“Nessuno può dire di se stesso in modo veritiero di essere una merda. Perché, se lo dicessi, potrebbe anche essere vero in un certo senso, ma non potrei essere intriso di quella verità: poiché in tal caso dovrei impazzire, oppure cambiare me stesso.” L. Wittgenstein – Pensieri diversi.
“Per elevarsi alla compassione occorre spingere l’ossessione di sé fino alla saturazione, fino alla nausea, poiché quel parossismo del disgusto è un sintomo di salute, una condizione necessaria per guardare al di là dei propri triboli o fastidi”. E.M. Cioran – Confessioni e anatemi.
Nell’articolo “Smettere di lottare. Imparare a combattere”, Fabiana D’Onofrio parla di buon combattimento.[1] Uno scritto molto interessante che mi ha stimolato alcune riflessioni e invogliato a dire qualcosa a proposito. Lo farò in modo parziale e asistematico, mi si perdonino perciò i riferimenti personali, le libere associazioni e le dichiarazioni non comprovabili. È un discorso “in fieri”, che vuole rimanere tale; è solo una breve chiacchiera per sollevare alcuni lembi di pensieri troppo incollati a certezze, convinto che nascondano, e spesso soffochino, domande importanti e nuove idee. Confido nella possibilità che qualcun altro, infastidito o invogliato da queste riflessioni, voglia dare seguito al discorso, attraverso suoi canali d’esperienza. Sono frammenti che ho voluto fissare con il duplice intento di dare forma a pensieri embrionali per meglio comprenderli, e per il piacere di condividere qualcosa di sorgivo, non ancora compiuto. In essi sento però risiedere, tra le pieghe a volte scompaginate del discorso, alcune valide intuizioni da catturare, che andranno certamente ordinate e raffinate. È un flusso che non intende convincere né rivelare nulla di nuovo: è piuttosto una incursione disordinata nel mondo, spesso caotico, del conflitto e della relazione, per la curiosità di vedere dove porterà. Cominciamo quindi.
Plutarco racconta che il re spartano Plistarco, «sentendo un oratore che faceva continuamente battute di spirito, gli disse: “straniero sta’ attento che, a furia di dire buffonate, non diventi un pagliaccio, alla stregua di quelli che passano il tempo a lottare e diventano dei lottatori”».[2]
Mi è sempre parsa curiosa questa piccola citazione perché è un re spartano a parlare, in apparente contraddizione con la tradizione marziale del suo popolo. Credo dica: attenzione a non identificarsi in modo rigido con una propria modalità solo perché “meglio funzionante”; attenzione a non diventare una funzione ripetitiva e instupidita; attenzione a non perdere se stessi nell’azione o per l’azione.
Combattere è una possibilità ultima, per niente piacevole, dettata dalla necessità; sottolinea un’attitudine di fondo nel confronto con l’aggressività altrui, che talvolta può diventare violenta e distruttiva. Che piacere può esserci se non quello di vedere estinta, e si spera trasformata, la minaccia? Combattere, nel suo significato più evoluto, non è quindi uno sport né uno stile di vita, e non coincide con l’aspirazione ideologica ad un’esistenza colma di battaglie, nemici e onore. L’immagine idiota dell’uomo guerriero e della donna amazzone è talmente patetica e irreale che può attrarre solo menti labili e identità inconsistenti, convinte di ottenere così una vittoria definitiva sulle loro paura degli altri, sulla loro paura di vivere. Il mondo delle arti marziali credo sia, in tal senso, il maggiore ricettacolo esistente di patologie narcisistiche irrisolte, attratte dalla facile possibilità di costruire identità posticce e onnipotenti. Peccato che, in tal caso, si chiudano le ultime possibilità di diventare reali, di recuperare la capacità autoriflessiva e pensante, deviando completamente le forze verso un sé falsificato e totalmente arroccato nella sua difesa. Certo sarebbe ingenuo pensare che sia colpa delle discipline marziali in sé, è chiaro che dipende dall’uso che ne viene fatto.
