Il concetto di conoscenza

di Antonio Ricci

Disciplina

Se parti a ricercar la libertà, allora impara innanzi tutto la disciplina dei sensi e dell’anima tua, affinché le brame e le tue membra non ti conducano ora qui ora là. Casti siano il tuo spirito e il corpo tuo; a te stesso pienamente sottomessi ed ubbidienti, nel cercar la meta che per loro è posta. Nessuno apprende il mistero della libertà se non da disciplina.

Azione

Non il qualsivoglia, ma il giusto fare e osare, non ondeggiare nelle possibilità, ma afferrare il reale audacemente non nella fuga dei pensieri, solo nell’azione è la libertà. L’angosciato titubare lascia fuori ed entra alla tempesta degli eventi sostenuto solo dal comando di Dio e dalla tua fede, e la libertà accoglierà il tuo spirito festante.

Dietrich Bonhoeffer  – Stazioni sulla via della libertà

 

Esperienza e conoscenza trovano nell’azione e nella riflessione le loro naturali espressioni in un costante processo d’integrazione. Integrare non vuol dire sommare acriticamente elementi incompatibili tra di loro, ma ricercare delle nuove forme che abbiano qualità diverse dalle sorgenti di provenienza, qualità che però possono emergere solo se stabiliamo dei nuovi e sensati nessi tra questi elementi, producendo quindi nuovi significati.

Rispetto ai processi d’interiorizzazione della conoscenza, ci sono due domande sulle quali s’impernia la ricerca educativa e pedagogica:

  • come accedere alla conoscenza e renderla effettivamente utile e disponibile alla persona?
  • Quali sono gli strumenti più adatti per accedere a tale conoscenza?

Per rispondere è necessario quindi soffermarsi, nelle sue linee più generali, sul significato da noi dato alla parola conoscenza.

Secondo l’approccio fenomenologico un oggetto che entra nel nostro campo di coscienza è conosciuto quando, dopo essere stato colto sensorialmente nelle sue manifestazioni più evidenti, dopo che abbiamo operato distinzioni e differenze e dopo che è stato catalogato e nominato, esso viene riconosciuto nel suo valore, compreso nella sua bellezza e colto nella sua verità. Se ciò accade, l’oggetto stabilirà un rapporto di stretta correlazione con la coscienza che lo sta osservando: tra chi conosce e ciò che viene conosciuto si stabilisce, in tal modo, un legame che potrà assumere valori oltre che sensoriali e cognitivi anche relazionali ed etici. Nell’atto responsabile di definire me stesso in rapporto al convincimento che vivo, nato dall’azione conoscitiva che ho intrapreso, si costituisce verità. Una verità che sorge dall’incontro con l’oggetto, non in quanto concezione in sé univoca di qualcosa di esistente, ma come autentica realizzazione di me stesso, a patto però che io mi impegni in modo effettivo. Si può quindi affermare, parafrasando Kierkegaard, che la verità non la si conosce, la si “è”.

Alla luce di questa prima precisazione, possiamo ora a definire i diversi gradi di conoscenza realizzabili e il rapporto tra chi conosce e ciò che è conosciuto.

Esistono degli ordini gerarchici tra gli oggetti, dall’inanimato all’animato, dal mondo della materia a quello delle idee, fino alle realtà più astratte. Nello stesso modo sussistono ordini gerarchici anche nell’ambito del risultato della conoscenza: posso conoscere solo in relazione allo sviluppo del mio essere. Il piano della mia coscienza, lo stato vitale nel quale mi trovo, può cogliere solamente oggetti posti allo stesso grado o di grado minore, ma non ciò che sta in una sfera oltre la mia portata. Ciò può essere più comprensibile se guardiamo alla realtà psichica di un bambino di tre mesi. Pur essendo egli immerso in una vastissima complessità, il rapporto che va ad instaurare con gli oggetti che lo circondano, cose o persone che siano, sarà commisurato al suo livello di coscienza. Ma in virtù di quel primo rapportarsi, anche se incompleto e frammentario, il bambino, che sarà attratto solo da alcuni oggetti e totalmente indifferente ad altri, costituirà la sua identità. Man mano che il piano del suo essere si amplierà appariranno alla luce della sua coscienza cose, persone, idee, sentimenti e stati prima per lui inafferrabili e quindi, in tal senso per lui inesistenti.

