“Portare dentro di sé tutte le persone che ci amano è il dono sorprendente dell’empatia!” (Bellingreri, 2005, p. 110)
“Tommaso entra nella stanza piangendo. La maestra lo prende in braccio, cercando di consolarlo. Tutti i bimbi si siedono a terra, in cerchio. Tommaso, seduto in grembo alla maestra, lentamente smette di piangere: risulta evidentemente affranto. Inizia il laboratorio e i bambini vengono invitati a salutare, a turno, il loro amico Barbapapa’, ospite sempre presente durante questa attività.
Maestra: “Allora bimbi, chi vuole salutare per primo il nostro amico?”
Simone: “Io!”
Simone saluta il morbido Barbapapa’, gioca un po’, poi arriva il momento di consegnarlo nelle mani di un altro compagno. Durante i laboratori i bambini erano stati abituati a passare il pupazzo ad un compagno vicino, indipendentemente che fosse a destra o sinistra, e così via fino a chiudere il cerchio, ma questa volta succede qualcosa di diverso:
Maestra: “Simone, a chi vuoi passare il Barbapapa’?”
Simone pensa e fa una cosa che né lui né i suoi compagni avevano mai fatto durante le altre lezioni:
Simone: “A Tommy!”
Così dicendo, si alza e raggiunge il compagno seduto in braccio alla maestra, dall’altra parte del cerchio, per poi tornare a sedere.
Tommaso non dice nulla, ma torna a sorridere. Simone lo guarda e si mettere a sorridere a propria volta.” (Asilo Nido G. – Torino – Aprile 2013)
Piace pensare che quanto appena descritto sia manifesto di una delle più importanti capacità possedute dagli essere umani, ovvero la capacità di mettersi “nei panni degli altri”, non solo da un punto di vista cognitivo (“comprendere il punto di vista di”), ma anche e soprattutto da quello emotivo: questo è ciò che nominiamo empatia.
- Il sorgere dell’empatia.
Qualcuno potrebbe non concordare con l’interpretazione dell’episodio riportato in quanto la definizione del costrutto, come vedremo, sembra non renderlo applicabile alla prima infanzia. D’altra parte, l’esperienza mostra agli educatori dei servizi rivolti a questa fascia di età che anche soggetti così piccoli possono essere capaci di empatia, seppur non in una forma matura, e non solo di contagio emotivo[2]. Episodi come quello di Tommaso e Simone non sono infrequenti nella quotidianità dei Nidi e delle Scuole di Infanzia: ciascun educatore potrebbe testimoniare esperienze simili.
Nella sua opera più celebre Daniela Goleman[3] riporta un episodio che sembra non allontanarsi da quello sopra descritto:
“E Michael, di quindici mesi, andò a prendere il proprio orsacchiotto per darlo al suo amico Paul, che piangeva: poiché quello continuava a disperarsi, Michael andò a prendergli la copertina che usava per farsi coraggio.” (p. 126)
Seppure con alcune accortezze, che espliciteremo più avanti e che riguardano la differenza tra una forma di empatia rudimentale e una matura, come sottolinea Goleman “è possibile rintracciare il germe dell’empatia fin dalla primissima infanzia” (p. 126).
Si è scritto molto a proposto di questo costrutto in letteratura, probabilmente perché l’esperienza empatica riguarda tutti nella quotidianità, soprattutto per quanto concerne le relazioni sociali significative: in generale, gli individui hanno un’ idea di cosa significhi condividere le emozioni altrui ed immedesimarsi in ciò che altri provano (Bonino, p. 8). In generale perché, come evidenziato da alcuni importanti studi (Baron-Cohen, 2012)[4] e come ci suggeriscono spesso la storia e la cronaca, non proprio tutti sembrano esserne in possesso.
Indubbia resta, però, l’importanza che questa ricopre per i soggetti e per lo sviluppo delle relazioni sociali. Darwin[5] nel 1872 spiegò come la maggior parte delle nostre reazioni emotive siano, in realtà, delle risposte che nel tempo hanno dimostrato una valenza adattiva, proprio in vista dell’evoluzione della specie. Per quanto concerne nello specifico l’empatia:
“… gran parte delle nostre interazioni con l’ambiente e dei nostri stessi comportamenti emotivi dipende dalla capacità di percepire e di comprendere le emozioni altrui.” (Rizzolatti, p. 168)[6]
L’empatia, quindi, è ed è stata indispensabile per l’individuo perché ne ha permesso l’evoluzione e la sopravvivenza. Per portare un ulteriore esempio, che dovrebbe essere noto agli educatori della prima infanzia, J. Bowlby[7], nella sua teoria dell’attaccamento, ha sottolineato come il legame con una specifica figura di riferimento, la madre, fosse prototipo della socialità (Bowlby, p. 7) e come l’empatia risulti fondamentale per il legame di attaccamento stesso. Il modo in cui un individuo viene amato e accolto sin dalla nascita attiva, o meno, la sua predisposizione alla relazione sociale: la capacità empatica della madre quindi, è indispensabile in questo processo di attivazione (Bellingreri, p. 141)[8], in quanto le permette di comprendere e di anticipare i bisogni e le esigenze del proprio bambino. Si potrebbe essere indotti a credere che si tratti di una capacità innata dell’individuo, in realtà non lo è: in qualche modo, infatti, empatici si diventa (Bellingreri, 2013, p. 55 e p. 86)[9], portando ad espressione una disposizione che si possiede sin dalla nascita.