Il conflitto esterno agito fa capo ad un conflitto interno inconsapevole e irrisolto, questo c’insegna la psicologia del profondo, ed è la conseguenza dell’emergere di un frangente inquietante e duro della realtà che chiede di essere visto. Affrontarlo ha sempre un costo. La sua comprensione, trasformazione ed estinzione sono il fine ultimo auspicabile, così come impedire che faccia danni irreversibili e non si propaghi. Facile a dirsi. Il conflitto va prima accettato perché possa essere compreso e armonizzato. Litigare, scontrarsi, ferire, farsi del male, vendicarsi o dominare in quale solco si inseriscono? Sono modi di affrontarlo o di rifiutarlo?
Si confligge per vincere, ma su cosa e perché? Prima di tutto, credo si debba vincere sulla tentazione ad annientare l’altro che ci fronteggia con la sua differenza, con la sua diversa visione del mondo, con la sua rabbia, i suoi bisogni o le sue richieste pressanti. L’altro che, improvvisamente, diventa estraneo e nemico, perché ci porta fuori equilibrio, mostrandoci così, spesso involontariamente, tutta la nostra fragilità e inconsistenza; l’altro che apre un varco profondo nella nostra presunta intoccabilità e ci fa paura. L’altro che alternativamente cerchiamo e allontaniamo senza giungere ad una soluzione definitiva. Che fare quindi? Tentare di vincere eliminando o includendo? Evitare, attaccare o accogliere?
Visto che spesso cerchiamo “strategie vincenti”, ne propongo una, per gioco e per sfida: definisci te stesso. Dì quindi cosa vuoi, parla di te, evita di parlare degli altri; osserva le tue pretese e attento alle recriminazioni, non considerarti una vittima più dell’altro; se sei stato ferito segnalalo ad alta voce, se ferisci ripara e scusati davvero; avanza richieste, proponi e fai domande; aspetta le risposte, rispondi con onestà e proteggi ciò che ami, anche dalla tua furia distruttiva infantile. Combatti per salvare la relazione ma non a tutti i costi. Combatti per salvare la tua dignità e quella dell’altro, con dignità e ad a ogni costo. Salva l’altro dalla tua violenza e salva te stesso dalla sua. Vince chi sa definire se stesso senza negare la relazione stessa, soprattutto quando si fa più problematica.
Vince chi è più reale anche se riceve più colpi. Il confronto non è mai scontro ma uno scambio nell’ascolto reciproco. Il confronto è la difficile arte di accettare la forza dell’altro senza perdere la propria.
Nella relazione clinica ed educativa lavoriamo per superare le difese e andare al cuore della relazione cercando incontro, ma per farlo non si può essere ingenui e sciatti; se si deve poi neutralizzare la violenza ci vuole in più molta disciplina, accoglienza e flessibilità. Senza centratura e lucidità è difficile affrontare aggressività e violenza. Evitare che l’altro si faccia male nel mentre tenta di farci del male, evitare di fare male quando abbiamo il potere di farlo, sono principi pratici ma anche delle preferenze. Li ho appresi praticando kendo e judo ma il loro vero valore l’ho capito solo molto tempo dopo, Menghi mi è stato maestro. Infatti l’intelligenza del corpo non è sufficiente e perché possa servirci, va portata a coscienza, resa parola e conoscenza. Ma ancora non basta: ogni buona comprensione deve poi essere resa reale nella concretezza della propria esistenza. Ognuno la propria.
Apprendere dall’esperienza vuole dire dare un senso personale a ciò che ci capita e a ciò che facciamo, cogliendone il significato interiore, traendone indicazione per se stessi, per le proprie relazioni e su come si preferisce vivere. Non basta “fare” per cambiare, e soprattutto c’è bisogno dell’aiuto qualificato di qualcuno per comprendere. Questo è il valore della Normodinamica: dare significato alla propria esperienza interiore e relazionale, per generare etica e conoscenza.
