“L’uomo è un corpo allo stesso titolo che uno spirito: tutto intero corpo, tutto intero spirito. Non vi è sfumatura dello spirito che non apra un varco ad un gesto del corpo, né movimento che non disegni nello spazio un gesto dello spirito”. E. Mounier
Così come dichiarato in chiusura del mio precedente articolo, “Del dolore, dell’amore e dell’esperienza”, dopo aver esposto i principi che sostengono il nostro lavoro educativo, mi accingo ora ed analizzare gli strumenti che utilizziamo a tale scopo nella nostra scuola: la corporeità, l’atto riflessivo e l’esperienza.
Nelle gambe sono convinto esista una memoria profonda che attende di emergere, ma perché accada c’è bisogno di molta energia, bisogna muoversi per liberarla. È necessaria un’energia speciale per accedere a ricordi molto antichi, o per portare a compimento proprie riflessioni; c’è bisogno di una forza semplice che non rinneghi il sudore, anzi se ne serva. Solo così può emergere un vigore giusto, frutto paradossale di quella stanchezza che consuma gli eccessi. Quando il corpo è in equilibrio la mente funziona meglio, come se, finalmente svincolata dall’obbligo di gestire la sopravvivenza, potesse occuparsi di molte cose davvero umane ma spesso tralasciate: dell’inutilità e delle necessità improduttive; della fantasia e del sogno; dell’anelito all’Assoluto e della contraddizione; del sacro e del profano; della bellezza e dell’inquietudine; del profondo abissale, del fatuo e dell’inafferrabile; della libertà di pensiero e di coscienza.
Sono territori della coscienza, spesso inesplorati. Per farlo serve ardore.
La corsa e il camminare molto a lungo, sono sempre state parte della mia disciplina personale, assieme alla pratica delle arti da combattimento ed alla meditazione. Amo ognuna di queste discipline per naturale predisposizione e per i motivi sopra descritti. Traggo vantaggio dal sudore per il mio riflettere, e spesso, nel mentre agisco, sono attraversato da pensieri altrimenti a me inaccessibili. Quando accade lascio che si mescolino, si confondano, si prendano tutto lo spazio, affinché possano stagliarsi netti sul fondo incolore della mia coscienza. Attento a non dare loro un’immediata ragione, né a creare nessi forzati, mi affido alla certezza che ogni cosa prima o poi si chiarirà, a patto che mi renda disponibile ad accogliere ciò che c’è.
Tento da tempo di non oppormi per paura o pigrizia, a forze più grandi che mi trascinano, belle o brutte che siano: è un’attitudine di cedevolezza che può nascere solo per disciplina. Fine ultimo è riuscire ancora a pensare per continuare a scegliere da persona libera; per riuscire ad imprimere la propria direzione di vita sia cedendo, sia contrastando; per catturare e trasformare la forza che ci viene incontro, senza farci travolgere da essa: può dare buoni frutti o molti fallimenti, ma come minimo bisogna accettare la possibilità di cadere ed imparare a farlo senza danneggiarsi.
Per essere dei bravi combattenti bisogna prima diventare degli ottimi cascatori.
Cedere, cioè tentare d’includere tali forze, significa seguirne la corrente nuotandoci dentro, imprimendo però, con lucidità e presenza, la direzione che si preferisce con piccoli e misurati movimenti, cercando anche le tracce meno evidenti, i segnali minimi. È una questione di presenza, di attenzione ordinaria e straordinaria.
Perciò bisogna addestrarsi a tollerare la frustrazione di non controllare, di non capire e di non avere risposte nell’immediato, bisogna addestrarsi a contenere la paura di fallire, inibendo perciò la tentazione di “fare qualcosa, meglio che niente”: è uno spazio vuoto, incerto, a volte confuso, senza orizzonti risolutivi visibili. È uno stato d’ascolto vigile e d’accoglienza il cui “fare” sta proprio nell’attesa e nell’accettazione che un processo creativo è ancora in corso, fuori dal proprio controllo. Uno varco prima o poi si aprirà perciò bisogna essere pronti a riconoscerlo e ad entrarci prima che si chiuda. È una condizione che obbliga a valutare ciò che accade nel mentre accade e, al contempo, a non perdere la propria direzione d’azione: intenzioni immediate e prospettive future.
