Cambiamento e speranza

di Antonio Ricci

Quale rapporto esiste tra la speranza e il cambiamento?

Per qualcuno la speranza è pura illusione, segno di un ingenuo superamento della contraddizione tra ragione e fede, ultimo appiglio prima della disperazione, di fronte all’impotenza che emerge nell’evidenza dell’immutabilità della realtà. Per qualcun altro essa è invece ciò che coniuga la razionalità, l’intuizione e la fede, una forza che emerge dalla disperazione, non prima di essa ma conseguentemente ad essa, che apre varchi e colma di senso l’azione, anche la più folle e perdente. Ma ognuno sa che la speranza è attesa fiduciosa in qualcosa da cui si pensa deriverà bene, gioia e piacere, è un’apertura verso l’ignoto. Che essa sfoci nella fede o che sia solo fiducia nel futuro, rimane una forza chiara e insopprimibile dell’esistenza, alla base di ogni principio edificante. Ma le due posizioni non sono in contraddizione, c’è del vero in entrambe.

L’illusione è sempre in agguato, la negazione impedisce l’accettazione della realtà, il diniego opera come una falsa speranza abbassando, ma solo momentaneamente, il livello della sofferenza, impedendo così ogni ricerca di soluzione, perché nega il problema. Tutti vogliono una speranza senza illusione, ma chi può tracciare il limite tra ciò che è certo e ciò che è solo probabile? Si resta soli nel decidere quando è tempo di arrendersi e quando di combattere.

Ricerca di cambiamento, accettazione del problema e sofferenza sono strettamente legati, è un punto di partenza reale, anche se ancora non basta. Ogni giorno, alzandoci dal letto, ci appelliamo silenziosamente alla speranza: c’è chi la rinnova, chi la cerca ancora pur non vedendola, e chi da tempo non ci riesce più.

Ogni volta che siamo di fronte ad una persona, incontriamo la sua speranza: se proviamo a comprendere dove essa sia riposta, forse possiamo anche capire quale atteggiamento tale persona abbia verso se stessa, gli altri e il mondo. Ogni volta che siamo di fronte ad una persona, incontriamo anche la nostra speranza: essa è uno sguardo, una parola e un gesto; è tre cose nel nostro corpo che colmano o divaricano una distanza, che conferiscono senso al nostro sentire, pensare e agire o ne decretano l’angosciante inutilità.

Eppure parliamo spesso e troppo di altro, a cavallo tra paura e onestà, tra senso di realtà e bisogno di contatto, tra falsità e giochi di potere. Non coltiviamo la speranza per paura di illuderci e illudere, farci del male e fare del male, ma in questo eccesso di cautela essa muore, si dissecca fino alle radici, e la vita stessa non si rinnova più. Ci giustifichiamo parlando di realismo, affermando la necessità di stare con i piedi per terra. Ma la mancanza di speranza equivale unicamente a disperazione e cinismo, e non segnala alcun realismo quanto piuttosto la sua totale assenza.

Il realismo è proprio dell’uomo intero che tenta di coniugare il concreto con l’astratto, ciò che sta nel quotidiano esistere, nella fedeltà al mondo con tutte le sue aporie e contraddizioni, e l’ampiezza del mistero della vita stessa. Il realismo di un uomo e una donna interi sta nel tentativo di tenere insieme ciò che conferisce fedeltà a questa terra, cioè il conosciuto, il prevedibile, il senso del profano, la malattia, il godimento e la morte con ciò che sta nello slancio verso l’alto, verso l’inconoscibile che ritroviamo nella bellezza senza scopo, nel senso del sacro, nell’arte, in Dio, nell’amore e, ancora una volta, nella morte.

Scindiamo il sacro dal profano per semplificare ma non sappiamo davvero perché, continuiamo a farlo anche di fronte all’evidenza dei danni e della sofferenza che ciò genera. Giochiamo alle persone adulte, illusi che per esserlo si debba fingere, o peggio ancora essere convinti, di sapere sempre dove risieda la verità, spaccandola in due, tre, mille parti.

