“La coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale nella carne”.
Emil Cioran
Noi siamo le nostre relazioni
Afferma Daniel Stern “Il modo in cui noi sperimentiamo noi stessi nel rapporto con gli altri fornisce la struttura mediante la quale organizzare tutti gli eventi interpersonali”. Stern appartiene a quella scuola psicanalitica che ha studiato gli effetti della relazione primaria madre -figlio e della triade padre-madre-figlio, nella costituzione dell’identità e del senso del sé.
La teoria dell’attaccamento sviluppata da Bowlby[1] ha fornito il punto di partenza per importanti constatazioni del comportamento relazionale. La ricerca ha evidenziato che tutto ciò che il bambino apprende nelle fasi precoci dell’attaccamento serve a garantirgli la relazione e la vicinanza con l’adulto, a partire dal bisogno primario di sopravvivenza. Le azioni che compirà, i pensieri che svilupperà e le relative emozioni che emergeranno, saranno in tal senso tutti tentativi di risposta alle richieste dell’adulto, il quale rinforzerà o censurerà comportamenti e sentimenti del bambino a seconda di ciò che riterrà tollerabile o meno.
La differenza tra una relazione sana ed una disturbata dipenderà quindi dall’orientamento di tali risposte: perseguono i bisogni di crescita del bambino oppure i bisogni nevrotici, narcisistici o psicotici dell’adulto, spesso malcelati dietro un impegno educativo?
Un adulto che risponde ai bisogni del bambino in maniera costante e sufficientemente buona, dando contenimento, protezione e sostegno fisicamente ed emotivamente, nei momenti difficili, farà sentire il bambino protetto e amato, e quindi degno d’amore e capace di amare.
Un adulto costantemente rigettante, non responsivo o emotivamente non disponibile, farà sentire il bambino non visto né voluto, il quale imparerà ad essere emotivamente non disturbante e autosufficiente. Sono i figli di madri depresse o assenti. Sono bambini arrabbiati, non amati che non si sentono degni d’amore.
Un adulto che non risponde in modo costante e coerente ai bisogni del bambino; che a volte è presente e amorevole, altre volte si mostra non disponibile e rigettante, farà sentire il bambino a volte amato, a volte rifiutato senza capirne i motivi. Sono bambini angosciati, che si sentono colpevoli, insicuri e disorientati.
L’adulto che non mette mai in atto lo stesso comportamento, che in alcune circostanze può mostrarsi rassicurante, in altre non responsivo, in altre ancora maltrattante o abusante, farà sentire il bambino estremamente confuso e minacciato proprio da colui o colei che dovrebbe fornire protezione dai pericoli. Sono i bambini non amati, odiati e abusati, schiacciati in un doppio vincolo angosciante, contraddittorio e irrisolvibile. Molte psicosi hanno origine da qui.
Questi diversi stili relazionali daranno vita a relativi comportamenti d’attaccamento del bambino, il quale dovrà orientarsi nei confronti di adulti dai quali dipende totalmente. Quello di crescere un figlio non è un problema di giusti principi educativi ma di maturità emotiva e sanità psichica e relazionale. Non genitori perfetti ma genitori sufficientemente buoni, capaci di amare, di riconoscere gli errori nella sproporzione di potere tra sé e i figli, e pronti a riparare quando necessario. Adulti che si occupano di se stessi e delle proprie carenze emotive ed affettive senza caricarle sulle spalle dei figli.
Il problema per il bambino rimane: nella evidente sproporzione di potere, adeguarsi a qualunque richiesta per garantirsi il rapporto e la protezione di cui ha bisogno, e tenterà di farlo anche nel caso subisca i peggiori abusi. Che adulto diventerà dipenderà quindi dalle soluzioni che avrà trovato, tra il mistero dell’unicità di ogni anima e l’influenza dell’ambiente affettivo nel quale sarà cresciuto.
Alla luce di tutto ciò possiamo comprendere meglio l’affermazione di Stern: il modo come sperimentiamo noi stessi nel rapporto con gli altri, se ci riteniamo degni o non degni d’amore, colpevoli, sfiduciati o insicuri; ladri, santi o vittime, autosufficienti o fiduciosi, fornisce la struttura, cioè lo scheletro fondamentale e la base di sostegno, attraverso la quale organizziamo le nostre relazioni. Secondo questa visione ciò che instauriamo in modo automatico nei nostri rapporti, appartiene ad un modello relazionale costruito precocemente, che opera in modo non consapevole; una sorta di convinzione appresa, che riteniamo possa garantirci la continuità del rapporto, a partire dal presupposto psichico-relazionale che l’altro ci accetterà proprio perché si aspetta da noi ciò che facciamo.