In tal senso ciò che ci troviamo a fare nell’immediato può prendere senso solo nella proiezione futura, in quanto attesa presente di ciò che sarà, e nella memoria di ciò che è già stato, in quanto rievocazione al presente del passato, cioè apprendimento. Tre dimensioni del tempo che possono coniugarsi nella nostra mente solo al presente: presente del passato, presente del presente e presente del futuro. Dimensioni che Agostino D’Ippona considera estensioni dell’anima e manifestazioni tangibili della sua opera. Quest’unificazione dell’esperienza nel presente, nella triplice accezione agostiniana, è meditazione, condizione che è possibile sperimentare anche in un “buon combattimento” dove la posta in palio è l’incontro, cioè presenza a sé e all’altro. Vince chi include. Ma è capace d’includere solo chi non fugge dal tempo presente e sa riconoscere i confini dello spazio che occupa, disponibile quindi ad accogliere quello che c’è nel mentre accade, prima ancora di accingersi a trasformarlo in altro o ad accettarlo definitivamente per come è.
Corporeità intesa quindi, come condizione dell’esistere nel rapporto con il mondo e veicolo unico d’esperienza che però può rimanere silenziosa, senza alcuna ricaduta perciò sulla conoscenza. Fare esperienza è la condizione primaria e necessaria per ogni conoscenza, ma non è un fattore sufficiente.
In che rapporto stanno quindi la corporeità e l’esperienza? Cosa le unifica?
Durante la pratica della corsa osservo il movimento di chi fa altrettanto. Sono attratto dal passo e dai diversi modi delle persone di ritrovare l’equilibrio nel correre, da come il corpo intero partecipa all’azione. Osservo e imparo: alcuni, pochissimi, hanno un’andatura armonica, bella a vedersi, fluida, quasi senza sforzo apparente, sicuramente frutto di uno studio attento e di un allenamento non casuale: corrono ricercando la corsa; altri, la maggioranza, accelerano semplicemente il loro passo abituale e qualcosa di significativo accade. Baricentri improbabili dati da posture abitudinarie, assieme a contrazioni e rigidità fisiche oramai cristallizzate in automatismi motori inconsapevoli, obbligano, per non cadere, a movimenti inutili, eccessivi e sgraziati: il risultato è un’enorme fatica per tornare sempre al solito precario punto d’inizio. Nulla cambia. I corpi intenti in quest’azione apparentemente facile, lasciano però emergere qualcosa altrimenti meno evidente quando sono in riposo, soprattutto a loro stessi: spalle appese al cielo o ricurve in basso; diaframmi bloccati in apnea; teste reclinate troppo indietro o troppo in avanti; braccia rigide, fuori sincronia o in un movimento eccessivo e artificiale; mani contratte o assenti; bacini forzati in rotazioni inutili; piedi lanciati a caso, poggiati appena o sbattuti a terra, in angolature dolorose e inefficaci. Tutto ciò conferisce alle andature qualcosa di buffo e insolito: alcune hanno un aspetto dinoccolato come marionette ciondolanti prive di compattezza; altre sembrano sofferenti, trascinate o estremamente meccaniche per la rigidità. Il più delle volte sembra di assistere non ad una vera corsa ma ad una sua rappresentazione caricaturale.
