Piero Coppo: convocare l’invisibile per conoscere l’umano

di Antonio Ricci

Una nota personale come introduzione

Ho letto recentemente, e con molto interesse, alcuni testi di Piero Coppo, etnopsichiatra scomparso nel 2021. Incuriosito dall’uomo, ho avuto poi la necessità di ascoltare la sua voce, conoscerne il ritmo e l’intonazione, vederne la figura per confrontarla con l’immagine che mi ero fatto. Ho quindi cercato sul web qualche suo filmato. L’incontro con la sua “presenza” non mi ha sorpreso: trovo un uomo asciutto nella figura e nel linguaggio così come lo avevo immaginato, attento alle parole, attento all’interlocutore e alla necessità di raggiungere l’altro come di essere raggiunto, trovando coerenti queste sue modalità con ciò che di lui storicamente già conoscevo. Negli anni ’70, nel ruolo di psichiatra, collaborò infatti con Franco Basaglia a Gorizia, agli esordi della fondazione di “Psichiatra Democratica”, movimento che marginalmente mi trovai anni dopo a frequentare come giovane studente della facoltà di Psicologia a Roma, ancora ingenuamente illuso di incontrare un nuovo umanesimo esistenzialista nelle università; illuso di poter finalmente dialogare con Laing, Cooper o Michel Focault, almeno teoricamente, per essere poi prontamente deluso dalla loro totale assenza o voluta dimenticanza. In quegli anni, era il 1983, partecipavo inoltre agli incontri gestiti dal professor Gérad Lutte con i “giovani invisibili” del centro di cultura proletaria della Magliana a Roma e, come utente/studente, a dei gruppi di autobiografia o, come lui li definiva, di “storie di vita”. Lutte, oggi noventenne, docente di Psicologia dello Sviluppo, era fautore di una idea libertaria e sociale della condizione di disagio degli adolescenti, che contrastava, ora come allora, quella di natura esclusivamente psico-biologica. La sua radicalità gli costò, in quanto prete salesiano, la sospensione “a divinis” dalla chiesa, a causa della sua ferma volontà di stare sempre dalla parte degli ultimi, che fosse tra i baraccati e i disoccupati romani, tra i poveri del Guatemala o i giovani del Nicaragua. Cominciava però a farsi faticosamente strada, anche grazie a lui, una visione bio-psico-sociale dello sviluppo dell’essere umano, e dei suoi fallimenti.

Qualche anno dopo cominciai il mio processo formativo e terapeutico con Paolo Menghi, neuropsichiatra infantile e terapeuta familiare, tra i fondatori delle prime scuole italiane sistemico-relazionali. Le sue scelte, anch’esse radicali, erano di fatto una risposta a tutta quella psichiatria che preferiva marcare rigidamente il confine tra sani e malati, tra corpo e mente, proponendo perciò una definizione di normalità come possibilità di conoscenza, libertà interiore e realizzazione piuttosto che di buon adattamento. Erano anni in cui si faceva strada una critica profonda e aperta all’idea di malattia mentale e ai concetti di normalità e follia mentre, al contrario, nelle facoltà di Psicologia si tendeva sempre più a dare fondamenti “scientifici” al dolore mentale, promuovendo a tale scopo complicati sistemi psicodiagnostici e relative standardizzazioni statistiche o ricerche psichiatriche e neurofisiologiche sulle malattie mentali a sostegno di approcci di cura medicalizzanti. 

Erano anni in cui si combattevano le “istituzioni totali” , così come le definì il sociologo Goffman, luoghi di controllo e repressione, dove l’individuo subiva una privazione dei diritti civili e una mutilazione della propria umanità: le carceri, la leva militare, i manicomi. Questi ultimi veri e propri luoghi di detenzione, con i loro sistemi disumani di trattare la sofferenza psichica, produttori a loro volta di malattia, dolore e morte. Nasceva un profondo rifiuto delle eziologie biochimiche e genetiche della schizofrenia, e si aprivano nuove strade di valutazione e comprensione del fenomeno follia e dei folli: l’una in quanto  possibile espressione delle sofferenze della società,  e gli altri considerati non più macchine rotte da riparare e segregare, ma testimoni ingombranti di qualcosa di malato insito nelle famiglie e nella società stessa. Erano anni in cui emergeva una visione che non separava l’uomo psichicamente sofferente dall’ambiente nel quale viveva, non più quindi problema medico di un singolo mal funzionante, ma problema contemporaneamente umano, politico e sociale del quale era necessario occuparsi.  