Da questa contrapposizione quali pensieri possono quindi scaturire? Se si divide l’umanità in due parti ecco che inevitabilmente avremo da una parte i puri, gli spirituali, gli intuitivi e dall’altra i concreti, i realisti, gli scientifici. Facile immaginare i discorsi. È più importante il cuore o la mente? L’ano è impuro e gli occhi sono lo specchio dell’anima? Sono più utili i sensi, i fatti, le parole o i pensieri? L’amore e la depressione sono solo una questione di chimica? La sessualità è una manifestazione poco evoluta, ostacolo da reprimere? Quando odio sono sbagliato e quando amo sono giusto? Mangio per stare fisicamente in salute o mangio per avvicinarmi a Dio? Medicina omeopatica, antroposofica o allopatica? E così via all’infinito. Puri contro impuri. Concreti contro fluttuanti. Fedeli contro infedeli. Illusi contro realisti. Cristiani contro Islamici. Spirituali contro materialisti. Scienza contro fantasia. Goduriosi contro ascetici. Peccatori contro innocenti. Evoluzionisti contro creazionisti. Sani contro malati. Buoni contro cattivi. Furbi contro scemi.

Non ci fidiamo del prossimo e ne abbiamo paura. Non ci fidiamo di noi stessi e ne abbiamo paura.

Senza speranza non ci sarebbe alcun cambiamento. Eppure sappiamo tutti che la speranza è ciò che ci rende veramente umani. La vita degli animali è perfetta e senza colpa perché sta al di fuori di ogni scelta di coscienza; non essendoci alcuna possibilità di deviazione e imbroglio, ogni cosa si compie nella perfezione della natura, ogni essere è docilmente assoggettato alle sue leggi nella fedeltà al suo comando. Nella vita naturale non c’è mai errore. C’è una bellezza tremenda nella natura e noi ne siamo parte: siamo vincolati alle sue leggi ma a differenza degli animali possiamo tentare di trascenderle, trasgredirle, superarle, deviarle. Siamo dotati di coscienza e quindi capaci di riflettere sulla nostra condizione, capaci di scegliere e di assumere una diretta responsabilità sulle nostre azioni e sulle loro conseguenze. Possiamo attivare comportamenti la cui conseguenza può andare infinitamente verso il male o infinitamente verso il bene, senza che ciò possa essere contrastato o predeterminato a livello biologico.

Quale bene e quale male?

Se manca questa domanda che vita si conduce? Se questa domanda viene evitata non si decide mai alcunché realmente, piuttosto si viene decisi, e ci si lascia decidere, dalle forze del momento. Si diventa una persona senza responsabilità, pronta ad aderire al mucchio violento dei molti o a stare nel silenzio lamentoso e vigliacco dell’uno. Tutto si sposta verso la soddisfazione della pulsione del momento, diventiamo in tal modo “naturali”, senza avere però l’innocenza degli animali. Perdiamo infine la nostra unica possibilità di autodeterminarci, perdiamo la coscienza, quindi la nostra umanità. Tutto si sposta verso la soddisfazione dei bisogni di un io frantumato sempre più narcisista o psicotico, un io inconsistente, solipsistico, cieco e disperato che nega l’altro, e ne ha quindi paura. Eliminare la domanda equivale ad inabissare la coscienza e con essa lo sguardo sulle conseguenze del nostro agire e sulla sofferenza provata dagli altri o ad essi inflitta.

Possiamo essere ciò che vogliamo e decidere del nostro destino. Abbiamo un’immensa libertà che però va compresa, cercata e accolta. Siamo soggetti alla hýbris[1] o alla dissoluzione distruttiva più angosciante, così come siamo chiamati a realizzarci come esseri umani nella pienezza della nostra coscienza.

La meta – afferma Ebner – è non separare più la spiritualità e l’umanità nell’esistenza umana. [2]

Credo che si debba continuare a cercare, continuare ad aprire domande senza paura, e senza accettare risposte troppo facili o preconfezionate, solo perché acquietano la nostra coscienza.

Credo sia diritto di tutti continuare a chiedersi in cosa sia ancora lecito sperare, combattere per questo e cercare quindi tutti gli aiuti possibili affinché l’umanità che è in ognuno di noi si possa realizzare in pienezza.

 

[1] La hýbris, letteralmente “tracotanza”, “eccesso”, “superbia”, “orgoglio” o “prevaricazione”, è il voler essere come gli dei e più di loro. Nella tragedia greca è una “colpa” dovuta a un’azione che vìola leggi divine immutabili, dalla quale derivano future disgrazie.

[2] F. Ebner, La parola è la via, Editore Anicia, p. 187.