Scrivevo altrove: “Amare la libertà dell’altro significa operare per l’interezza ed inserirsi con competenza e umanità nella sofferenza, toccandola con mano, ricercandone l’origine e infine riconsegnandola alla persona nella sua pienezza di senso e potenzialità evolutiva, cosa che include anche l’incontestabile accettazione della condizione umana colma di incertezza, insensatezza, contraddizione e mistero”.[3] Un bel pensiero che può rimanere tale se non è calato nella realtà pratica di cosa voglia dire e come ciò possa diventare reale nella relazione. Se è importante rendere visibile la prospettiva più ampia, è altrettanto importante evidenziare cosa ci sia nel mezzo e quali siano le strade che si ritiene di poter percorrere per perseguirla. Si parla spesso di cosa accade all’utente, più raramente si parla invece di ciò che accade all’educatore, quali processi debba fare e quali strade debba attraversare. Rispetto alla funzione educativa, che mira quindi ad evocare forze evolutive, sfugge spesso un fattore d’estrema importanza: per accedere a diversi livelli di conoscenza e ad alcune “verità” è necessario cambiare se stessi. Per prima cosa quindi è necessario farne esperienza.
Nessuna teoria, per quanto complessa, potrà mai reggere il confronto con la realtà della relazione. Il problema ultimo della coerenza non si pone in termini normativi, cioè di un dover essere all’interno di regole prefissate, ma si pone piuttosto in termini esistenziali, cioè nella capacità di trarre indicazioni per il proprio agire dalla propria esperienza.
Apprendere senza esperienza versus apprendere dall’esperienza. La vuota inconsistenza della prima condizione appare ovvia solo alla luce dell’inutilità di tanti saperi di fronte a molti fatti della vita. C’è un sapere che non serve a nulla, se non a riempire sacchi di parole, costruire muri impenetrabili di certezze e darsi un bel vestito; c’è un sapere profondo che può muovere, con delicatezza e forza insieme, le nostre azioni conferendo loro potere, senso e ulteriore conoscenza. Inutile dire da dove possa essere attinto il secondo, inutile dire che è difficile quanto necessario.
Quando mi vengono portati in supervisione casi in cui l’utente sta mettendo in forte difficoltà l’educatore penso sempre che sia un buon momento per andare al nocciolo della relazione e perché essa possa cambiare livello. Il conflitto è sempre una buona occasione ma bisogna saperlo intercettare, farlo quindi emergere quando è occulto, e saperlo affrontare quando è palese.
Nel dialogare con l’educatore in supervisione seguo, e tento di trasmettere, cinque principi:
- nel definire se stessi si è al sicuro. Definire gli altri è una pratica di potere inutile, che può essere anche disonesta.
- Non si può chiedere ad altri ciò che non si è per primi disposti a fare.
- Si può trasmettere solo ciò si conosce realmente, testimoniandolo nelle azioni e nella coerenza tra esse e le proprie dichiarazioni.
- Non si deve ristabilire alcun ordine, né cercare strategie per eliminare il problema, piuttosto si può cogliere l’occasione della crepa per capire se stessi, assieme a tutti i perché che evoca. Nessuna funzione sedativa o antalgica.
- La crepa non è un errore ma un’occasione per tentare di parlare finalmente in verità di ciò che davvero importa. Ci si può muovere insieme per meglio comprendere e non per consolarsi.
Premesso ciò, ci sono due prime domande che credo sia necessario non dimenticare: perché questa persona mi ha cercato, di cosa ha bisogno? Come posso e intendo rispondere?
