“Non piegarla; non annacquarla; non chiederle di essere logica; non vendere alle mode la tua anima… Piuttosto, segui le tue ossessioni più intense senza pietà; non hai altro modo di placarle.” Franz Kafka.
“Le parole sono azioni”. È una frase di Ludwig Wittgestein pregna di significati e di conseguenze. L’azione, nel suo significato più semplice e generale, è un intervento che provoca una modifica. Nel suo significato comune viene considerata in contrapposizione al pensiero, alla parola e alla riflessione. Ma è un fatto evidente che la parola sia portatrice di una forza capace di generare cambiamenti, anche profondi e duraturi, in chi la pronuncia e in chi l’ascolta, quindi in tal senso possiamo considerare anch’essa azione.
Le professioni educative e psicologiche devono conoscere bene i rischi e il potere delle parole. Sono professioni alle quali deve essere chiara la differenza tra condizionamento, manipolazione, retorica e parresia. Etica della parola vuol dire che, a partire dalla propria valutazione di bene, si cerca aderenza tra ciò che per se stessi è vero, il discorso che ne nasce, le azioni concrete che ne derivano e il perché vengono compiute. Ma se come educatore non posso prescindere personalmente da un’etica della parola, professionalmente ne devo trasmettere il senso, affinché la mia azione possa davvero dirsi educativa. Quando una persona, in un processo educativo, fa suo il problema della parola, è il segno che nella sua vita è in corso un importante cambiamento. Vuol dire che non può più ignorare proprie contraddizioni e ambivalenze, e ne soffre in prima persona. Segna un passaggio di maturità, nel bisogno di attingere significati dal profondo e dalla propria personalissima verità. Non più chiacchiera che nasconde, minaccia o confonde ma parola che svela, domanda e conosce.
Chiave che apre porte, ponte verso l’altro, spada che recide, medicina che cura, silenzio che avvolge, poesia che suggerisce.
Se guardo alle molte parole già dette e scritte penso non sia necessario aggiungere altro. Per chi è ai suoi inizi in un processo di cura e conoscenza di sé, sia esso educativo o terapeutico, le parole rassicurano, danno una direzione e generano significati, strutturano e preparano, ma nel tempo assumono un altro scopo: creano, aprono e scavano. Arriva un tempo in cui, se si vuole ancora procedere, si ha il solo onere di andare in profondità, di fare ordine nella memoria e rimanere aperti, senza paura. È il tempo di usare ciò che si sa e di far diventare la parola azione consapevole. Non basta aver capito. È il tempo di dire la propria parola, di tracciare la strada piuttosto che pretendere che ci venga ancora una volta indicata e aperta. Che si tema perciò l’avidità, la stagnazione e l’ottusa superficialità. Che s’impari a discernere, nei propri pensieri e sentimenti, i tentativi di evitare la fatica e il dolore dei nuovi compiti di crescita, dalla volontà di affrontarli seriamente. Viviamo in bilico tra la voglia di stabilità e il bisogno di cambiamento, assediati da un’idea di felicità che è possesso e immutabilità o di piacere che è ripetizione e consumo senza fine. Non siamo liberi.
Le crisi sono occasioni di passaggi importanti: è la realtà che irrompe e destruttura certezze inconsistenti, obbligandoci ad occuparci di noi. L’anima dal fondo spinge e chiede di essere ascoltata, di non essere sepolta sotto la paura di vivere. Che prenda la guida quindi. Per anni ci si è preparati, forse senza saperlo, ad affrontare una realtà: la propria. Non sappiamo mai però come, quando e da dove arriveranno le prove. Le uniche cose certe sono che le prove arriveranno e che per affrontarle si dovrà confidare in se stessi e nell’aiuto di qualche buon amico.
Molte parole sono già state dette eppure qualcosa ancora sfugge e tutti sappiamo che al silenzio andranno sottratte ancora molte verità con delicatezza e pazienza. Siamo persone cercanti che vogliono comprendere anche se, a volte, mi sembra che questo volere capire somigli più ad un apriscatole che pretende risposte confortanti, certe e immediate, piuttosto che ad una torcia che illumina strade spesso molto buie, dove sono più utili la lentezza e il dubbio. Penso che il territorio del Sé possa essere esplorato solo in questo secondo modo.
