I palazzi emotivi

di Ginevra Ricci*

La fragilità è una delle principali caratteristiche dello spettro dei sentimenti umani basilari, che ci appartengono in modo naturale sin da lontane ere primordiali. È un tassello immancabile per qualsiasi valutazione psicologica e sociale degli individui essendo il substrato grazie al quale, in positivo o in negativo, appaiono tutte le altre caratteristiche. La sensibilità che ci appartiene come mammiferi fa in modo che gli eventi della nostra vita, soprattutto quelli con un impatto emotivo più forte, restino scritti nel nostro inconscio come codice utile alla decodificazione degli stimoli esterni. Le nostre fragilità non sono altro che filtri, impressi dalla sensibilità, che poniamo alla base della relazione del nostro io con qualsiasi altra cosa.

Dunque, affermare che l’uomo, in una condizione di naturale libertà e solitudine, spoglio dal giudizio degli altri poiché giudicato solo da se stesso, possa vivere nella nudità dei sentimenti, non sembra una valutazione lontana dalla realtà dei fatti. Immaginare un uomo “naturale” al pari di quello ipotizzato da Rousseau o Locke, è funzionale ma difficile per la nostra mente poiché decontestualizzato. Ma tale figura, senza stato né padrone, senza tempo se non quello naturale del giorno e della notte, senza bisogni se non quelli animali, inserita nel tempo storico più lontano immaginabile, è l’emblema della dicotomia intrinseca della condizione umana in cui l’estrema libertà, e dunque la solitudine, fa apparire l’estrema schiavitù agli istinti naturali.

L’uomo più libero dell’universo avrebbe comunque bisogno di dormire, mangiare, cercare relazioni umane, esteriorizzare turbe emotive legate alla semplice e pura esistenza in un mondo dove soli non si è mai e dove, soprattutto, ogni cosa si muove incessantemente, collidendo con tutte le altre direttamente o indirettamente.

La collisione ci spaventa.

Il rumore dell’universo rimbomba nelle nostre orecchie, vibra incessantemente attorno a noi ed esige una reazione.

L’uomo piccolo crea dunque enormi palazzi emotivi, stanze e corridoi infiniti dove collocare paure e fragilità, in modo che stando lì imprigionate, sappia sempre dove trovarle e come nasconderle agli altri. L’uomo sociale difatti nasconde gelosamente le proprie fragilità, poiché è cosciente del fatto che esse rappresentano il codice essenziale per leggerlo e denudarlo agli occhi degli altri.

È importante distinguere fragilità soggettive legate al nostro vissuto ed eventualmente a quello della nostra famiglia, e fragilità universalmente condivise dagli esseri umani, che nel corso della storia si sono tradotte in tabù, in leggi comportamentali prevalentemente irrazionali.

Si prenda in considerazione la “logica folle” del rispetto come risposta alla paura e al potere, contestualizzato nel ruolo dei sessi nella storia. Il potere della donna preistoricamente intendibile nell’enorme potere di saper mettere al mondo un altro essere umano, fungendo da portale con quel mondo ancestrale venerato e temuto da tutti gli uomini in tutte le credenze e religioni, è bastato perché si radicasse un’enorme paura, commisurabile al potere che ha segregato le donne chiudendole in una gabbia sociale, il patriarcato, onnipresente nella storia dell’umanità.

Dunque il potere della paura e della forza fisica si presenta come ordine naturale e allo stesso tempo innaturale delle vicende storiche. Naturale perché facile, istintivo, utile all’esercizio di tale potere perché basato su una risposta altrettanto primordiale dei sottoposti; innaturale perché socialmente inutile alla felicità e alla serenità dell’anima e dunque della civiltà.

L’uomo che nasconde è difatti infelice.

La ricerca del codice, del castello emotivo, l’ansia della nudità e la paura della relazione fanno di noi degli esseri infelici.

Alcuni popoli hanno culturalmente instaurato dei riti, degli eventi utili allo sfogo dei sentimenti, luoghi sicuri dove l’espressione del proprio codice segreto viene camuffata da altre regole in modo che diventi naturale esprimerlo e dunque non pericoloso. In una arena dove uomini e leoni lottano fino alla morte, nessuno si chiede perché quell’uomo esulti così enfaticamente o perché l’altro osservi silenziosamente il truculento gioco.

Si potrebbe antiteticamente affermare che l’uomo naturale è invece ostile e chiuso, che nascondere la propria fragilità faccia parte del gioco dell’esistenza. Tale affermazione potrebbe essere veritiera se non per il fatto che, conseguentemente, bisognerebbe anche affermare che l’uomo è naturalmente infelice. Se così fosse allora non sarebbe spiegabile il bisogno di esprimere ed esteriorizzare i sentimenti, tanto nelle parole e nei comportamenti quanto nelle arti più disparate, dal teatro alla musica, dalla guerra alle attività ludiche. Si instaurerebbe quindi un eterno e naturale conflitto tra la realtà dei fatti e la fatica del raggiungimento di una qualsiasi felicità o soddisfazione, in ultimo luogo sempre smentite per la naturale condizione di infelicità umana.

Più utopico, ma forse più vero, o semplicemente più utile a descrivere la realtà come vorremmo che fosse, sempre vista attraverso le nostre personali lenti decodificatrici, è credere che l’uomo nudo e capace di esprimere la verità di se stesso, sia felice; più specificamente reale, caotico, dissezionato agli occhi degli altri, ma fiero e indomito di fronte a se stesso dunque non necessariamente felice, ma vicino alle radici del mondo.

L’uomo che riconosce le proprie fragilità ha un occhio penetrante nei palazzi emotivi degli altri, e la sua azione, anche solo osservativa, incoraggia la demolizione della paura delle proprie fragilità.

La condizione umana nella socialità analizzata da Saramago nel libro “Cecità”, dove per una malattia virale tutti gli uomini diventano ciechi, ad eccezione di un’unica donna, è particolarmente esemplare per il concetto espresso anche da Andreoli, riguardo al vivere insieme: la donna teme di perdere la propria umanità poiché nessuno può più vederla. Da soli non si è più uomini poiché nessuna coscienza riconosce la nostra esistenza se non la nostra stessa coscienza, e il dubbio che essa ci possa ingannare si insinua nelle nostre menti fino ad annebbiarle.

L’essere visti nel senso più profondo del termine, diviene parte inscindibile della nostra esistenza. Leggere se stessi e saper leggere gli altri, saper dunque comprendere la mappa dei labirinti del sottosuolo di ognuno, inevitabilmente uniti tra loro, è infine l’ultimo stadio della saggezza assoluta tanto cercata nei secoli.

L’unico accesso a tale mondo è profondamente nascosto nel nostro palazzo emotivo. L’unico modo per accedervi è l’autoanalisi.

Saper interpretare il proprio codice è inoltre fondamentale per saper vivere in relazione con gli altri. I nostri personali edifici a lungo andare straripano e invadono la realtà in forme distorte e dannose, per noi e per altri.

Non è raro trovarsi a vivere negli edifici emotivi degli altri, senza neanche accorgersene, e non è raro che tale convivenza distrugga il nostro equilibrio, causando vari crolli dislocati nel vasto mondo del sottosuolo.

L’uomo costruttore convive con quello distruttore, la dialettica di tale rapporto muove le società da secoli e per secoli ancora le muoverà.

 

* Ginevra Ricci, studentessa liceale al V anno. 

Photo by Periagogè.