Il bisogno reale e inconsapevole spesso non corrisponde con quello dichiarato e va quindi indagato e scoperto. A seguire ci sono un’altra serie di domande importanti: chi sono io per lui e cosa vuole che faccia? Quale equilibrio si è appena rotto, e come tenta di ristabilirlo attraverso la relazione con me? In che modo tenta di portarmi a fare ciò che ritiene io debba fare? Quali domande non vuole che faccia? Cosa non vuole che io veda? Cosa pretende che io confermi?
Normalmente, dopo una prima, e a volte lunga fase di tranquillo lavoro esplorativo, dove si è potuta testare la reciproca fiducia e si sono messe le basi per un dialogo più aperto e onesto, si deve avere il coraggio di entrare nel vivo della relazione. Non bisogna fermarsi di fronte alla richiesta collusiva di stare in superficie e di continuare quindi a sostenere la funzione che ci viene attribuita, nelle diverse forme di colui che sa e che guarisce e che passivo possa essere aggredito o sedotto; di colui che è alternativamente la buona madre che lenisce, comprende e accudisce o il buon padre che sanziona e protegge, e così via. Funzioni parziali e sostitutive.
Molte persone vogliono essere compiaciute rispetto alla loro immagine artefatta, e quando non si risponde come vorrebbero, tentano in tutti i modi di ottenerlo, diventando spesso pedanti e intrusive e, a volte purtroppo, violente. Potrebbero in quell’istante di delusione riconoscere la loro inconsistenza, e il loro ridicolo senso d’importanza personale, potrebbero provare a smetterla ma dovrebbero cambiare vita e affrontare loro stesse, smettendola di accusare tutti e di riempire il loro senso d’angoscia con fiumi di parole. Potrebbe nascere un sano senso dell’assurdo e del comico, ma l’ironia e l’autoironia sono doti molto evolute, frutto di intelligenza, figlie del dolore accolto e mezzi efficaci per disinnescare ogni tendenza egomaniaca. Di solito infatti non accade a meno che, purtroppo per chi lo subisce e per fortuna per tutti gli altri, il meccanismo s’inceppi davvero, facendo sorgere un vero e insopprimibile dolore, assieme alla paura di morirci dentro e di rimanere definitivamente soli. Un dolore sano che forse può spingere a chiedere aiuto. Ma ciò ancora non basta.
Dire di volere una cosa non significa essere disposti a pagarne il prezzo, né che si accetti di ricevere l’aiuto che serve. Alla richiesta di stare bene si accompagnano molto spesso pretese accessorie, in buona parte occulte, nella certezza di sapere meglio di chiunque altro i modi e tempi per raggiungere questo stare bene, richieste alle quali l’altro, in funzione d’aiuto, dovrà quindi obbedire. Potrà quindi essere sia l’inizio di un vero cambiamento oppure il tentativo di ristabilire l’equilibrio precedente dove le cose, a modo loro, funzionavano. Forse, semplicemente, coesistono entrambe le possibilità perché siamo sempre in bilico tra la voglia di andare avanti e quella di non soffrire. Facciamo davvero tenerezza quando abbiamo paura, e se qualcuno se ne accorge e vuole il nostro bene, siamo fortunati perché non infierirà né crederà ad una sola delle due cose. Paura e desiderio hanno reciproca sussistenza e a volte, in questo rapporto polare, l’una domina l’altra per troppo tempo. Prenderle entrambe non è semplice, eliminare l’una per avere solo l’altra è impossibile e irreale.
