Da diversi anni ormai vivo il problema di dare un nome al mestiere che faccio. Quando qualcuno me lo chiede vivo un momento di imbarazzo, tesa tra il desiderio di spiegare una professione che amo profondamente e il non essere leziosa. Se chi me lo chiede è una persona che conosco poco e se la domanda arriva in una di quelle situazioni dove a un certo punto qualcuno ti guarda e ti dice “…. e tu, di cosa ti occupi?” allora è relativamente facile. Taglio corto e rispondo “ho una piccola società di consulenza che si occupa di sviluppo delle risorse umane nelle organizzazioni”. Spesso chi ha fatto la domanda si accontenta e la cosa finisce li. Magari non ha capito granché, ma suona come una cosa che ha senso, così non chiede altro. La cosa cambia quando a porre la domanda invece è qualcuno a cui interessa davvero sapere in cosa consiste il mio lavoro o, ancora più difficile, quando la domanda me la pongo io. Come definire il lavoro che faccio? A cosa serve il lavoro che faccio? Cosa si propone di fare il lavoro che faccio? In questo caso la domanda cambia forma, acquista il valore di un approfondimento, di un chiarimento, di un’indagine che a sua volta apre altre domande.
Fino a qualche anno fa mi sentivo appagata nel pensare che NON mi occupavo di formazione. Con questa negazione, sono andata avanti per un po’ di tempo. Esordivo dicendo cosa NON fosse il mio lavoro. Non mi occupo di formazione, non propongo corsi a catalogo, non faccio corsi classici sulla leadership, sulla negoziazione, sulla comunicazione e così via con un lungo e nutrito elenco. Definire cosa non facessi in parte mi ha consentito di prendere una distanza da un mestiere, quello del formatore, che sentivo lontano da chi ero io, da cosa volevo fosse il mio lavoro e da quello che di fatto stava diventando. Consideravo la formazione un mestiere non appagante in quanto ripetitivo. Ho criticato per anni il nutrito gruppo di colleghi che sapevo arrivare in aula, nelle aziende, carichi di presentazioni e di tante certezze, pronti a “venderle” al miglior offerente.
Quando però ho deciso che era giunto il momento di togliere quel NON, evidentemente anch’esso troppo facile e scontato, allora la questione si è fatta più seria. Avevo e ho tuttora un’esperienza precisa di cosa sia il mio lavoro, in cosa è diverso dalla formazione e in quale direzione prosegue la mia ricerca e il mio impegno. Realizzo progetti di sviluppo all’interno di contesti organizzativi. Incontro ogni anno decine di persone con le quali lavoro in un’ottica di cambiamento e miglioramento. L’occasione per poter avviare un progetto nasce sempre da una domanda “vera”. Deve poter essere identificabile un bisogno reale di miglioramento da parte del cliente e questa necessità deve potersi incontrare con la nostra possibilità di dare una risposta consulenziale adatta. Niente progetti di “generica” utilità dunque.
Questa è per me la condizione necessaria per garantirmi una base di stabilità riguardo al senso del mio agire.
Così, posso lavorare con il direttore di un’unità di business che ritiene le modalità del suo gruppo non più attuali rispetto alle rinnovate esigenze dell’organizzazione e del mercato e avverte, quindi, la necessità di un cambiamento. Definisco con lui le caratteristiche del nuovo ruolo, fornisco una consulenza finalizzata ad ampliare la sua prima definizione e, a seguire, inizio il percorso di sviluppo in questa direzione per sostenere il cambiamento. Preferisco incontri distribuiti nel tempo, in grado di agevolare il gruppo e di affiancarlo attraverso appuntamenti periodici in un arco temporale che difficilmente è inferiore a sei mesi. Se il cliente ha in mente tempi brevi, con molta probabilità sta cercando un altro genere di consulenza. Lavoro integrando il piano della riflessione con quello del fare. Il setting che preferisco, spesso non ha struttura formale. Ampie sale, delle sedie da poter spostare, una lavagna su cui appuntare qualche parola chiave.
