Puoi amarmi? Posso amarti?

di Antonio Ricci

“Quasi a nessuno è stata risparmiata l’esperienza del tradimento […].  L’aria in cui viviamo e tanto inquinata dalla diffidenza che ne siamo quasi soffocati. Ma dove ci siamo aperti un varco nella cortina di diffidenza, lì ci è stato possibile fare l’esperienza di una possibilità a fidarsi di cui fin’ora neppure sospettavamo. Quando accordiamo la nostra fiducia sappiamo, abbiamo imparato a mettere la nostra vita nelle mani degli altri “. 
 
D. Bonhoeffer – Resistenza e resa

Che all’interno di alcuni dei nostri rapporti più importanti, si possa convivere con il duplice sentimento d’intimità e di minaccia, senza fuggire nell’autosufficienza o subendo il peso dell’altro, credo sia già di per sé un’esperienza significativa. Ciò che invece è più difficile da cogliere è lo stretto rapporto tra i due sentimenti: il fatto che l’uno porti inevitabilmente all’altro, senza poter eliminare del tutto quello sgradevole senso di minaccia. Sperimentare la loro coesistenza non credo sia un errore, né un fatto attribuibile al nostro carattere ancora grezzo, quanto piuttosto una irresolubile realtà propria della condizione di vivere. 

Essere nelle mani dell’altro vuol dire anche perdere qualcosa di sé; sappiamo che quel caldo abbraccio può diventare anche una stretta mortale soffocante e che, al contempo, senza quell’abbraccio la nostra solitudine diverrebbe insopportabile. La sessualità, la protezione dovuta e attesa, la solerzia dell’accudimento rispondono a bisogni primari che possono essere soddisfatti solo dall’altro, che nella reciprocità siamo anche noi. Il piacere di perdersi e affidarsi, il divenire un noi nell’incontro con l’altro, nella momentanea eliminazione di separazione e controllo dell’io, si associano a paure più profonde come quella di perderci e di essere in mani rozze e violente; alla paura della confusione di tutti i sentimenti, nella rottura irreparabile del confine tra me e l’altro. Il terrore di essere sfruttati, di soffrire e di morire si abbevera alla irrecusabile certezza di essere vulnerabili e alla necessità di dare e ricevere reciproco aiuto. 

L’intimità è minacciosa e salvifica, la solitudine è minacciosa e salvifica. La vita che ci riguarda comprende entrambe. Parlo della vita che sperimentiamo ogni giorno tra le piccole miserie del non senso quotidiano privo di piacere, della spesa da fare, della lavatrice rotta, di un amore perduto e poi ritrovato. 

Parlo della vita che fatichiamo ad accettare, quella del lavoro opprimente, della fila alla posta, del sopruso di giornate inutili senza amore, immersi nella folla anonima e indifferente. 

Parlo del dolore di un padre morto, di una madre sola e infelice, di una sorella pazza o di un fratello distante; dell’angoscia dei soldi che non bastano mai, della disperazione per la morte di un amico. 

Parlo della fantasia di una salvezza improbabile, della grazia di un silenzioso sguardo d’amore, della bellezza dentro un tramonto, in una carezza leggera o nella risata di un bambino. 

Chi siamo noi per decidere come gli altri ci debbano amare o odiare? Ma sappiamo davvero cosa sia questo essere voluti bene

In fondo quante bugie ci diciamo per nascondere l’aridità dei nostri sguardi, sempre più spenti e sospettosi? Forse è vero che diamo affetto e attenzione “un tanto al chilo” con l’attesa di ricevere altrettanto, un commercio che fa schifo anche a noi quando lo subiamo, ma che neghiamo fermamente se qualcuno ce lo rinfaccia; affetto che mette distanze o le annienta di colpo, che inventa rapporti ma non rischia mai una vera intimità. Se è questo ciò che abbiamo appreso, sarà quello che faremo per sopravvivere e, a guardar bene, forse potremo scoprire dentro ogni nostro piccolo gesto d’incanto anche un sapore amaro di morte. 

Dobbiamo stare attenti a non confondere l’affetto con la tenerezza, che non può essere data a comando, né estorta. La tenerezza emerge da una sorgente profonda, non è frutto di un atto di volontà, né di una convinzione religiosa. Viene per grazia ed è gratuita. Rispetto ad essa non c’è qualcosa da capire, o uno sforzo da fare, su questo punto siamo tutti ignoranti. Non abbiamo capito niente, piuttosto ci siamo persi e non sappiamo da che parte andare, ma spesso facciamo finta del contrario. La tenerezza s’impara ricevendola e la si riconosce fornendola. 