Non è un caso, quindi, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) abbia deciso, nel 1997[10], di considerare questa come una delle abilità utili alla vita (life skills), necessaria all’individuo per il raggiungimento e mantenimento di uno stato di buona salute e benessere: sia perché influenza comportamenti e stili di vita, sia perché permette di avere un controllo sull’ambiente e di gestirlo. Nello specifico, l’empatia risulta fondamentale anche perché condiziona, o è alla base, di numerose altre abilità elencate dall’OMS (es. problem solving, decision making, capacità di gestione dello stress, etc.). Per portare un esempio, è sufficiente riflettere sull’importanza che questa riveste nel promuovere la capacità di gestione delle relazioni sociali per comprenderne la portata.
Carl Rogers ha sottolineato più volte come, in realtà, essa fosse indispensabile alla conservazione del genere umano che, altrimenti, sarebbe stato portato all’autodistruzione[11], anche perché, ponendosi alla base dell’intersoggettività, la sua assenza non avrebbe reso possibile la maggior parte delle relazioni sociali.
A questo proposito Simon Baron-Cohen, che per trent’anni ha svolto indagini sull’argomento osservandolo da più punti di vista, ha sottolineato come alla base di ciò che l’umanità definisce “malvagità” non ci sia altro che assenza di empatia, quasi a volerne fare risaltare il ruolo per la nostra sopravvivenza nel contrastare impulsi distruttivi presenti nella condotta umana (2012)[12].
Alla luce di quanto detto, se è vero che una qualche predisposizione all’empatia risulta essere innata negli individui[13], pur se a livelli diversi di intensità, allora risulta fondamentale promuoverne lo sviluppo sin dalla prima infanzia e per tutto l’arco della vita. Quotidianità e storia ci offrono, lo ripetiamo, continui esempi di situazioni in cui l’empatia sembra essere assente. Baron-Cohen, a questo proposito, ci invita a ricordare gli atti barbarici compiuti dagli scienziati nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, sottolineando come, alla base della mancanza di questa capacità ci fosse fondamentalmente un guardare all’altro come oggetto (p. 2): sono esempio di questo anche le più recenti violenze emerse, a scapito dei bambini, nel 2009 in un asilo di Pistoia[14]; uno dei tanti casi venuti alla luce negli ultimi anni nei confronti dei soggetti più fragili, minori e anziani che siano.
Considerare l’altro come oggetto significa, come suggeriva Martin Buber[15] contrapponendo Ich-Du (Io – Tu) a Ich-es (Io – Esso), svalutarlo: rapportarsi agli altri come se fossero “oggetti” significa “usarli in vista di qualche scopo” (ibidem, p. 6). Questo, riconosciamolo, può succedere a qualsiasi individuo, perché in ciascuno l’empatia (che prevede, come vedremo, riconoscere nell’altro un soggetto) si muove lungo un continuum tra un livello massimo e un livello minimo. Tutti si trovano in quello che viene definito spettro di empatia (Baron-Cohen, p.13 – 16), oscillando tra condizioni in cui risulta maggiore la capacità di identificare ciò che gli altri pensano o provano e di rispondere a quei pensieri e sentimenti con un’emozione corrispondente (p. 14), a situazioni in cui questa capacità perde, per così dire, di forza. Tutto questo è normale e, sotto alcuni punti di vista, anche sano per un soggetto; sarebbe però importante che gli individui si collocassero, per la maggior parte della loro esistenza, in un punto in cui l’empatia risultasse significativa e “alta”: come suggerisce Rizzolatti[16] essa “è come la glicemia: non può scendere sotto una certa soglia”.
Se si ritiene fondamentale importanza promuovere lo sviluppo di questa capacità sin dalla primissima infanzia, allora non si può prescindere dal chiamare in causa quegli attori che, più di altri, potrebbero rivestire un ruolo in questo percorso. Accanto alle figure genitoriali, infatti, ne ricoprono uno estremamente importante anche quei professionisti che entrano in contatto con i bambini sin dalla primissima età e che, con questi, trascorrono una significativa quantità di tempo: gli educatori. Così come i genitori, anche questa figura professionale è chiamata, oggi, a riconoscere il proprio ruolo educativo e la propria responsabilità nel promuovere, in qualche modo, lo sviluppo emotivo, e non solo cognitivo, dei soggetti di cui si prendono cura, siano questi bambini o adolescenti. Se, da una parte la relazione con la figura di attaccamento (la madre o il padre) risulta fondamentale nel condizionare profondamente, spesso in maniera significativa, l’individuo, è anche vero che eventuali carenze di empatia possono essere recuperate successivamente: un insuccesso vissuto in un contesto può essere recuperato o compensato in un altro.