Qualche tempo fa avrei usato senza esitare la parola competenze, per definire quello che attraverso il mio lavoro veniva sviluppato. Sviluppo delle competenze, dunque. Questo è ancora vero anche se non più esaustivo.
Sempre di più incontro persone molto competenti nel loro lavoro che, oltre ad avere una grande esperienza, hanno partecipato ai più svariati percorsi di sviluppo e formazione. Ricordo ancora di essere rimasta incuriosita da un oggetto appoggiato a una parete di un ufficio. Si trattava di una barra di ferro a sezione circolare del diametro di mezzo centimetro, lunga un paio di metri curvata come un grande arco. Mi sono avvicinata per capire cosa fosse e il proprietario di quell’ufficio mi dice: “E’ il ricordo di un corso di formazione, l’abbiamo curvata io e un collega spingendo dalla gola, attraverso la nostra forza di volontà”. Che dire? Del resto chi fa il mio mestiere ha dovuto più volte rispondere a domande del tipo “mica ci farete camminare sui carboni ardenti anche voi”?, quando dicevamo che ci occupavamo di motivazione.
Quali sono, dunque, le competenze che riguardano la mia professione e sulle quali, dal mio punto di vista e secondo la mia esperienza, c’è bisogno di consulenza qualificata in grado di dare risposte? La prima, e secondo me è anche la più importante, è la capacità delle persone di non smarrire il senso del proprio lavoro e del proprio agire. Mi capita sempre più spesso di aiutare persone e gruppi a interrogarsi in modo autentico su questo aspetto. Avere un buon radicamento sul senso del proprio lavoro, qualsiasi esso sia, penso sia un’importante base di partenza. La domanda va rivolta alla persona che c’è dietro a quel ruolo chiamando contemporaneamente in causa l’aspetto della responsabilità e quello della potenzialità. A volte qualcuno fa il suo tentativo di evitamento dicendo che il senso del proprio lavoro equivale al mutuo che deve pagare, ma se resistiamo alla tentazione di rispondere a questa facile provocazione e abbiamo la pazienza di attendere, possiamo vedere accadere tante cose. Possiamo sostenere la persona nel riconoscimento dei suoi automatismi e nel tentativo vero di superarli attraverso una qualità di riflessione, di presenza e di azione più qualificate.
Questo aspetto è strettamente connesso con la possibilità di dotarsi di una maggiore consistenza emotiva in grado di rafforzarne in modo più stabile e duraturo l’efficacia e la motivazione. Questa competenza è riferibile alla possibilità di riuscire a far convivere al proprio interno degli elementi opposti e contraddittori, sostenendo l’incertezza e rinunciando alla tentazione di eliminarne uno per ritrovare un’apparente pace, per scoprire subito dopo di aver così rinunciato alla possibilità di rimanere in contatto con il proprio potenziale creativo e generativo. Il desiderio di semplificare non deve coincidere con la possibilità di rinunciare alla complessità che una presenza qualificata presuppone. Semplice non equivale a semplicistico. Complesso non equivale a complicato.
Proprio in questi giorni, ad esempio, ho avuto modo di lavorare con una bravissima manager in difficoltà nella gestione del piano emotivo. Questa difficoltà la mette spesso in condizione di portarsi sul piano dei contenuti anche quando nella relazione sarebbe semplicemente necessario ‘stare’ e non ‘fare’. La sua efficacia come professionista risente di questa tendenza a disorientarsi e a non cogliere a volte con la necessaria rapidità il livello adatto attraverso il quale connettersi a se stessa e incontrare l’altro. Si tratta quindi di coltivare la capacità di essere presenti e svegli, laddove spesso il livello di rumore ci induce paradossalmente al sonno. Nei contesti organizzativi si produce molto rumore, attraverso complicazioni. Questo può portare come conseguenza, al di là di una apparente o anche reale frenesia, a uno stato di sonnolenza generale, stanchezza professionale, distacco emotivo e motivazionale. Prospettare dunque questo risveglio, ragionando e sperimentando in modo non convenzionale su responsabilità e scelta. Portare a riflettere e a toccare con mano quanto il piano dell’efficacia personale, che spesso corrisponde all’essere ‘bravi’ non sia sufficiente a garantire e garantirsi soddisfazione ed efficacia. Qualificare la propria presenza per aspirare a una migliore qualità della relazione in connessione con il contesto nel quale lavoriamo. Tre livelli di attenzione dunque, strettamente connessi l’uno con l’altro, attraverso i quali sviluppare valore.