Meglio un’angoscia dubbiosa che una certezza arrogante: la prima cerca intimità pur sapendo di non riuscire né a concederla, né ad accoglierla come vorrebbe; la seconda miete vittime, vuole approvazione, mette distanze, rimane ferita al primo disaccordo e chiede lealtà innocua e sottomessa. 

Racamier[1] parla della tenerezza come un fatto che si compie nella sollecitudine, che tende alla dolcezza e si sviluppa nel tatto, la cui finalità sta nella preservazione. Definisce la sua peculiarità nell’avvolgere, vede il suo luogo specifico nella pelle e riconosce come suo metodo elettivo ed originario la carezza. La contrappone allo sfruttamento incestuale, quella forma di sensualità che si afferma opprimendo, che tende alla violenza e aspira all’egemonia, che fiorisce nella connivenza; che si rintana nella complicità e trionfa nei tagli e nelle rotture. 

Il discorso del rapporto incestuale afferma: insieme ci bastiamo e non abbiamo bisogno di nessuno; insieme e uniti trionferemo su tutto. Se mi lasci, io muoio. Se io muoio, tu non esisti. 

La tenerezza si dispiega nell’involucro mentre, al contrario, l’incestuale fa effrazione sia nel corpo, quando si tratta di incesto, sia nella mente quando si tratta di giudizio. L’incestuale combatte la tenerezza che è sua avversaria. 

Basta questo semplice accenno per sollevare una sottile inquietudine perché descrive verità facilmente riconoscibili in sé e nell’altro. Ma che farne di tali verità se poi ci accorgiamo d’avere un nucleo profondo intoccabile e feroce? Si può intanto smettere di credersi vittime innocenti, circondati da una folla di criminali pronti a ferirti al minimo accenno di vulnerabilità. Su questo punto non siamo migliori di nessuno, per il resto si può continuare ad inseguire la nostra mancanza di tenerezza e il bisogno d’intimità, pronti a interrompere la nostra furia per ogni delusione subita, senza scappare nell’autosufficienza o nella depressione.

Il discorso amoroso parla di fiducia, assenza e insufficienza: puoi amarmi? Posso amarti? 

La riflessione di Bonhoeffer, citato nell’incipit, prosegue così: “Sappiamo che seminare e favorire la diffidenza è tra le azioni più riprovevoli, e che invece, dove appena è possibile, deve essere rafforzata e promossa la fiducia. La fiducia resterà per noi uno dei doni più grandi, più rari e gioiosi della convivenza umana; e tuttavia essa potrà nascere solo sullo sfondo oscuro di una necessaria diffidenza”

L’ultima frase che mette in rapporto fiducia e diffidenza, appare come un sano invito ad uscire dall’ingenua attesa di ricevere una comprensione totale, nonché di fornirla. L’amore credo voglia libertà. Una relazione d’amore deve rischiare l’assenza dell’altro: ci si sceglie ogni volta, ci si separa ogni volta. Si ama nella mancanza d’amore, nella ferita ancora aperta per non essere stati amati; nell’insufficienza di ogni gesto, sguardo, atto; nell’incolmabilità di ogni sentimento, nel non pretendere di essere soluzione per l’altro, né volere che l’altro lo sia per noi. 

Si è sempre ad un nuovo inizio e si deve tramontare ogni volta.

La vita autentica è dolore e amore, minaccia e salvezza. Chi vuole essere eternamente figlio continuerà a cercare un luogo perennemente sicuro, con genitori accoglienti, comprensivi e mai minacciosi, come non lo sono stati i propri; un paradiso senza dolore e senza frustrazioni, nella soddisfazione di ogni bisogno, risoluzione di ogni contraddizione e dissoluzione di ogni polarità.  Ma non basta mai. Lo sappiamo, non basta mai. Diventiamo sempre più arrabbiati, prepotenti, bugiardi e sospettosi per salvare un’innocenza, la nostra, alla quale non crediamo più nemmeno noi. Diamo al bambino denutrito cibi fittizi e poi lo abbandoniamo nel disprezzo perché non è degno d’amore. Un bambino che non potrà mai crescere.

Noi abbiamo dei compiti difficili da realizzare: dare un senso alla nostra vita, comprendere il nostro vero valore e quello di chi ci sta accanto. 

Per tale proposito, Nietzsche ci indica un ottimo metodo: per cercare di capire il valore di una persona, vanno conosciute le condizioni della sua esistenza, calcolando quanto costi la sua conservazione. 

Quindi, a noi rimane la scomoda domanda: voglio io sapere quanto costa la mia conservazione e chi la paga?


[1] Cfr. Racamier, P.C. , Il genio delle origini, Raffaello Cortina Editore, 1993, Milano

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