Come suggerisce Bosi[17], indipendentemente dalla fascia di età con la quale si relaziona, l’educatore è chiamato, oggi, ad essere consapevole dei propri stati emotivi e delle proprie esperienze emozionali (p. 54): senza questa consapevolezza, infatti, non risulta possibile diventare buoni “allenatori emotivi” per gli educandi, così come non risulta possibile dimostrarsi anche empatici nei loro confronti. L’educatore, quindi, è chiamato ad entrare, prima di tutto, in sintonia con se stesso e poi con gli altri. Goleman suggerisce specificatamente come questa abilità si basi sull’autoconsapevolezza: “tanto più aperti siamo verso le nostre emozioni, tanto più abili saremo anche del leggere i sentimenti altrui” (1996, p. 124).
Obiettivo di queste riflessioni è, quindi, sostenere l’importanza dell’esercizio di questa abilità nella relazione educativa, lì dove al bambino o all’adolescente è permesso di osservare, comprendere e fare esperienza del significato di un agire empatico, grazie all’esempio fornito dall’adulto.
- Definire l’ empatia
La definizione di empatia risulta essere, come osservato da numerosi autori (Bonino, p. 9, Bellingreri, p. 22), un compito arduo: essa è frutto di fattori cognitivi ed affettivi dell’individuo tra loro interconnessi, quali la consapevolezza dei confini del proprio sé, l’accoglimento emotivo dell’altro, le motivazioni, l’ambiente sociale nel quale è inserito, e così via.
Il termine deriva dal tedesco Einfϋhlung per indicare la contemplazione del bello, con riferimento all’ispirazione artistica di fine Ottocento (Bellingreri, p. 35). Il termine Empathy (in italiano empatia) deve la sua origine a E. Titchener, psicologo americano che tradusse, nei primi del Novecento, il termine tedesco in maniera letterale: “sentire dentro”, con riferimento proprio al godimento estetico (Bonino p. 9). In realtà, il nuovo termine veniva coniato facendo riferimento al greco empatheia, per altro molto simile al termine simpatia. Titchener applicò il nuovo concetto non solo al rapporto con gli oggetti (proprio con riferimento al godimento estetico dell’arte), ma anche alle relazioni che caratterizzano il contesto sociale. Il “sentir dentro”, suggerisce Bonino (p. 10), fa riferimento, quindi, ad una situazione e ad una persona, “con la conseguente tendenza all’imitazione dell’emozione compartecipata” (ibidem). L’empatia, quindi, deriverebbe da una sorta di imitazione fisica di una espressione emotiva altrui, che poi evocherebbe gli stessi sentimenti anche nell’imitatore (Goleman, p. 127).
Lentamente, quindi, la definizione del concetto prende le distanze dall’esperienza estetica, sebbene questo non fosse obiettivo iniziale di Titchener: il suo merito è stato quello di aver individuato un termine che fosse distinto da simpatia, intendendo con questo la “benevola compassione che si può provare per la sofferenza altrui, ma che non comporta alcuna condivisione” (ibidem; Bonino, p. 12). Se empatia significa “sentire dentro”, simpatia può essere intesa come un “sentire per” un’altra persona: essa, infatti, non prevede la condivisione del vissuto emotivo altrui, vivendo lo stesso sentire in modo vicario[18] ma, essendo un orientamento emotivo, significa provare “preoccupazione” nei confronti degli altri. Certamente questo fenomeno è legato a quello dell’empatia, ma rispetto a questo è estremamente differente.
Tornando alla nostra definizione, il termine trovò rapidamente applicazione anche in ambito psicologico, tanto che Theodor Lipps (1905), sottolineò come, secondo la propria prospettiva, il piacere estetico fosse da intendersi come godimento di un oggetto esterno, ponendo l’accento però più sul soggetto che fa esperienza di godimento, che sull’oggetto (Bonino, p. 9). Secondo questa prospettiva il termine implica che “chi osserva un certo gesto in un’altra persona proietti se stesso sull’altra persona e provi perciò ciò che l’altro sta provando” (ibidem), manifestando una tendenza ad imitare il gesto percepito.
Nel corso del tempo il concetto di empatia fu applicato a contesti diversi, dall’ambito clinico a quello filosofico, fino alle neuroscienze (si pensi al contributo di Rizzolatti e alla sua teoria dei neuroni a specchio). Per ogni ambito venne fornita una definizione, rappresentativa di uno specifico orientamento teorico; non essendo questa la sede per riproporre un’analisi esaustiva della letteratura sull’argomento (per la quale rimandiamo all’eccellente lavoro svolto da Bonino et. al. e Bellingreri), crediamo importante sottolineare come, a partire dagli inizi del Novecento, gli orientamenti che hanno guidato la ricerca siano stati fondamentalmente due: in un caso, dell’empatia, veniva considerata principalmente la natura affettiva (es. studi clinici e di psicologia sociale e della personalità del secolo Ventesimo), mentre nel secondo caso essa veniva considerata come esperienza prevalentemente cognitiva (anni Settanta), soprattutto con l’obiettivo di individuare elementi che la rendessero misurabile dal punto di vista scientifico.
