Senza niente di superfluo

di Antonio Ricci

Chi aspira ad essere semplice?

«Aperisson», in greco antico vuol dire «senza niente di superfluo, semplice»Cosa conosco? Cosa debbo imparare? Cosa è lecito dire e fare? Chi posso dire amico? Quanto posso condividere e con chi? Cosa debbo portare a compimento? Cosa è necessario che io lasci o interrompa?

Sono domande, dubbi e tracce. Ma è bene attendere ancora, non c’è alcuna fretta di rispondere. Ritrovo moltissime mie cose scritte negli anni, libri letti, parole sentite, appunti ben presi in giornate di grazia ascoltando i miei insegnanti e mi chiedo se possano ancora essere utili a qualcuno. Potrebbero essere parole salvate. Vedere lo spreco mi fa male. Chissà se ci saranno altre occasioni? Rimandare ancora a domani per non vivere oggi: fare scorta di vita non è possibile, nulla può essere trattenuto.

Tre anni fa ho strappato centinaia di mie foto scattate nell’arco di questi ultimi trent’anni. Ne ho lasciate pochissime, pochi frammenti. È accaduto con molta semplicità e nel mentre lo facevo mi rendevo conto che mi ero preparato per anni silenziosamente a quel giorno, senza saperlo. Mi stavo facendo un bel regalo. Bisogna liberare la parte di memoria pietrificata per narrare una storia vivente. Troppe immagini ingombrano. Troppo passato ingombra. Troppe conoscenze ingombrano. Troppe certezze ingombrano. Una progressiva spoliazione per liberarsi di ciò che non serve. Sobrietà conquistabile. Ma da dove si comincia? Qual è la nostra storia? Cosa narrare? Le gesta dell’io? Viene la nausea solo a pensarci. Menghi invitava a narrare le «gesta dell’Intento», credevo di capire ma solo ora comprendo quanto ciò sia difficile. È possibile pensare un’autobiografia che non sia una «egobiografia»? Forse si ma bisogna trovare un punto di partenza e credo che stia nelle domande più scomode, domande che non vorremmo mai sentirci porre, che  bisogna quindi andare a cercare, domande che forse mai arriveranno ma che vale la pena attendere.