Quello descritto però è solo un frammento di un combattimento che non è detto si possa già dire buono. Quando l’educatore propone un diverso piano di relazione; quando propone una diversa ed esplicita “collusione”; quando si rifiuta di rispondere alla pretesa dell’altro di ottenere ciò che, in modo non chiaro e spesso manipolatorio egli/ella tenta di estorcere, ecco che può cominciare il buon combattimento. È una fase importante e significativa nella quale le proprie qualità reali, e non strategiche, vengono finalmente messe alla prova. È il tempo nel quale si passa da essere colui il quale “comprende e accoglie” a qualcuno che improvvisamente “non capisce e rifiuta”. E inizia così il balletto, a volte molto lungo e spossante, dei tentativi di spiegare, disconfermare, ridefinire, attaccare, sedurre, aggredire, blandire per il solo fatto che ciò che viene proposto non piace più. Il tentativo è quello di negare la relazione perché non la si controlla e con essa la verità che al suo interno si esprime. I pensieri al servizio del proprio senso di fallimento, dichiara Menghi,[4] per quanto intellettuali e apparentemente complessi, a parte ingannare gli ingenui, non produrranno altro che noia e ulteriori pensieri, e con essi ancora illusione e sofferenza.
L’educatore capace di rimanere dove ha scelto di stare, con fermezza e apertura, vivrà quindi un brutto e un bel momento insieme, perché aggredito e disconfermato, e al contempo cercato e interpellato. Il suo far paura, vero motivo di ogni aggressione, risiede nel rifiuto a svolgere ancora una funzione coatta e inconsapevole; farà paura perché non manipolabile, perché non disponibile a partecipare al gioco nevrotico e narcisista dell’altro. La posta in gioco: il senso di realtà e la propria libertà di scegliere chi si vuole essere nella relazione, in ogni relazione, attraverso una contrattazione esplicita. È un combattimento nel quale più si tenta di dialogare con la parte sommersa dell’altro, con il suo sé reale, e più si dovranno fare i conti con le personali resistenze a scendere nelle proprie profondità. C’è un’ombra che va illuminata da entrambe le parti. Nessun movimento, in tal senso, può essere unilaterale, e ci si può muovere solo insieme.
Definire se stessi, individuandosi è ciò che mette al sicuro, riconoscendo e dichiarando cosa si è disposti a fare e cosa no. Significa esporre la propria realtà e vulnerabilità, segni di forza e invito non violento a fare altrettanto. Ognuno sceglierà poi cosa preferisce.
È un momento d’incertezza e un bel rischio perché le cose possono anche peggiorare, diventando così, agli occhi dell’altro fin qui deluso e incompreso, qualcuno da allontanare o da neutralizzare, qualcuno da convincere con più insistenza del suo errore. Lo scontro può incrudirsi a fronte del bisogno di far tornare ad obbedire chi sfugge dal proprio controllo. Fino a quando? Non si può dire e non si può prevedere. Infine qualcuno, di fronte all’evidenza dell’assurdità di tali lotte, forse si arrenderà e coglierà l’opportunità offerta; qualcun forse insisterà finché, stanco, andrà via, probabilmente ancora più deluso e arrabbiato; infine, fatto rarissimo per fortuna, forse qualcuno incapace di accettare la “sconfitta” tenterà di danneggiare il “disobbediente” in molti modi. Molti forse ma, in fondo, sono anche i rischi del mestiere.
Fare finta di cambiare per non cambiare nulla può essere solo un inizio ma da questa condizione poi bisogna sapersi muovere. Abbiamo sempre la libertà di accettare o meno ciò che l’altro ci propone nel rapporto, dipende però dal nostro grado di autonomia interiore: tanto più si è ricattabili sul piano psichico, affettivo ed emotivo, meno possibilità si avranno di proporre alternative. Il bisogno collusivo dell’uno si sposa con quello dell’altro e la frittata è fatta. Un nuovo bell’incastro che durerà il tempo di consumarsi nella delusione reciproca, per iniziare altrove.
Nessun processo evolutivo può procedere in modo sano con tali premesse.
In un appunto del marzo 1992, Menghi dichiara: «Nel profondo ogni uomo sa che l’immagine di sé è un artefatto. Di lì nasce una sana e giusta insicurezza. Un’insicurezza sulla propria identità. Ma invece di dar credito a quell’insicurezza e iniziare di lì una ricerca, quasi tutti spendono la propria vita affannandosi a coprire in un modo o nell’altro questa insicurezza, cercando di migliorare o camuffare l’immagine di sé. Questi continui tentativi rendono quell’immagine sempre più grande e rigida. La stessa competizione con gli altri è un modo per convincersi ancora di più della validità di quell’immagine. Una validità che si “rinforza” con il confronto e con la critica all’immagine degli altri».