Accanto alle numerose definizioni offerte in letteratura, consideriamo quella suggerita da Bellingreri estremamente interessante: per empatia si intende quella specifica “qualità conoscitiva” che caratterizza le relazioni interpersonali, o almeno alcune di queste, ovvero la “comprensione emozionale di un’altra persona, conosciuta e amata” nella sua originalità (p. 50, rif. Bonino et al. p. 15-32), e quel “processo multidimensionale” intenzionale, che prevede una rappresentazione cognitiva conscia dell’altro e il coinvolgimento emotivo (p. 68). Questa definizione, infatti, correttamente racchiude in sé entrambi gli orientamenti, affettivo e cognitivo.
Anche Carl Rogers ne offre una formulazione efficace:
“Lo stato di empatia, dell’essere empatico, è il percepire lo schema di riferimento interiore di un altro con accuratezza e con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se una sola fosse la persona – ma senza mai perdere di vista questa condizione di come se” (1983, p.121)[19]
In qualche modo, quindi, essere empatici significa fare esperienza emotiva e cognitiva del vissuto altrui, senza – però – perdere se stessi: “l’altro resta altro, diverso da me (…), ma io lo incontro sul suo terreno che resta suo, non viene ad appartenermi solo perché lì l’ho incontrato” (Cerri Musso, p. 97, cfr. E. Stein). Né, aggiungiamo, noi apparteniamo all’altro. Nell’atto empatico il vissuto dell’altro ci attrae al suo interno cambiando radicalmente la nostra prospettiva e questa forse ne è, come sottolinea Cerri Musso[20], la peculiarità (p. 96): il vissuto dell’altro “non è più Oggetto nel verso senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di sé” (Stein, p. 78)[21]. Il mio Oggetto è costituito dal vissuto emotivo, esperienziale dell’altro, “così che sono presso il Soggetto di quel vissuto originario e ho il suo stesso angolo visuale, pur non confondendomi con lui” (Cerri Musso, p. 96), e permettendo all’altro di restare diverso da me (p. 97).
D’altra parte, quella comprensione immediata delle emozioni altrui che, come osserva Rizzolatti, viene attivata dal meccanismo di neuroni a specchio (p. 181), rappresenta la condizione necessaria, ma non sufficiente, al comportamento empatico[22]. Infatti, oltre al riconoscimento, in primis, delle proprie emozioni (Goleman, p. 124) e alla capacità di distinguere il sé dall’altro, Bellingreri sottolinea come sia fondamentale anche l’intenzione che è alla base dell’atteggiamento empatico (2013, p. 99)[23], soprattutto riferendosi a quello che, oltre ad essere maturo (quindi estremamente diverso dal solo contagio emotivo) è anche autentico (quindi non finalizzato alla manipolazione degli altri). A questo proposito, riprendendo quanto precedentemente accennato, “matura” è quella empatia che prevede la capacità di riconoscere l’altro come “universo differenziato da sé” (Bellingreri, 2013, p. 86), del tutto originale: comprenderne i vissuti dal punto di vista emotivo e cognitivo non significa, infatti, percepire l’orizzonte esistenziale dell’altro come uguale al nostro[24]. Comprendere per analogia deve prevedere anche la capacità di riconoscere che ciò che noi vediamo e percepiamo della realtà non è ciò che percepiscono gli altri. Conoscere i sentimenti degli altri ci permette di cogliere ciò che è a noi simile in essi (Buber, 1993[25], p. 175; Bellingreri, 2005, p. 48).
Perché questo sia possibile, occorre che il soggetto empatizzante[26] abbia compiuto un lavoro su se stesso di autoformazione, mirato alla crescita della consapevolezza e alla gestione di sé (p. 88), così da saper definire i confini che separano il sé dall’altro: senza questo percorso l’individuo non è nelle condizioni di poter esercitare un atteggiamento empatico maturo, lo stesso richiesto, poi, all’interno dei contesti educativi. La conoscenza di sé, essere capaci di discernimento interiore, consente di eliminare quegli elementi di disturbo che ciascun soggetto porta all’interno di una relazione: ogni individuo trascina con sé vissuti non risolti, abitudini, meccanismi, pregiudizi e giudizi che, in qualche modo, condizionano in maniera inconsapevole il proprio modo di relazionarsi agli altri. Se è vero che, attraverso il sistema dei neuroni a specchio, noi sappiamo quel che gli altri fanno[27], c’è motivo di credere che il nostro agire “attivi” negli altri un meccanismo simile e reciproco.
Essere consapevoli di ciò che è alla base del nostro agire, e del nostro essere nel mondo, si costituisce, inoltre, come una questione etica per noi e per coloro che con noi si relazionano proprio perché attraverso il nostro atteggiamento condizioniamo profondamente gli altri; questo assume una valenza maggiore se riferito ai contesti che prevedono l’instaurarsi di relazioni educative, come le istituzioni educative.
L’educatore che non si ponga come obiettivo principale quello di conoscere se stesso assume un atteggiamento non corretto dal punto di vista deontologico non solo nei confronti di sé, ma anche nei confronti dei bambini che dovrà accompagnare nel percorso di crescita, dovendo mirare al loro bene, alla loro massima autonomia e libertà interiore.
