenti, ritengo utile dichiarare le fonti dalle quali attingo per sostenere le mie tesi. Ciò che importa è il rapporto che stabiliamo con la conoscenza e quali conclusioni sappiamo trarre dalla nostra esperienza, che include anche l’ascolto di ciò che altre voci autorevoli hanno detto a proposito. In questo caso i maestri che m’accompagneranno in questa breve riflessione sono Husserl, Dewey e Guardini. Loro interrogo sull’uomo e sull’educativo e da loro traggo risposte, in un dialogo asincrono che influenza in profondità molte delle mie convinzioni. Al loro fianco ci sono Edda Ducci e Paolo Menghi dai quali traggo questioni di metodo: l’importanza d’unire mani, cuore e mente. Entrambi affermano che la ricerca di coerenza tra idea e vita non è una tassa odiosa da pagare, (e da evadere quando possibile), ma una necessità vitale per chi vuole fare questo nostro mestiere. Infine gli ultimi miei maestri: gli studenti che quotidianamente seguo, con i quali mantengo un dialogo continuativo, aperto e vitale. Da loro traggo indicazioni di direzione e con loro procedo in ampiezza e profondità nella mia ricerca educativa.
Con l’aiuto di tutti costoro vorrei parlare del dolore, dell’amore e dell’esperienza.
Parto da una domanda: qual è il dovere primo dell’educativo?
Fornire quelle esperienze, e quindi competenze, che riconducano la persona alla possibilità di ritrovare sempre se stessa, qualunque cosa faccia o gli accada. Ciò significa far si che ognuno divenga ciò che è senza imitare nessuno. Katà dynamin direbbero Democrito e Socrate, cioè in accordo con il proprio potenziale. Come si realizza questa condizione? Attraverso il dolore, l’amore e l’esperienza.
Per togliere qualunque equivoco in partenza, non è una proposta sadica, né l’elogio della santa sofferenza e dell’amore sacrificale, è piuttosto il riconoscimento di un fatto evidente che riguarda la natura umana. Il dolore può e deve essere superato, l’amore vi affonda le radici, l’esperienza e il veicolo sul quale ogni nostra realtà viaggia.
Katà dynamin. Un bel programma evolutivo: che la persona esprima tutta la sua potenzialità e che emerga quindi la sua soggettività più profonda e unica. Una promessa alta e allettante che però rischia di essere tradita se non accompagnata dalla consapevolezza delle trappole che essa racchiude. Diventa pubblicità ingannevole se priva di una domanda fondamentale: chi può realizzare tale programma e come?
Abbassiamo perciò l’orizzonte oppure proviamo a tenerlo alto, pur vedendolo molto lontano?
È gravissimo ingannare le persone facendo promesse esistenziali che sappiamo già di non poter mantenere. La stima della nostra onestà ritengo sia proporzionale alla dose di autoinganno che abbiamo affrontato nel corso della nostra formazione umana e professionale. Fortunato chi ha avuto una guida in tal senso e non sia fuggito quando la vergogna per la propria falsità era divenuta troppa e insostenibile. In un processo d’«inveramento» è un’occasione importante di conoscenza e una tappa prevista fin dall’inizio. La disillusione è sempre dolorosa ma anche preziosa per chi ricerca autenticità. Un terapeuta, un insegnante o un educatore che hanno a cuore l’interezza dell’altro, devono saperlo portare a graduale contatto con ogni strato del suo dolore, fino al punto più profondo e colmo di senso, senza mai scomparire dalla relazione, coscienti però che stanno solo fornendo un’opportunità che l’altro è libero di cogliere o meno, libero di guardarci dentro oppure no. Le persone non sono contenitori vuoti da riempire ma portatori di propri significati di vita che attendono di realizzarsi nei tempi e nei modi propri di ognuno. Perciò diventare ciò che in potenza si è richiede la vita intera. Passare dalla potenza all’atto significa manifestare la propria verità soggettiva.
Il dolore è insito nell’esistere ma può prendere molte strade e in sé non è portatore di alcuna conoscenza, piuttosto a noi rimane la possibilità di stabilire con esso un cattivo o un buon rapporto. Quanto sia difficile sciogliere questo nodo lo sa chiunque ci si sia trovato: l’equivoco di fondo sta nel credere la propria sofferenza più grande delle altre, più degna e più dolorosa, giustificativa di ogni propria perversione, e da lì galleggiare sulla superficie della propria esistenza, innalzare difese, cattiverie, pretese verso gli altri, richieste rabbiose di risarcimenti affettivi, materiali, privilegi relazionali, insieme ad un’infinità di «non posso» e «non ce la faccio». Quante volte abbiamo visto le vittime diventare carnefici crudeli? Partiamo però dalla nostra soggettività. Le cose che la vita ci sbatte in faccia dolorosamente non fanno di noi degli eroi della sofferenza ma dei poveretti come tanti altri, che tentano di rialzarsi con dignità, a volte fallendo. Non è questo il dolore di cui parlo, non è un’olimpiade nella quale vince più privilegi chi è più disgraziato. Le malattia, la povertà, l’ingiustizia, la disgrazia, vanno curate, eliminate, lenite, consolate e chi non le vive che perlomeno dia aiuto, sia solidale e attento a non produrle. Siamo comunque dei privilegiati, malgrado noi, e stare bene è un diritto di tutti.