Quei corpi e quei movimenti appaiono ben più eloquenti di ogni discorso che ognuno avrebbe potuto fare su se stesso, rivelano qualcosa sulla natura profonda della persona. Se solo potessero vedersi per un istante. Questa evidenza commuove per la solitudine silenziosa che mostra, per la nudità vulnerabile di ogni persona di fronte a se stessa e, al contempo, può provocare un senso di fastidio per l’inconsapevolezza che lascia trasparire. Per esperienza, in un processo d’apprendimento corporeo, so che non è mai sufficiente dire al proprio allievo cosa deve o non deve fare, obbligandolo a sostituire un movimento “sbagliato” con un altro più “giusto”, bisogna piuttosto generare le condizioni d’allenamento perché possa tornare ad apprendere e costruire così un nuovo automatismo consapevole, pronto a sostituire il vecchio in quanto più funzionale. In campo educativo non importa quanta abilità si mostra in partenza, né tantomeno esistono modelli motori ideali ai quali mirare, ciò che importa è il processo necessario per passare da una condizione all’altra per ciò che si è. Possono passare molti anni prima che il corpo si risvegli e possa tornare ad apprendere, serve un lungo ed importante processo attento ai tempi e ai modi della singola persona, che riconduca la corporeità e l’esperienza al servizio della coscienza. Ma che fretta c’è?
L’obiettivo è l’interezza, e per questo non basta una vita, l’obiettivo è la costruzione di un più ampio margine di libertà sia interiore, sia d’azione, non l’adesione acritica ad un modello esterno “migliore”, che sia motorio o ideologico. Non un nuovo pensiero, direbbero i dialogisti, ma un nuovo pensare. Non un nuova azione ma un nuovo agire.
Torniamo ad analizzare la corsa. In questa semplice azione, alcuni corpi appaiono imprigionati dentro un’idea di sé mai verificata né realizzata. Sono corpi da mostrare o da nascondere, prima ancora che da usare nella loro massima potenzialità per costruire ciò che si vuole; veicoli inconsapevoli di desideri, emozioni, sentimenti; strumenti di godimento o portatori di dolore e sofferenza; muli sfruttati e maltrattati, resi ottusi ed arrabbiati da anni di non ascolto; corpi sconosciuti e disobbedienti, che a sorpresa possono smettere di funzionare, ben oltre ogni accortezza, ben prima di ogni volontà e certezza di continuità. Corpi nei quali inevitabilmente si va imprimendo una forma che replica, in modo misterioso e coerente, il rapporto che ognuno di essi ha con il mondo. Forma che è anche azione e movimento.
Questo siamo e così plasmiamo il nostro corpo, di pari passo alla nostra coscienza. Ciò che il corpo diventa e manifesta è ciò che noi siamo e stiamo divenendo, fatto che può essere o non essere consapevole. Questo diventa il nostro corpo: una notizia da dare a tutti ma non a tutti evidente, che svela il nostro modo di essere nel mondo; un fascio di convinzioni da ribadire rispetto a noi e a ciò che vogliamo dagli altri. Un discorso corporeo incessante, che può essere molto lontano dalle nostre parole e dai nostri pensieri consapevoli. La coscienza plasma il corpo, che a sua volta nutre la coscienza, coscienza e corpo sono compenetrati eppure distinti, l’una senza l’altro non ha possibilità di esistere. L’una influenza l’altro, nella reciprocità.
Cosa unifica quindi la corporeità e l’esperienza?
L’atto riflessivo che attinge conoscenza dall’esperienza, nella pienezza consapevole dell’azione corporea, intrisa di sensorialità, emozioni, sentimenti ed energia motoria.
Costruire consapevolezza attraverso l’atto riflessivo richiede una duplice attitudine: recettiva e penetrante.
Nella attitudine recettiva ci si dispone all’ascolto e all’osservazione, si raccoglie, si esplora per comprendere, si elimina il giudizio per tornare all’esperienza elementare, che è prima di tutto sensoriale, attenta ai fenomeni nella loro forza primaria di manifestazione; è una forma d’apprendimento che concede al mondo esterno d’imprimere un segno, di smuovere un equilibrio, d’intaccare una certezza prima ancora di ogni definizione. In tal senso richiede la creazione di uno spazio interiore, capiente e consistente, flessibile e vuoto, attraverso un processo che prevede una graduale semplificazione di molti processi, una semplicità essenziale che non corrisponde ad una banalizzazione superficiale della complessità, ma piuttosto ad un “togliere ciò che non serve”. Rinuncia e resa sono due forze con le quali è inevitabile quindi confrontarsi, così come la paura e la rabbia.