Antonio Ricci, sul tema dell’educazione e dell’essere educatori nel rapporto con i bambini, scrive: “Ci occupiamo del fare, ma raramente lo facciamo preoccupandoci dello sviluppo dell’essere. In tal modo ogni cosa perde senso, finché alla fine una cosa vale l’altra. Che tristezza. Mi domando allora cosa può importare della vita degli altri a chi ha da tempo rinunciato alla serietà della propria?” (A. Ricci. Lasciamoli in Pace, 31 gennaio 2013 [28]
La questione etica all’interno della quale collochiamo l’empatia riguarda anche un altro importante aspetto: la motivazione che è alla base dell’atteggiamento empatico. Martin Buber (1997, p. 311 – 339) usa il termine “disincontro” per indicare quelle relazioni in cui il bene dell’altro non sia il fine ultimo: il concetto introdotto dall’Autore assume, quindi, un profondo significato negativo nel momento in cui la conoscenza e la vicinanza fisica, cognitiva ed emotiva si trasformano in uno strumento per manipolare e ferire – consapevolmente o inconsapevolmente – altre persone. Come sottolinea Bellingreri (2005) “proiettando nell’altro ciò che ne sappiamo, in qualche modo, lo addomestichiamo”, andando a scapito della reale identità di chi, con noi, è coinvolto all’interno della relazione. Questo è vero nella misura in cui il soggetto che si definisce empatizzante non è, in realtà, consapevole dei meccanismi di proiezione in virtù dei quali attribuisce al soggetto empatizzato vissuti e significati esistenziali che non gli sono propri: in questo modo adotta un atteggiamento empatico non autentico (pp. 45-46), che non porta alcuna conoscenza singolare dell’altro o, come può succedere, induce addirittura a manipolarlo.
Nel sentire comune l’empatia viene considerata, al di là di qualsiasi definizione, un costrutto da intendersi necessariamente in termini positivi, senza considerare se sia matura o meno, autentica o meno. Invece, con essa possiamo ferire noi stessi o gli altri “proprio a motivo della progressiva conquista dell’intimità d’animo” (2005, p. 21), indulgendo ad una certa morbosità nel conoscere e sentire l’altro. Accanto, quindi, al lato positivo, “solare” come lo definisce Bellingreri, caratterizzato dall’ascolto accogliente dell’altro, è possibile un altro aspetto, “oscuro” legato, in alcuni casi, al “pericolo della manipolazione o a intrusioni e intimità non volute” (ibidem).
All’interno di una relazione, sia questa educativa o meno, la domanda fondamentale che ogni individuo è invitato a porsi riguarda, quindi, anche le intenzioni e motivazioni che lo spingono a controllare e gestire i propri stati emotivi e cognitivi, e a comprendere quelli altrui.
- L’empatia nella relazione educativa.
Riflettere su questo tema è importante e indispensabile per rispondere a tutti quei professionisti che, impegnati nelle istituzioni educative, formulano richieste formative indirizzate, in generale, all’acquisizione di “strumenti pratici per lavorare” con i bambini. Albert Einstein risponderebbe che “Nulla è più pratico di una buona teoria”[29] e Maria Montessori[30] potrebbe farci notare, non a torto, che il “lavoro” migliore che potremmo offrire al bambino, nel rispetto del suo essere in divenire, sarebbe fornirgli uno spazio a sua misura, ricco di stimoli. Non vogliamo sostenere, in realtà, che non possa essere legittimo formulare simili richieste, ma ci rende perplessi che tra i vari “strumenti” quelli che, in qualche modo, mettono in gioco la relazione educativa stessa siano i meno richiesti.
Qualcosa sta lentamente cambiando: negli ultimi anni gli enti responsabili della gestione di questi servizi propongono percorsi formativi volti ad approfondire tematiche relative, per esempio, al significato profondo dei percorsi educativi intrapresi oppure relative allo sviluppo delle competenze emotive. Sono numerosi infatti i corsi proposti agli educatori per diventare buoni “allenatori” emotivi, capaci di guidare gli educandi (bambini e non) nel riconoscimento, comprensione e gestione delle proprie emozioni.
Ci sembra d’altra parte, che i percorsi formativi proposti oggi non tengano sufficientemente conto che, tra i numerosi strumenti “pratici”, l’empatia possa essere uno tra i più importanti per lavorare all’interno delle istituzioni educative. Se sulla base della definizione del costrutto, proposto nelle pagine precedenti, si concorda circa la necessità di promuovere e sviluppare questa capacità a partire dalla prima infanzia, essa dovrebbe essere coltivata, in primis, in coloro che con l’infanzia si confrontano quotidianamente e che, troppo spesso, “si rivelano generalmente inconsapevoli dell’influenza talora penetrante che esercitano” sul bambino (Rogers, 1970, p. 28)[31].
Non si tratta, ovviamente, di sottoporre gli educatori a test e valutazioni per verificarne la capacità empatica; piuttosto, occorre assicurarsi sia presente e vivo l’interesse per quel percorso interiore sopracitato, necessariamente continuo, che può portarli ad essere, in conclusione, dei veri professionisti dell’educazione[32].