Il dolore di cui parlo ha ben altre radici, più profonde e incomprensibili, esso narra di solitudine, paura di vivere e di morire, di abbandono e ferite mai rimarginate, tocca il margine del nostro essere e il bisogno di essere amati e compresi, è inquietudine, pazzia e angoscia di vivere. È un dolore inconsolabile che va insieme al senso inafferrabile dell’esistenza. Non ha vestiti belli da mettersi, fa fatica a nascondersi dietro la maschera del perbenismo e della realizzazione sociale ed economica, non ci sono trucchi per eluderlo, né sconti per chi ha fatto bene tutti i compiti a casa. Perciò l’impegno con se stessi per collocarlo nella propria vita è per sempre, unica misura reale della propria disponibilità verso gli altri. Dal dolore visto e accolto può infine nascere una persona autentica. Autentico non è sinonimo di perfetto, autentico lo si diventa ogni giorno accogliendo l’impossibilità di esserlo completamente, assieme al dolore che ciò comporta. Autentico e quindi intero. Ebner lo dice bene: «Siamo tutti uomini dal cuore frantumato, prigionieri che aspettano la liberazione del loro io dal carcere, che bramano di vedere un barlume nella notte della loro esistenza». [1]
Siamo una fortezza assediata da Dio.
Tutti abbiamo bisogno di comprensione e amore ma facciamo molta fatica a parlarne, tutti sappiamo bene che la comprensione e l’amore che vorremmo non possono essere estorti, ma stranamente insistiamo a chiederli alternando ora la supplica, ora la pretesa violenta. L’unica cosa che possiamo fare è tentare di darli, facendo noi quel primo passo che al contrario c’aspettiamo dall’altro; facciamolo perciò e vediamo che succede; facciamolo senza nulla pretendere in cambio, perché comprensione e amore, per loro natura, esistono solo nella gratuità; facciamolo pur sapendo di fallire e sentendo in noi la totale insufficienza e incapacità.
Dicevo in apertura che è compito dell’educativo fornire esperienze e competenze che riconducano la persona alla possibilità di ritrovare sempre se stessa, qualunque cosa faccia o gli accada. Ho aggiunto che dolore e amore, forze profondamente connesse tra loro, sono la condizione affinché continuità e stabilità dell’essere, possano realizzarsi.
Un educativo che non inganna deve fornire chiare linee di sviluppo, strumenti adeguati ai fini che propone, e la possibilità che la persona possa attingere dalla propria esperienza, quindi dalla propria verità.
Che cosa è l’esperienza? Un nesso tra noi e la realtà. Il reale è sia un dato, sia un problema e l’esperienza è un contatto con esso. L’educativo deve quindi occuparsi della continua ricostruzione dell’esperienza: imparo e conosco nella misura in cui metto in connessione le qualità di un oggetto con qualcosa di altro. Non si possono conoscere le cose al di fuori delle loro relazioni, dei loro nessi reciproci. L’esperienza come dato totale dell’organismo non scisso tra corpo e mente, l’apprendimento come valutazione di tutti i rapporti che riesco a stabilire, indietro e avanti nel tempo, fra le azioni che compio sulle cose e verso le persone e ciò che, di conseguenza, ottengo in termini di piacere o sofferenza. Da tutto ciò scaturiscono la mia collocazione nel mondo, i significati che conferisco ad ogni cosa e le azioni che ne derivano. Ciò che sono destinato a diventare è il risultato della mia libertà, della mia esperienza e delle mie appartenenze vincolanti biologiche, sociali e culturali.
Dewey c’insegna che la scoperta del nesso tra le cose, la riflessione, l’azione pensata hanno al loro opposto la routine e la condotta capricciosa che rifiutano di riconoscere la responsabilità delle conseguenze future dell’azione presente. La riflessione è l’accettazione di tali conseguenze e di tale responsabilità. [2]
Quest’accettazione è ciò che consente davvero una maturazione.
Husserl c’invita a tornare al fenomeno puro, all’esperienza sensoriale primaria, prima di ogni idea precostituita di mondo e di realtà. Apprendere a riflettere, concedersi il tempo per affondare nella ricchezza della propria esperienza, prendere peso e corpo nella presenza totale di se stessi a quanto accade. Perciò la tendenza a classificare, ci dice ancora Dewey, tipica del pensiero ordinatore, può essere di grande impaccio alla riflessione: questa se profonda spesso deve scavalcare i dualismi e le categorie per attingere all’esperienza diretta, dove singolare e generale convivono nella confusione, con cui spesso convive la ricchezza del significato. [3]
Questa è la natura complessa dell’esperienza dalla quale dobbiamo imparare ad attingere.
Ecco allora che emerge un quadro più chiaro, nella sua pienezza che c’aiuta a rispondere ad una parte della domanda posta all’inizio: come si può realizzare tale programma educativo?
Con tre strumenti fondamentali: la corporeità, l’atto riflessivo e l’esperienza.
Nella nostra scuola utilizziamo tutti e tre, come e perché ne parlerò in un prossimo articolo.
[1] F. Ebner, La parola è la via, a cura di E. Ducci e P. Rossano, Anicia, Roma, 1991, p. 76.
[2] Cfr. J. Dewey, Democrazia e educazione, a cura di A. Granese, La Nuova Italia, Firenze, 1992.
[3] Ibidem