Nell’attitudine penetrante ci si dispone per essere attivi, sottili ed affilati, affinché si possa entrare anche in ambiti d’esperienza altrimenti inaccessibili. Si opera per andare incontro a ciò che accade, per dare un nome alle cose, una collocazione, un senso. Si creano nessi e significati e si agisce in conformità ai propri valori e interessi. È una forma d’apprendimento che vuole imprimere una forma al mondo, lasciare un segno, generare un cambiamento piuttosto che subirlo. Perciò richiede la creazione di una identità forte, stabile e riconoscibile, pronta ad accogliere il mutamento senza essere destabilizzata nei suoi equilibri fondanti, attenta a definire apertamente il campo delle proprie preferenze e delle proprie intolleranze, capace d’opporsi e d’aggredire così come di collaborare e costruire. L’attitudine penetrante definisce, conserva e protegge ciò che ha valore. In quest’ambito dell’esperienza il coraggio e solitudine sono le due condizioni con le quali è inevitabile confrontarsi.
Corporeità, atto riflessivo ed esperienza sono campi di relazione, e in quanto tali possono essere usati in ambito educativo e clinico per l’evoluzione consapevole della persona, all’interno di un rapporto qualificato ed intenzionato, dove lo scambio tra educatore e allievo, tra terapeuta e cliente, può svolgersi contemporaneamente attraverso tutti e tre gli ambiti, senza esclusione alcuna di uno di essi e in maniera non confusiva. Nella corporeità di chi educa o cura, sta la possibilità di contatto e incontro, nel suo atto riflessivo la comprensione e la definizione, nell’esperienza il suo costante apprendimento. Nella copresenza di questi tre elementi è possibile rendere significativo il tempo e lo spazio dell’incontro nel mentre accade, colmandolo reciprocamente di significati, nello scambio di diversi punti di vista e nel completamento reciproco di visioni del mondo. Ciò che importa è riconoscere l’assoluta libertà all’altro di fare ciò che vuole di ciò che gli viene dato.
Perciò il volere è un orizzonte sempre presente nel processo evolutivo, nel quale si giocano i termini ultimi della ricerca esistenziale: responsabilità e libertà.
Ho iniziato questa riflessione dichiarando che un corpo in equilibrio lascia la mente più libera di occuparsi di cose davvero umane spesso tralasciate, concludo dicendo che però bisogna volerlo, il che implica responsabilità. Parlare di libertà interiore è una responsabilità e ciò impegna. Nominare ciò che si staglia sull’orizzonte della propria ricerca impegna, perché obbliga ad agire in coerenza e ad uscire da un nascondimento, è un peso leggero però per chi vuole smettere di separare idea e vita e cerca perciò interezza e autenticità.
Sull’orizzonte più ampio della mia di ricerca ci sono quei territori della coscienza già elencati. Sono essi a conferire senso ad ogni mia azione personale e professionale, essi giustificano ogni disciplina abbracciata ed ogni programma evolutivo perseguito o proposto.
D’altronde come si potrebbe continuare a parlare attorno all’umano e all’educativo, se non ci fossero all’orizzonte tali prospettive? Per quali altri motivi dovremmo impegnarci a salire declivi a volte così faticosi e chiedere ad altri di fare altrettanto?
Una preghiera buddhista recita: “possano tutti gli uomini essere realizzati nella felicità e nella pace senza illusione”.
Di sicuro l’educativo non può né garantire, né promettere alcuna pace e felicità, in quanto condizioni che ogni singolo essere umano è chiamato a realizzare nella solitudine della propria esistenza. Ciò che può invece fare è occuparsi di dare una concreta risposta a quell’ultima piccola e importante affermazione: “senza illusione”.
Alla luce di quanto detto fin qui, credo che il suo senso profondo possa finalmente apparire chiaro a qualcuno e che la forza di tale intenzione guidi l’operato silenzioso di molte persone.
È sicuramente un orizzonte molto alto e lontano ma non per questo meno reale.
Read the english version “Bodiliness, reflection and experience”