Molte volte mi sono trovato nella condizione scelta, di non dare ciò che l’altro pretendeva gli dovessi dare. Sono momenti nei quali si deve essere pronti a mettere in campo le proprie reali preferenze relazionali; fasi nelle quali bisogna essere disponibili a ricontrattare con delicatezza nuovi significati e diverse modalità di rapporto. Non è semplice e a volte il dubbio di sbagliare o di fare del male, prevale. Ricevere un “no”, lo sappiamo, non è mai un’esperienza piacevole. I bambini sanno bene cosa sia la delusione e la rabbia di fronte al rifiuto, e devono imparare a distinguere un rifiuto per amore da un rifiuto per mancanza d’amore, a fronte della loro parzialità di coscienza e impellenza dei bisogni pulsionali. La nostra psiche non sempre viaggia lineare nel tempo: siamo vecchi e bambini insieme, e a volte frammenti psichici inconsci ancora immaturi cercano delle risposte, emergendo ben al di fuori di ogni nostro controllo razionale. Se la confusione, la rabbia, il senso di incomprensione e fallimento possono farla da padroni, un momento di lucidità può però ricondurre ogni cosa alle sue reali proporzioni e al suo reale significato. Bisogna cercarsi cercando l’altro, ricordando il senso che ci tiene legati e, nelle relazioni più importanti, l’amore sul quale ogni cosa si poggia. Ma non serve che ci sia sempre tutto ciò per raccogliere inviti alla reciproca libertà. Perciò credo che tutto ciò abbia valore ben al di là della responsabilità professionale o di quanto accade nelle relazioni più intime. Vale per ogni rapporto.
Non sempre se ne esce “vincenti”, quasi mai senza ferite, spesso stanchissimi ma anche molto contenti della qualità di vita che ne può emergere.
Dice Cioran: “Non è grazie al genio ma grazie alla sofferenza, e solo grazie ad essa, che smettiamo di essere una marionetta”.[5]
Ritrovo in un appunto inedito di Menghi del 1992, dei pensieri simili: “Ci vogliono anni di duro lavoro per portare una persona in contatto con una vera angoscia di base. Non sprecate il momento in cui questo si verifica. Perché altrimenti ritornerete alla condizione precedente, dove eravate soltanto burattini mossi da reazioni automatiche. Eravate profondamente stupidi. Vi trovavate in un sonno profondo per evitare l’angoscia del contatto. Ora che avete questa consapevolezza, non sprecatela”.
Mi sembra una prospettiva invitante.
Credo sia questo il buon combattimento che può valer la pena continuare a combattere, provando a seguire il consiglio del re spartano: non diventare dei lottatori.
[1] F. D’Onofrio, “Smettere di lottare. Imparare a combattere”, Blog Manuale Inapplicabile.
[2] Plutarco, Le virtù di sparta, Adelphi, pg 123.
[3] A. Ricci, “Amare combattendo”, Blog Manuale Inapplicabile.
[4] “Il cervello è spesso impropriamente adoperato per trovare giustificazioni al proprio senso di fallimento che deriva da una scarsa autonomia. Molti usano la psicologia solo per formulare nuove letture della realtà su cui far accomodare la propria inerzia. Il pensiero usato al servizio dell’evoluzione è un passo verso l’intuizione creativa. Il pensiero al servizio dei propri stati d’animo è un modo per fingere con sé stessi di star facendo qualcosa di utile mentre si ha paura di compiere un’azione costruttiva”. Paolo Menghi, 25 febbraio 1992.
[5] E.M. Cioran, Confessioni e anatemi, Adelphi, pg.75.