Nel campo dell’umano la battaglia si gioca sempre a livello profondo e inconscio, prima che razionale, ecco perché “capire non basta”. Affinché una nuova comprensione diventi parte effettiva della propria realtà è necessario del tempo e che si realizzi in un’azione. Quello della cura di sé è un compito bellissimo e complesso che va condotto con amore e disciplina. Nel tempo, e con fatica, si arriva a comprendere il valore dei cicli evolutivi di trasformazione, nei quali si alternano fasi di stabilizzazione e consolidamento a fasi di ristrutturazione e cambiamento. È un movimento vitale soggettivo e collettivo, che parte sempre dal singolo per poi cercare una corrispondenza reale e concreta a livello relazionale. Questo passaggio dal singolo ai suoi gruppi di appartenenza è un movimento importantissimo mai immediato né indolore, perché assieme ad una buona dose di fortuna, cioè condizioni ambientali favorevoli, serve anche una precisa e ferma volontà di cambiamento. Sappiamo bene quali sofferenze nascono in quei gruppi, in primis nelle famiglie, il cui scopo originario sembra essersi perso, finendo per mirare unicamente ad uno sterile e soffocante “stare insieme”, sofferenze che se non trovano una loro voce, a lungo andare generano malattia mentale. Tutti i gruppi funzionano così: cercano appartenenza ma rischiano di soffocare il singolo; cercano differenziazione ma rischiano di negare le relazioni. Ecco che per garantire la crescita di tutti i membri di un gruppo d’appartenenza bisogna stare attenti a che nessuna delle due forze prevalga, conservando e rinnovando, e al tempo stesso lasciando che ogni cosa si manifesti per ciò che è e che diventi ciò che è destinata a diventare.
Premesso ciò vorrei raccontarvi una mia recente esperienza in montagna e condividere alcuni miei appunti raccolti in quei giorni, per lasciarvi con delle immagini le quali, credo, a volte siano più utili di tante noiose teorie.
“A fine agosto, ho camminato con un mio caro amico per qualche giorno in alta quota, per vette oltre i 3500 metri, tra le creste strapiombanti e i ghiacciai del gruppo Ortles – Cevedale. Abbiamo dormito poco e camminato moltissimo, misurando passi, emozioni e respiro. A quelle altezze le parole si fanno rarefatte come l’aria, diventano note brevi che sottolineano, richiamano e danno comandi, per il resto si viaggia in totale silenzio, catturati dalla bellezza e dall’impegno a rimanere in equilibrio su pochi centimetri di roccia o al bordo di crepacci profondi. Le notti sono insonni per la quota ma anche per l’inquietudine provocata da ciò che si sta per affrontare, giocati tra il desiderio di andare a visitare spazi bellissimi, potenti e ignoti, e la paura di non farcela perché oltre le proprie capacità. Giocati tra il timore che qualcuno si faccia molto male o che muoia (perché la montagna si prende sempre il suo tributo), e il desiderio di tornare a valle da amori improvvisamente lontanissimi, fermi da qualche parte al sicuro e irraggiungibili. ‘Chi te lo fa fare?’ ci viene chiesto. Bisogna saper rispondere ma anche non continuare a ripeterselo, soprattutto quando le cose non vanno come vorresti. Nella notte silenziosissima dentro i rifugi la solitudine è insopprimibile, si ripercorrono mentalmente i tragitti, si rifà lo zaino e la spunta degli attrezzi, sorgono mille paure e dubbi su di sé, e le domande si fanno ripetitive all’ossessione: perché sono qui? Cosa cerco?
Sono venuto a prendere qualcosa che non trovo altrove, per raggiungere la quale è necessario avere la giusta preparazione ed essere disposti a correrne i rischi. Se il bisogno di sicurezza prevale non ci si muove mai e l’anima muore; se l’insoddisfazione e l’irrequietezza prevalgono non si costruisce mai nulla e l’anima muore. Tra il rimanere e l’andare c’è un’oscillazione che nutre l’anima e ci fa diventare veramente umani. Bisogna trovare il proprio equilibrio tra questi due poli.
Dopo la notte al rifugio “Mantova”, sul monte Vioz a 3550 metri, raggiunto il giorno prima con una bella e faticosa salita di circa 5 ore, si parte con il buio per la seconda e più difficile traversata. In piedi alle 4.30, rapida colazione, torcette frontali accese e via su per la prima vetta. Il respiro è affannato, avido di ossigeno e il cuore batte fortissimo ad ogni passo. Gli zaini sono pesanti e si deve andare molto lenti per far abituare l’organismo all’aria rarefatta. Lentamente arriva l’alba, sempre nuova e bellissima e ogni cosa prende la sua reale misura, le ansie si posano al fondo e si comincia a camminare affrontando i problemi man mano che si presentano, fiduciosi delle proprie forze. Si fa la verifica dei ramponi, si aggiusta bene l’imbragatura, si controllano i nodi della corda che ci lega insieme e si riparte con la piccozza sulla mano a monte. Se uno cade in un crepaccio l’altro lo ferma ma se precipita da una cresta se lo porta giù. Due destini opposti legati da una corda. Stessi rischi e stessi vantaggi dove l’incolumità dell’uno dipende dall’attenzione dell’altro, nell’aiuto reciproco a raggiungere uno stesso obiettivo. Chi va avanti apre la strada. Chi segue deve fidarsi. Sul ghiaccio seguo, sulla roccia precedo e ci alterniamo in questa piacevole flessibilità di ruoli. Non siamo escursionisti sprovveduti ma nemmeno alpinisti così esperti da essere preparati ad ogni rischio. Procediamo perciò tranquilli e lenti, con prudenza e molta attenzione. Un lunghissimo e spettacolare su e giù. Una volta attraversato il ghiacciaio dei Forni e la vedretta Rossa, salito il monte Vioz, il Palon della Mare, il Rosole e raggiunta la cima del monte Cevedale, scendiamo al nostro secondo rifugio, il “Casati” a 3270 metri, sfiniti e contenti dopo nove lunghe ore di cammino, certi che il tratto più difficile fosse finito e che da allora in poi, per andare al rifugio “Larcher” molto più a valle a 2600 metri, sarebbe stato tutto più semplice. Almeno così ci era stato detto dalle guide.