La seduttività, l’evitamento, la sottomissione, l’isolamento emotivo, l’aggressività passiva o sfacciata, possono emergere sia con lo scopo di creare legami, sia per evitare perdite e abbandoni. Diventano comportamenti sintomatici nel momento in cui emergono come soluzione coatta all’angoscia che può generarsi nelle situazioni di separazione reale o presunta, angoscia di solitudine e di morte. Sono schemi relazionali che ripetono tentativi di soluzioni antiche a vecchi problemi, quindi deconnessi dalla verità attuale della persona e dalla realtà del rapporto.
Sintomo, assenza e angoscia di morte
Sintomo, in termini psicologici, è un elemento agito non filtrato dal pensiero. Un agito non pensato. Non è quindi il frutto di una scelta razionale ma la strada psicosomatica che una forza psicofisica prende per cercare una soluzione ad un problema. In altre parole è un compromesso sviluppato dall’organismo in una situazione impossibile, o molto difficile, da elaborare e risolvere in altri modi.
È la risposta ad uno scompenso psichico tendente a ristabilire l’equilibrio perduto, che elimini il dolore mentale provocato dall’angoscia. È un’azione relazionale, rivolta a un qualcuno fantasmatico e/o corporeo, ripetitiva e coatta, che potrebbe non terminare nemmeno di fronte alla risposta richiesta; un’azione tendente a forzare le scelte dell’altro senza sapere, potere, volere, esplicitare il bisogno sotteso. L’altro, in tal senso, è vissuto come uno strumento necessario, funzione da incardinare con il proprio bisogno psichico, oggetto indispensabile per riempire un vuoto funzionale; oggetto da asservire, svuotato dei suoi bisogni, della sua volontà e individualità.
Il sintomo è un’azione non scelta, non accusabile né controllabile, perché fuori dalla volontà; è parola negata e urlo di dolore muto e indifferenziato: è una richiesta di aiuto senza parola e pensiero, un accadimento operativo non simbolizzato. Se attraverso i sintomi si riesce ad estorcere l’attenzione e l’asservimento dell’altro, seppure si riesca ad ottenere un momentaneo alleviamento dell’angoscia, se ne rinforzerà al contrario il potere senza mai andare alla radice che lo genera. In questo senso diventare più potenti vuol dire essere più pazzi, rimanendo dipendenti, sofferenti e malati.
I sintomi sono sia segnali di un equilibrio alterato, sia tentativi di soluzione per ristabilirlo. Sono segni e compromessi. Cercano il tornaconto psichico immediato e l’eliminazione del disagio sotteso. Tanto più alta sarà l’angoscia non elaborata e maggiore sarà la forza del sintomo nel suo tentativo di espellerla.
Un ossimoro: rinunciare al sintomo
Quante cose accadono al di fuori della nostra coscienza? Ci accorgiamo di ciò che altri fanno perché noi si possa ottenere ciò che vogliamo? Quanti aiuti ci arrivano senza che ce ne accorgiamo e quanti ce ne arrivano senza che vogliamo riconoscerlo?
Mi è capitato molte volte di tirare fuori persone da loro crisi, da problemi emotivi e momenti di totale confusione, così come a volte mi è capitato vederle tornare alla loro vita come se nulla fosse e come se avessero fatto tutto da sole, una volta superata la crisi. Oblio da bisogno narcisistico? Quando non c’è alcun riconoscimento della propria reale condizione e di ciò che gli altri fanno per aiutarti, si ha un problema nell’accettazione dei limiti e una tendenza alla dipendenza, perché non si soffre mai realmente per essi, non si cambia mai davvero e al contempo si tende a stabilire rapporti parassitari.
Ciò che si vuole non è detto che lo si possa sempre ottenere, così come ciò che ci farebbe contenti può darsi non faccia contenti altri, che abbia un costo che non siamo disposti a pagare, o che non siamo in grado di pagare. Quindi o si rinuncia, o si paga il prezzo dovuto, oppure si chiede a qualcun altro se vuole e può pagare per noi. Il punto è capire cosa si vuole veramente. Il proprio tornaconto può essere esplicito, occulto o inconsapevole ma se comanda l’angoscia si può fare di tutto per ottenerlo, compreso usare i propri sintomi per piegare l’altro al proprio volere, che in questo caso, è sintomo di fragilità. L’accostamento tra volontà e automatismo può sembrare un ossimoro, eppure, se non ci fosse almeno una piccola possibilità di dirigere le proprie azioni, anche quando sembra essere la follia al comando, saremmo solo vittime e sempre innocenti, e nessun vero cambiamento sarebbe attuabile.