Tutto questo implica per noi consulenti la necessità a coinvolgerci, a porci con serietà il problema del nostro sviluppo, a non accontentarci di soluzioni confezionate e scorciatoie. Significa sperimentare e saper stare in contatto con un sentimento di fallibilità, senza tuttavia coltivare l’idea del fallimento. Per quanto mi riguarda significa assumere un atteggiamento misurato e al tempo stesso generoso, serio e non serioso, speranzoso e non gratuitamente ottimista. Vuol dire mantenersi in una condizione di ricerca permanente, aperti e disponibili al confronto, avendo scelto una strada per certi versi ardua, sapendo che è l’unica possibile.
Recentemente ho voluto conoscere una collega di cui avevo sentito parlare. Mi interessava incontrarla per prospettarle una attività da svolgere insieme. Spesso cerco chi, come lei, avendo esperienza di formazione organizzativa, abbia poi fatto una scelta diversa dedicandosi alla psicoterapia o comunque allo sviluppo delle persone. Mi interessano queste professionalità perché spesso riesco a scambiarci pareri e idee sulla possibilità di integrare gli approcci.
In un mio precedente intervento su questo blog, chiudevo auspicando che la profondità di analisi, propria degli ambiti psicoterapeutici e la praticità del metodo, tipica della consulenza organizzativa, potessero incontrarsi in un approccio consulenziale in grado di dare risposte alla crescente complessità di cui siamo testimoni. La mia ricerca in questo senso è più che mai aperta e su questo avrei molto piacere a incontrare altri compagni di viaggio, oltre a quelli con cui i discorsi sono già da tempo avviati.
Per quanto posso cogliere dalla mia prospettiva e visuale, il momento storico che stiamo vivendo necessita di essere attrezzati sul piano della comprensione a più livelli. Le competenze di cui ho tentato una descrizione sono più che mai necessarie alle organizzazioni così come alle persone che al loro interno lavorano. Sapersi orientare nella complessità, saper discernere, saper assumere una posizione corretta e consapevole, consente di affrontare la grande mutevolezza esterna con una maggiore stabilità interna.
Questa collega mi rivolgeva domande legittime. Come promuovi il tuo lavoro? Chi sono i tuoi clienti? Da diverso tempo lavoro con un ampio e consolidato numero di aziende e organizzazioni. Ogni anno se ne aggiunge qualcuna senza che io faccia mai una promozione ‘tradizionale’ sulle mie attività. In effetti non saprei come collocare la mia ‘offerta’. Mi hanno colpito in questo senso le parole di una mia cliente conosciuta direi alquanto casualmente, che mi ha detto: “Non avrei saputo dove cercare una professionalità come quella che proponi e finché non ci siamo trovate a parlarne non mi era affatto chiaro come poter affrontare con il mio gruppo di lavoro (25 persone di una grande azienda ospedaliera di Milano) i problemi su cui oggi stiamo lavorando. Solo adesso mi è chiaro che era esattamente quello di cui avevamo bisogno”.
Anche i bisogni dunque pur essendo reali non sempre hanno un nome preciso, così come il mestiere che faccio.
(*) Sociologa, formatrice e counselor. Titolare della Società Open Sky Formazione. E’ membro dell’equipe del Centro Studi Educativi e Pedagogici Periagogè, dove opera nel settore Formazione.