Ci sbagliavamo o comunque sarà stato facile per loro. Il giorno dopo ci troviamo di fronte una immensa distesa di ghiaccio in scioglimento, la vedretta del Cevedale, piena di seracchi e crepacci molto larghi e profondi, al bordo di alte pareti sfasciate dalle quali, per fortuna in lontananza, rotolavano giù grandi massi. Dovevamo raggiungere il passo della Forcola a 3000 metri, attraversando due diverse vedrette. La via non era tracciata, impossibile in quel paesaggio in continuo mutamento, e chiunque fosse passato di lì prima di noi aveva avuto sicuramente lo stesso nostro problema: cercare una via d’uscita senza farsi male. Così abbiamo fatto, con lentezza e pazienza, testando il terreno passo passo, decidendo ogni volta insieme il da farsi, fidandoci del nostro intuito e dei nostri ramponi.
È strano come nei momenti più difficili possa sorgere uno strano e profondo senso dell’ironia. Abbiamo riso di noi con leggerezza, le parole si sono fatte delicate e pungenti nel dare contorni paradossali all’assurdo della situazione, conferendo ai nostri passi ancora più sicurezza, nonché allo sguardo e al cuore la libertà che meritavano.
E così nella solitudine del cammino i pensieri si fanno semplici, concreti, attenti ai dettagli, molto crudi e reali. I sentimenti tra meraviglia, paura e stanchezza viaggiano perfettamente sincronizzati con il cuore, gli occhi e i piedi. Una piacevole sensazione di interezza. Si vuole solo passare di lì e arrivare in cima, non restarvi. La bellezza delle altezze può essere goduta solo nell’idea che c’è un basso al quale tornare colmi di quella semplicità essenziale, luminosità, silenzio e ampiezza.
Non c’è dubbio, la differenza tra chi ne parla soltanto e chi ci prova sul serio sta nella cura con la quale prepara il suo zaino, i compagni di viaggio che sceglie, la semplicità che trasmette. Di sicuro è qualcuno che non ha voglia di perdere tempo e sa distinguere un cialtrone da un uomo in cammino.
Dopo tanta incontenibile e austera bellezza delle vette, attraversare più a valle ruscelli in mezzo ai boschi, tra scoiattoli e farfalle, è riposante perché ci sei arrivato con fatica, lo senti protettivo perché la vita in quel luogo è già possibile e ne comprendi il valore per contrasto. Da dove sei guardi in alto dove eri, e ti senti al posto giusto, con il desiderio nostalgico di tornare, un giorno, lì dove eri.
La nostalgia è bella quando ti fa vivere meglio il presente, diventa malata quando lo rifiuta.
È tempo di tornare a casa.
All’arrivo in città ho provato un senso di fastidio generale e pungente. Pensavo fosse il rumore, poi la puzza, poi la folla. Nulla mi andava bene. Poi ho capito che dovevo lasciare andare qualcosa e qualcosa dovevo lasciar entrare. Tutto quell’affaccendarsi inconcludente, distratto e indifferente delle persone in fondo mi apparteneva perché lo abitavo; quell’illusione di sicurezza a evidente diniego della solitudine, strideva con un senso reciproco di minaccia e ostilità: mi sentivo più al sicuro nella solitudine della montagna, affidato alle mie forze, alla natura e in compagnia di persone altrettanto sole, che non in quella indifferenza violenta, anonima e blasfema. Non vedevo persone ma funzioni instupidite.
Ecco cosa volevo per me: non lasciarmi fagocitare da quell’apparente ‘comodità’ ipnotica, ciò che importava era rimanere sveglio e presente, padrone della mia solitudine, pur incontrando molti altri, senza diventare a mia volta una funzione ottusa e inconsapevole.
Avrei voluto chiedere ad ognuna di quelle persone quale sicurezza pensavano di aver conquistato, quali certezze cercavano, dove andavano e per fare cosa, di cosa avevano paura e in cosa speravano ancora, ogni giorno per cosa si svegliavano. Quante dichiarazioni avevano fatto e tradito, quante volte avevano detto basta per poi ricominciare uguale il giorno dopo, quante persone avevano accusato della loro infelicità. Ma gli avrei anche chiesto se avevano mai pianto per qualcun altro davvero, se avevano mai seguito un sogno realizzandolo, se avevano mai rischiato di gettare una parola di speranza a un uomo disperato o regalato qualcosa di prezioso a uno sconosciuto solo per farlo felice”.
“L’alpinismo è l’arte di percorrere le montagne affrontando i massimi pericoli con la massima prudenza. Viene qui chiamata arte la realizzazione di un sapere in un’azione.
Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere…A che pro, allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene.
Si sale, si vede. Si ridiscende non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere.” René Daumal – Il monte analogo