Ciò fa comprendere l’inutilità (e per alcuni casi la pericolosità) insita nel proporre conoscenze sproporzionate rispetto al livello di coscienza di colui che deve conoscere, e l’obbligo quindi di occuparsi della formazione necessaria perché egli possa realmente conoscere, fornendo contesti e esperienze adatte a questo scopo. Questo è il motivo per cui è importante occuparsi contemporaneamente del piano dell’essere, cioè della struttura vivente che accoglie ed elabora, e quello del sapere, i contenuti di conoscenza con i quali posso stabilire un rapporto con il mondo. Gli strumenti quindi non veicolano conoscenza in sé ma preparano l’essere ad accogliere piani diversi di conoscenza. Rideremmo bonariamente se un contadino attribuisse alla zappa e all’atto stesso di zappare il potere di far crescere il seme; bonariamente perché tale credenza in un certo senso è vera, anche se ingenua: senza la buca e la terra smossa il seme avrebbe meno probabilità di crescere. Ma saremmo molto preoccupati il giorno in cui questo contadino dichiarerà sufficiente zappare e fare buche per creare semi. Spostando la metafora al problema degli strumenti e della conoscenza, possiamo ridere di un’interpretazione ingenua di un processo vitale, ma che tutto sommato non lo influenza negativamente, (alcune tribù di nativi americani credevano che non si fossero alzati ogni mattina per pregare, il sole non sarebbe sorto), ma dobbiamo cominciare a preoccuparci quando tale interpretazione, tagliata via dal contesto in cui nasce, perverte lo strumento con i suoi fini, distorce l’interpretazione delle catene causali e vuole elevarsi a metodo. Diventa una pericolosa ideologia e le testimonianze di questo pericolo sono sotto i nostri occhi ogni giorno.

In conclusione si può affermare che retta conoscenza e retta formazione sono indissolubili: conosco realmente e completamente solo nella misura in cui sono. Né le cose, né gli uomini sono uguali, sussistono profonde distinzioni di qualità e di rango e l’oggetto, con tutte le qualità di cui è portatore, si palesa solo a colui il quale è destinato, per tutti gli altri esso rimane escluso.

Nella relazione e nella valutazione della realtà operiamo sempre attraverso un’epistemologia, cioè una maniera soggettiva di sapere e di sapere come si sa, che può essere più o meno cosciente. Tale premessa concettuale, astratta e simbolica, struttura la realtà con la quale ci troviamo a confronto nell’impossibilità di eluderci quali elementi che nel mentre osservano, conoscono e vogliono cambiare qualcosa, influenzano la realtà osservata e ne sono influenzati. L’epistemologia quindi si occupa delle regole di funzionamento che presiedono la conoscenza del mondo, di se stessi e degli altri, cioè in che modo gli organismi conoscono, pensano, decidono, come vanno a strutturare le loro conoscenze e che uso fanno della loro esperienza sensoriale. Se vogliamo realmente cambiare qualcosa nella nostra esistenza, dobbiamo quindi  rivisitare il fondo del nostro pensare, si tratta di un salto epistemologico, si tratta di periagoghé.  Essa è un movimento interiore completo, dove lo sguardo viene spostato dai soliti oggetti e dall’abituale prospettiva valutativa, verso nuove distinzioni, differenze e confronti, verso nuove versioni della realtà e dei suoi livelli, verso nuovi modi di valutare il reale attraverso schemi di riferimento alternativi e flessibili, attraverso il recupero dell’esperienza sensoriale e dei livelli gerarchici d’astrazione, con l’ausilio di nuovi linguaggi e di sistemi simbolici adeguati.

Insomma un universo complesso nel quale le differenti galassie umane possono apportare continui contributi alla dialettica della conoscenza, elevando il livello del combattimento relazionale dal tentativo duale e simmetrico di far prevalere la propria versione della realtà su quella dell’altro – io oppure te –, al tentativo di generare un terzo elemento: lo spazio condiviso nell’evento dialogico – io, tu, noi. In quest’ultimo caso vedremo interagire un io e un tu differenziati che s’incontrano, senza né dovere né voler rinunciare ad alcuna dimensione dell’essere, nel tentativo di far emergere una nuova qualità coesiva e cognitiva: la relazione nel noi.

Solo se ciò accade possiamo parlare di buon combattimento.