Conquistare la conoscenza di sé e vivere prendendo in mano la regia di se stessi sono compiti che queste professioni sono chiamate ad assolvere: “solo chi vive se stesso come persona, come un tutto significante, può capire le altre persone” (E. Stein, in Cerri Musso, pp. 124-125).
Questo, a nostro avviso, dovrebbe implicare l’essere caratterizzati da una personalità matura, capace di autoregolarsi anche nelle situazioni più complesse: è il risultato di un lavoro auto-educativo, più che etero-formativo, perché prevede consapevolezza di sé e intenzionalità del soggetto.
A tale proposito Rogers afferma che l’empatia è: “qualcosa che può essere sviluppata tramite l’addestramento. (Gli educatori) possono essere aiutati a divenire empatici. […] questa qualità sottile […] non è qualcosa di “innato”; anzi, può essere appresa, e appresa più rapidamente in un clima empatico” (1983, p. 129)
L’empatia matura è, quindi, quella che prevede – anche nell’educatore – un percorso di crescita interiore continuo, un interesse al proprio essere e alle motivazioni profonde che lo guidano nelle relazioni con gli altri e nella scelta di una professione basata sulla relazione. In educazione questo è da considerarsi imprescindibile. La letteratura, in questo senso, non sembra essersi risparmiata. Lo stesso Rogers, nel definire le condizioni di efficacia della relazione educativa, accanto all’autenticità e alla accettazione positiva incondizionata dell’altro, aggiunge la comprensione empatica, intesa come la condizione d’efficacia più potente all’interno della relazione educativa (1983, p. 120).
Herbert Franta, riflettendo sulla necessità, per l’educatore, di assumere un atteggiamento empatico, sottolinea come, senza questa abilità, non sia possibile comprendere le comunicazioni degli educandi, “né trasformare il processo educativo in un vero e proprio rapporto tra partners” (1977, p. 77)[33], e tanto meno, ritornando a Rogers, si potrà mai giungere a far scattare nell’educando il processo di “sviluppo personale” (1970, p. 21). I bambini corrisposti nella dimensione affettiva si sentono incoraggiati a sviluppare la propria personalità.
Possiamo, dunque, definirla “strumento educativo”? L’empatia, in quanto fenomeno che caratterizza ogni modalità relazionale, permette una comprensione dell’altro e degli altri (Bellingreri, 2005, p. 23), nella misura in cui prevede una comprensione di sé, da parte del soggetto empatizzante. Questo assume maggior valore se consideriamo che essa favorisce e promuove la crescita dell’individuo nel momento in cui permette al soggetto di focalizzare la propria attenzione sulla propria esperienza profonda, promuovendo l’introspezione, la comprensione di sé e del significato della propria esistenza (Bruzzone, p. 112)[34], predisponendo al cambiamento auto diretto e alla crescita[35].
Così come non è possibile, nella vita, vedere direttamente e conoscere completamente l’esperienza che l’altro, nella propria interiorità, “ha di sé, del suo mondo e di me nel suo mondo” (Bellingreri, 2005, p. 24), non è nemmeno possibile, per ciascuno di noi, conoscersi pienamente, ma solo a tratti. Riprendendo quanto accennato precedentemente, l’essere empatici deve prevedere la consapevolezza che ciò che vediamo dell’altro non è ciò che l’altro, dentro se stesso, vede di sé. Mettersi nei panni altrui e assumerne la prospettiva significa certamente assumerne lo stesso asse (Franta, 1987, p. 78)[36], con un significato fisico-spaziale e percettivo, ma anche assumerne il punto di vista cognitivo ed emotivo: questo permette di comprendere l’altro e i suoi vissuti emotivi, come altro da sé. Ciò nonostante, pur non essendo oggettiva la conoscenza che nasce da un simile approccio, resta “reale” perché, emotivamente connotata, permette comunque di comprendere qualcosa del cuore dell’altro (p. 51) e del proprio cuore in relazione all’altro.
L’empatia, matura e intenzionale, diventa allora strumento educativo nel momento in cui risulta motivata al raggiungimento di un fine ultimo: l’autonomia dell’educando e il suo essere capace di comprensione di se stesso (p. 265). Questo deve prevedere, da parte dell’educatore, una “considerazione positiva incondizionata” dell’altro (Rogers, 1970, pp. 64-65), lontana da ogni forma di giudizio. Lo sguardo dell’educatore, infatti, “è rivelatore” e permette all’altro di “vedere” a sua volta (Bellingreri, p. 285): se in questo sguardo, quindi, è presente un giudizio o una svalutazione, non possiamo aspettarci che il bambino veda qualcosa di diverso, e che riconosca in sé un valore. Il compito dell’educatore è quello di accompagnare l’educando a progettare la propria esistenza e ad esserne responsabile. Questa è la componente auto-formativa dell’educazione, soprattutto nella misura in cui la relazione con l’altro è luogo di incontro con il sé.
L’essere in grado di comprendere, cognitivamente ed emotivamente, i vissuti altrui permette di coglierne la dimensione profonda, e di far emergere competenze nascoste. L’atteggiamento empatico, prevedendo sia la comprensione di sé sia quella dell’altro, si presenta “quale possibilità autentica di con-educazione” (Cerri Musso, p. 151): questo è lo spazio virtuale in cui si sviluppa la relazione educativa. Al suo interno l’educatore, mostrandosi nella sua autenticità, riconoscendo valore a sé e all’altro come soggetti attivi, permette all’educando di percepirsi autore del proprio percorso di crescita, autonomo e “responsabile di sé” (Franta, 1988, p. 62).