Esistono zone di luce e zone d’ombra, lo sappiamo, ma il problema è voler lasciare agire sempre in luce l’eroe, la vittima o il santo, per lasciare in ombra il delinquente, il perverso o il pazzo, identificandoci solo con una parte negando l’altra, che così s’inabissa diventando automatismo e sintomo. Da una parte la bella immagine narcisistica buona e altruistica, dall’altra il braccio armato feroce, vendicativo e insensibile, pronto ad intervenire ogni volta che il bambino piange.
Di fronte al dolore e alla paura, diventiamo bambini, ma siamo adulti e dobbiamo occuparci del neonato che piange e urla; del bambino che si vergogna, si nasconde o si ammutolisce; dell’adolescente che insulta, scappa via o aggredisce. È un bambino pieno di pathos e prepotenza, ma che non riesce a pensare alcun sentimento, che non sa tradurlo in parola, in una richiesta esplicita di aiuto, di contatto, di comprensione.
Vivere nell’assenza
C’è un compito da assolvere, da eroe-non eroico: diventare madre a padre di se stessi. Se avessimo un momento di coscienza e riuscissimo a vederci tutte le volte che scegliamo di far prevalere l’automatismo, forse riusciremmo anche a capire che cosa vogliamo davvero, quale sia il vero scopo di certi nostri comportamenti. Il risultato immediato però è il rifiuto della solitudine e della responsabilità, nella ricerca di sollievo dall’angoscia che la frustrazione può generare. Può essere un movimento evacuatorio, oppure di negazione o peggio ancora di diniego, ma l’obiettivo principale è non affrontare la realtà per come si presenta in quanto perturbante, portatrice di dolore e inquietudine; l’obiettivo non è affrontare i cambiamenti che la situazione ci sta opponendo ma mostrare il disagio e il dolore che ciò produce per liberarsene il prima possibile.
La ricerca di accudimento, piacere e sicurezza è lecita, ma la misura varia a seconda delle età e dei diversi bisogni di crescita, così come i modi con i quali ce le assicuriamo, definiscono anche il nostro livello di maturità. Apprendere a riconoscere, elaborare e contenere l’angoscia di morte, è necessario per ridurre la dimensione sintomatica fino alla possibilità di rinunciarvi scegliendo la strada del pensiero emozionato e non quella dell’azione evacuatoria immediata.
Rinunciare al potere del sintomo vuol dire saper sostenere la sofferenza psichica e la paura dell’abbandono, della solitudine e dell’assenza. Significa tollerare il vuoto d’amore, fiduciosi che non possa essere estorto con la minaccia o la seduzione, né che possa essere illusoriamente colmabile del tutto e da qualcun altro. Significa confidare sulla parola, sul pensiero e sui sentimenti ad essi collegati. Significa tollerare e riconoscere l’assenza.
Assenza è parola pregna di significati, evoca ciò che non c’è, qualcosa che prima c’era, ora assente in un presente indefinito. Assenza di qualcosa e di qualcuno, in un tempo che può essere momentaneo, lungo o infinito. Sperimentare l’assenza equivale a rendere presente ciò che ora si nega nella sua manifestazione concreta, un qualcosa che diviene fenomeno riflesso, sentimento, ricordo, immagine, fantasma, un “come se”, una parvenza che non è più ciò che era, nella forma e nell’essenza.
“Assente per sempre” è ciò che fa più paura. Dov’è finito ciò che è assente?“Assente per sempre” è l’evidenza che può terrorizzare. Assente per sempre ma presente nel riflesso del mio ricordare. Assente per sempre, morto, consumato, scomparso, dissolto, svanito, inesistente. Solo ciò che è stato può essere assente, altrimenti non se ne avvertirebbe la mancanza, quindi la morte è assenza di vita, della quale si riconosce l’essenza, il sapore, la forma, la bellezza.
L’angoscia è assenza di senso. Accettare l’assenza è accettare la morte. La crisi è paura dell’assenza, è evidenza dell’assenza. Amare è fare a brandelli la paura dell’assenza.
Vivere nell’assenza è essere adulti
*di Antonio Ricci, dottore in Scienze dell’Educazione e in Psicologia clinica, fondatore della Scuola di Normodinamica – Periagogè. Ho una formazione sistemico-relazionale e normodinamica, nel mio lavoro psicopedagogico faccio riferimento alla teoria dell’attaccamento, alla psicologia del Sè e delle relazioni oggettuali.
[1] Cfr. John Bowlby, “Attaccamento e perdita”; Mary Ainsworth, “Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità”; Peter Fonagy, Mary Target, “Attaccamento e funzione riflessiva”.
Photo by Periagogè