Autenticità e integrità di vita dove affondano le loro radici? Come generarle? La narrazione di sé cambia nel corso del tempo e può impregnarsi di maggior autenticità o falsità a seconda dell’immagine che vogliamo far emergere dalle nostre parole. Ma a chi è diretto il nostro racconto di vita? Chi è l’interlocutore attento che vuole ascoltare la nostra verità? In molti sanno che si può raccontare per meglio comprendere la propria storia oppure al contrario per impedire che venga compresa: narrare per svelare o per nascondere. Quale costante contraddizione: tutti abbiamo bisogno di essere visibili ed essere riconosciuti ma non appena veniamo visti davvero, a meno che ciò non ci compiaccia, lottiamo per tornare invisibili. Vogliamo interezza o perfezione? Verità o illusione? C’è un idea di alto, di migliore, di perfetto che poco corrisponde alla realtà. Anthropos teleios è la persona pienamente realizzata nella sua umanità, non l’uomo e la donna illusoriamente perfetti cioè privi di limiti, senza dolore, contraddizioni, debolezze. Sono l’uomo e la donna che hanno accolto e riconosciuto la loro vulnerabilità, cioè transitorietà e impermanenza. Sono l’uomo e la donna diretti dal loro interno. Essere diretti dal proprio interno è un obiettivo che può richiedere la vita intera ma che vale la pena perseguire. L’unica cosa di cui un uomo può crucciarsi è la perdita del suo potenziale umano, perciò è necessario insistere perché ci si radichi nella realtà presente, nel pieno funzionamento del corpo. Avere fiducia nel proprio corpo e nel proprio organismo nella sua globalità psico-fisica non è semplice, eppure solo da lì possiamo partire: una persona senza fede nella propria natura non ha fiducia in nessuno. Viviamo nella costante conferma che nulla ci può appartenere per sempre, sempre chiamati a continue unioni e separazioni, conquiste e perdite, eppure sembra quasi impossibile accettarlo. Bisogna però continuare a protendersi, rischiando di venire rifiutati, di non riuscire ad afferrare, bisogna rischiare di andare verso il piacere piuttosto che manipolare l’ambiente affinché il piacere ci venga offerto per poi rifiutarlo in quanto «estorto». Essere cercati o cercare? Il trattenersi è un «non voglio», difesa non cosciente dall’essere delusi e feriti dall’altro, un’espressione di disprezzo. Continue unioni e separazioni obbligano a chiederci cosa vogliamo, obbligano ad uscire allo scoperto con il nostro desiderio e volere. Reagire con rabbia ad una perdita è normale così come combattere per tentare di recuperare ciò che si è perso, fino ad ammettere la propria sconfitta o vittoria per tornare infine ad orientarsi nel mondo. Non accettare la perdita e la debolezza, covare il risentimento, cercare nel passato una soluzione o un colpevole, essere schiavi del tempo riduce a nulla il sentimento nei confronti del mondo, fino a farlo divenire povero e vuoto, senza senso. Nella depressione melanconica sarà infine l’«io» a divenire povero e vuoto e non più il mondo: è il lutto della perdita di sé. Colui il quale è diretto dall’interno trova soddisfazione innanzitutto nel suo modo di reagire al mondo anziché nella reazione del mondo nei suoi confronti. È qualcuno che non attende più che i suoi bisogni infantili insoddisfatti vengano appagati sempre e subito, evitando di ripagare con la furia distruttiva e la vendetta grossolana, o strutturata che sia,  chi si rifiuta di essere usato in tal senso. Quale semplicità quindi? Difficile dirlo perché è qualcosa di profondamente personale. Parlo quindi per me. Da tempo evito di soffermarmi eccessivamente sul perché di molti miei gesti e parole, né conferisco loro eccessivi significati. Tento di invece di cogliere le occasioni di contatto così come si presentano, le seguo senza troppo preoccuparmi, come quando cammino in montagna: non procedo casualmente, cerco il sentiero senza mai sentirmi perso quando non vedo subito i segnavia; male che vada posso sempre tornare indietro, il sentiero piuttosto va cercato, bisogna fermarsi ogni tanto per gettare lo sguardo intorno e attendere. Ciò che si vede è solo qualche segno e mai la via intera: un buon camminatore lo sa e si accontenta perché ha in mente la cima e con fiducia riprende il cammino. Una volta arrivato in vetta, (e non sempre ci riesco o mi va di arrivarci), mi fermo, mi cambio la maglietta bagnata di sudore, mi copro bene, mangio un panino, una mela e qualche pezzo di cioccolata, contemplo gli orizzonti più lontani, cerco tracce di vita animale, mi riempio gli occhi e dopo aver risistemato i lacci delle scarpe, controllato zaino, imbragatura e moschettoni , infine riparto. Non mi piace stare a lungo in alto quindi riprendo quanto prima il sentiero per tornare a valle, prima che arrivino i temporali. La discesa spesso è più lenta e difficile della salita. In alcuni tratti devi scendere con gli stessi passi fatti in salita, ma al contrario e senza riuscire bene a vedere dove mettere i piedi. Così quello che all’andata sembrava un sentiero docile, diventa improvvisamente ripido e scivoloso. Il dolore alle ginocchia e la stanchezza fanno il resto. Vi è mai capitato di prendere un temporale ad alta quota senza riparo? Fulmini che ti cascano accanto esplodendo, elettricità ovunque che ti tira i capelli, un odore indimenticabile di ozono, la temperatura che scende rapidamente e se ti va male grandina anche con violenza. La grandine fa male sul viso e sulla testa, ti gela le mani e non riesci più ad afferrare bene gli appigli. Così cerchi di arrivare quanto prima su un sentiero migliore e cominci a correre senza sapere bene dove andare, scivolando pericolosamente sui sassi. In realtà non puoi scappare da nessuna parte e ti senti come un animale braccato, completamente inadatto a quel posto: sei solo di fronte ad una immensa potenza, indifferente ad ogni tua ragione, grandezza o sentimento. La paura che ti prende è indescrivibile e non somiglia a niente che già conosci. Non ci sono certezze, devi confidare nei tuoi piedi, nella tua velocità di decisione, nei tuoi nervi saldi. Infine devi fermarti e aspettare che il temporale passi, nascosto sotto uno sperone di roccia o sotto la mantellina, pregando che Dio non ti fulmini proprio quel giorno, perché hai ancora molto da fare: vuoi ancora assaggiare un buon bicchiere di vino, vuoi rivedere ancora le persone che ami, leggere il finale di un buon libro e scherzare con un amico. Non pensi a cose astratte, ma al sapore del pane, a una canzone idiota, alle mani di tua figlia o al calore del fuoco. Ogni volta che cammino in montagna vado cercando semplicità, voglio ricordare la mia vulnerabilità e trovare la mia forza: mi piace sentirmi sia piccolissimo, sia ben piazzato sui miei piedi e sulle mie gambe. Nel mio camminare vado ogni volta ad un appuntamento con trepidazione: non so mai chi ci sarà ad aspettarmi. Sulle vette vado quasi sempre solo e al ritorno non riesco a raccontare niente a nessuno, mi porto dentro un grande silenzio e odori di sudore, pietra, acqua, erba, terra. Ma ho spesso desiderato salire con qualcuno che fosse altrettanto innamorato del cammino e del silenzio, qualcuno che sapesse camminare da solo come me, insieme a me. A volte è accaduto e ne sono stato felice.

Da qualche parte ho letto che “siamo fortezze assediate da Dio”: conosco bene questa realtà, la cerco anche se quando arriva m’inquieta.

«C’è un alto che è frutto di una caduta, di una passione, di una rinuncia volontaria. Non è il podio del vincitore, non è l’apice della piramide sociale, non è un conto in banca, non è una posizione di potere. È la cima della montagna, l’abisso più fondo, la cella del monaco, la croce già vuota, il sepolcro ancora chiuso, il cielo di notte e all’alba nel deserto. Un alto nel quale il respiro si fa affannoso, l’aria rarefatta, il buio denso e doloroso, la luce accecante, la solitudine indescrivibile, l’assenza disperante, l’attesa sacra, la nostalgia dolce e lo sguardo infinito».[1]


[1] A.Ricci, Manuale Inapplicabile, Periagogè edizioni, pg.116.