In ultima analisi questa è l’assunzione di responsabilità a cui, questi professionisti, sono chiamati a rispondere anche da un punto di vista etico. Edith Stein, infatti, sosteneva che “a chi si appresta a un compito educativo sono richieste capacità grandi giacché grande è il compito” (Cerri Musso, p. 151). In qualche modo l’educatore deve essere consapevole dell’importanza che il proprio sguardo positivo ha nell’attribuzione di valore e senso che l’educando avrà, poi, di sé. Ricordando il sistema di neuroni a specchio discusso da Rizzolatti, diventa chiaro come un individuo possa diventare, all’interno di una relazione significativa, specchio dell’altro: l’assunzione di un comportamento non giudicante ed empatico verso sé e l’altro porta, quest’ultimo, ad assumerne uno simile.
- Conclusioni
L’educazione si pone, come fini, l’elaborazione di un progetto di vita in vista della realizzazione personale, il raggiungimento dell’ autonomia e del bene personale di ciascuno, nonché quella condizione di benessere definita dall’Hasting Center come sviluppo delle “capacità della persona di perseguire i propri obiettivi vitali e di funzionare all’interno dei comuni contesti sociali” (1997)[37]. Si tratta di un compito fondamentale al quale anche gli educatori devono rispondere, nonostante si trovino ad operare, nella quotidianità, in contesti che difficilmente ne riconoscono il loro valore e ruolo dal punto di vista educativo.
Come ci dimostra la letteratura e l’esperienza professionale nei servizi alla persona, le ferite dovute a una carenza di amore ed empatia nell’infanzia possono segnare profondamente l’individuo, andando a compromettere anche aspetti legati allo sviluppo cognitivo oltre che emotivo. Ricordando quanto affermato da Baron-Cohen, alla base delle nostre ferite più profonde, che spesso hanno origine nell’infanzia, c’è una deprivazione in termini di empatia. E sono proprio queste carenze quelle che, in maniera più o meno evidente, possono limitare e compromettere lo sviluppo delle nostre abilità in età adulta, nonché la nostra capacità relazionarci agli altri e affrontare le difficoltà ambientali.
A questo proposito, concludiamo ponendo alcune questioni che riteniamo di estrema importanza: gli educatori che lavorano all’interno delle istituzioni educative sono davvero consapevoli del ruolo fondamentale che sono chiamati a ricoprire? Comprendono, nel loro profondo e non solo a parole, l’importanza dell’impatto che il loro comportamento, il loro essere nella relazione, può avere sugli educandi con i quali si relazionano quotidianamente? E, in ultimo, sono consapevoli dell’obbligo “etico” a cui sono chiamati nell’intraprendere un percorso di consapevolezza di sé e di elaborazione dei propri vissuti?
Il nostro augurio è che presto ciascun educatore possa rispondere, attraverso il proprio comportamento, in maniera affermativa: a disposizione ha uno strumento unico ed insostituibile.
(*) Sabina Colombini, PHD in scienze psicologiche, antropologiche ed educative, pedagogista, ricercatrice e assistente presso l’università degli studi di Torino. Testo tradotto da ” S. Colombini – Empathy as an educational tool, Education Sciences and Society, Vol. 6, N. 1, pp. 137-153, 2015. (ISSN: 2319-7323)”. A questo link l’articolo in inglese in formato pdf.
[2] “Con il termine di contagio emotivo ci riferiamo a tutte quelle forme di condivisione emotiva immediata ed involontaria, caratterizzate da assenza di mediazione cognitiva. Si tratta di reazioni automatiche agli stimoli espressivi manifestati da un’altra persona: l’emozione è dunque condivisa non in modo vicario, ma in modo diretto” (S. Bonino, A. Lo Coco, F. Tani. Empatia. I processi di condivisione delle emozioni. Giunti, Firenze, 1998, p. 19).
[3] D. Goleman. Intelligenza Emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici. RCS Libri, Saggi Bur. Milano, 1996
[4] S. Baron-Cohen. La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012
[5] C.R. Darwin. L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. 1872. Ed. it. A cura di G.A. Ferrari, Boringhieri, Torino, 1982.
[6] G. Rizzolatti, C. Sinigaglia. So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni a specchio. Raffaello Cortina Editore, 2006
[7] J. Bowlby. Attaccamento e perdita. I: l’attaccamento alla madre. Boringhieri, Torino, 1] A. Bellingreri. Per una Pedagogia dell’Empatia. V&P, Milano, 2005
[9] A. Bellingreri. L’empatia come virtù. Senso e metodo del dialogo educativo. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2013
[10] WHO (1997). Life Skills Education for children and adolescents in schools. Geneva, WHO (rif. WHO /MNH/PSF/93.7A.Rev.2)
[11] Per un’attenta analisi dell’argomento si veda D. Bruzzone. Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Carocci Editore, Roma, 2007
[12] S. Baron-Cohen. La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012
[13] 13 p. 102-103. La possibilità che si possa parlare propriamente di empatia nella prima infanzia viene discussa anche da E. Stein nella sua tesi di Dottorato pubblicata nel 1917, dal titolo “Il Problema dell’Empatia” (trad. ita. Ed. Studiun Roma, 1985). Renza Cerri Musso a proposito scrive: “Il bambino non ha chiavi interpretative sofisticate, che lo abilitino a istituire relazioni su coordinate complesse: probabilmente per questo motivo coglie in-mediatamente e con ciò arriva al nocciolo. La sua è una forma di conoscenza solo apparentemente empatica, di fronte all’altro ne prende atto, la sua affettività (…) è più orientata a sentire che a istituire relazioni cognitive o valutative. La sfera emotivo-affettiva prevalente è ancora sottilmente delimitata, quindi più facilmente <<attaccabile>>dall’esperienza estranea” (R. Cerri Musso. La pedagogia dell’Einfühlung: saggio su Edith Stein. Ed. La scuola, Brescia, 1995)
[14] http://firenze.repubblica.it/cronaca/2010/06/28/news/asilo_pistoia_nuovo_video_shock-5229750/
[15] M. Buber. Sull’educativo. In Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Milano, San Paolo, 1997
[16] Domenica del Sole24ore, GENNAIO 2013
[17] R. Bosi. Pedagogia al nido. Sentimenti e relazioni. Carocci Editore, Roma, 2009.
[18] In questo la simpatia risulta essere molto simile al contagio emotivo precedentemente definito.
[19] C. Rogers. Un modo di essere. I più recenti pensieri dell’autore su una concezione di vita centrata –sulla-persona. Martinelli, Firenze, 1983.
[20] R. Cerri Musso. La pedagogia dell’Einfühlung: saggio su Edith Stein. Ed. La scuola, Brescia, 1995
[21] E. Stein. Il Problema dell’Empatia. 1971. Trad. it. Ed. Studiun Roma, 1985
[22] In una recente intervista Rizzolatti ha spiegato che “i neuroni specchio si trovano nelle aree motorie, e descrivono l’azione altrui nel cervello di chi guarda in termini motori (…) molti neuroni del sistema motorio rispondono a stimoli visivi. Se vedo una persona che afferra una bottiglia colgo subito il suo gesto perché è già neurologicamente programmata in me la maniera in cui afferrarla. Si verifica una comprensione istantanea dell’altro, senza bisogno di mettere in gioco processi cognitivi superiori. In seguito abbiamo visto che la stessa cosa capita per le emozioni (…). Questo permette di uscire da un concetto mentalistico e freddo, riportando tutto al corpo. Io ti capisco perché sei simile a me (…). Ama il tuo prossimo come te stesso“. L. Bentivoglio. Rizzolatti: Ecco perché i sentimenti sono contagiosi. LaRepubblica, 27 agosto 2012
[23] A. Bellingreri. L’empatia come virtù. Senso e metodo del dialogo educativo. Ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2013.
[24] Rizzolatti contrappone l’empatia matura a una forma di empatia più “rudimentale”, tipica del primo anno di vita, che caratterizza la consonanza affettiva che il bambino instaura con la madre: questa forma di empatia presuppone “la capacità di riconoscere le emozioni altrui, di leggere sul viso, nei gesti o nella postura del corpo degli altri i segni del dolore, della paura, del disgusto e della gioia” (p.169).
[25] M. Buber. Il principio dialogico e altri saggi (a cura di Andrea Poma). Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo, 1997
[26] Ovvero quel soggetto che prova “empatia” nei confronti di un altro individuo che diventa, quindi, “empatizzato”
[27] Si fa riferimento, qui, al titolo del testo di G. Rizzolatti e C. Sinigaglia: “So quel che fai
[28] A. Ricci, Lasciamoli in pace, Blog ” Manuale Inapplicabile
[29] Anche Kurt Lewin (apprendimento esperienziale)
[30] M. Montessori. La scoperta del bambino. Milano. Garzanti, 1957
[31] C. Rogers, G. Kinget. Psicoterapia e relazioni umane: teoria e pratica della terapia non direttiva. Torino. Boringhieri, 1970
[32] Bellingreri utilizza il termine eùnonia proprio per far riferimento ad un processo di crescita, che definisce noodinamico, ovvero un lavoro interiore che porta l’individuo a diventare attore e autore della propria esistenza (A. Bellingreri. L’empatia come virtù. Senso e metodo del dialogo educativo. Ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2013, p.89)
[33] H. Franta. Interazione Educativa. Teoria e pratica. LAS, Roma, 1977
[34] D. Bruzzone. Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Carocci Editore, Roma, 2007
[35] Per un approfondimento si rimanda anche a: S. Colombini, La relazione educativa: un modello circolare. Orientamenti Pedagogici, Vol. 62, N. 359, pp. 91 – 101, 2015.
[36] H. Franta. Relazioni sociali nella scuola. Promozione di un clima umano positivo. Società editrice internazionale, 1987
[37] Hasting Center, Gli scopi della medicina: nuove priorità. Politeia, 1997, 45, 1-48