L’intero mondo psichiatrico ne fu scosso; la separazione tra psiche, cultura e società sembrava non avere più senso e il discorso attorno alla malattia mentale divenne anche il discorso attorno all’uomo che esprime sofferenza all’interno in una data cultura e società di appartenenza. Da ciò la necessità di rispondere in modo adeguato, restituendo prima di tutto dignità e diritti alla persona, reinserendola nel mondo dal quale era stata isolata, per poi tentare di comprenderne i linguaggi nella “casa” in cui essa viveva, piuttosto che ammutolirla e recluderla. Con la legge 180/1979, conosciuta anche come “legge Basaglia”, qualcosa di sostanziale finalmente cambia ma ancora la strada è lunga perché si possa trasformare la concezione di malattia mentale e i modi di trattarla, così come si è ancora lontani da una società che riconosca e modifichi i suoi sistemi di dominio e di esclusione verso la “diversità”. 

Coppo è un uomo pratico e nella delusione degli anni ‘80, dove vive fino in fondo la sconfitta del movimento al quale aveva partecipato con passione, movimento oramai perso in troppe frammentazioni ideologiche e derive terroristiche, si rivolge altrove e comincia la sua esperienza psichiatrica e antropologica in Africa, nel Mali: sarà questo il modo di continuare la sua ricerca, nata come antipsichiatria per diventare negli anni a seguire etnopsichiatria, in diretta continuità con le sue idee umanistiche e libertarie di malattia e cura. Negli anni Ottanta avvierà i primi progetti di cooperazione internazionale tra Italia e Mali, facendo incontrare e collaborare la medicina tradizionale africana con la medicina occidentale in progetti interdisciplinari di cura della sofferenza psichica. 

“Negli anni passati in Mali ho imparato molto, e ciò che ho vissuto ha cambiato il mio modo di lavorare come medico e psichiatra. A lungo andare, l’esercizio di stare tra mondi, registrando analogie e diversità tra diversi modi di curare, lavorando come mediatore tra cosmovisioni, modelli antropologici e vie della salute diversi e tra loro spesso in conflitto o in guerra, è diventato un mestiere e ha determinato un orizzonte dove, appunto, viene rispettata e valorizzata la pluralità dei modi di esistenza umana”.[1]

Da allora fino alla sua morte, non si è mai fermato, lavorando in progetti e interventi simili sostenuti da diverse istituzioni e organizzazioni italiane e internazionali in Somaliland, Guatemala, Marocco e Perù, oltre che continuare il suo impegno come formatore e psichiatra in Italia.

Il racconto che Coppo fa della sua vita nel testo “Le ragioni degli altri” è molto onesto intellettualmente ed è apprezzabile la chiarezza con cui, senza sbavature narcisiste, descrive il percorso lungo e accidentato che, a partire dai suoi esperimenti di vivisezione su gatti e scimmie da medico neolaureato, lo ha infine portato a prendere dimora in una etnopsichiatria radicale. “Radicale” è un termine rischioso, equivocabile, e al tempo stesso indicativo di una definizione chiara, di una direzione coraggiosa, netta e scevra da compromessi.  

Questa definizione di radicalità mi ha sorpreso e incuriosito, la stessa che ho ammirato e conosciuto in alcuni miei maestri, invogliandomi quindi a comprendere meglio il significato che Coppo gli attribuisce nella pratica etnopsichiatria da lui perseguita. 

Radicalità dello sguardo

Un primo elemento di radicalità riguarda il modo di guardare ad una specifica sofferenza umana, quella che gli sciamani del Mali imputano ad una causa sovrannaturale, che eccede la natura dell’uomo, ne sconvolge in modo imprevedibile e disastroso gli equilibri e che nessun rimedio ordinario è in grado di curare; sofferenza che i terapeuti occidentali attribuiscono a cause psicologiche, biologiche, sociali che tocca appunto quella parte del nostro essere definita psiche: la sofferenza interiore.

Non un unico sguardo ma molteplici sguardi, che osservano la stessa cosa da posizioni culturali diverse, attraverso storie, miti, tradizioni diverse e quindi con significati sociali e individuali radicati in altri mondi e culture, fatto che può essere solo un valore. 

I concetti di psiche, inconscio, follia non possono più essere perciò dei riferimenti universali, validi per l’intera umanità, visto che alla luce dell’etnopsichiatria sono costrutti particolari appartenenti ad una specifica cultura, quella occidentale giudaico-cristiana; costrutti il cui significato va compreso a partire dal profondo solco di significati che dalla grecità in poi si è mosso fino ai giorni nostri. 

Lo sguardo radicale fa sì che la posizione monopolistica della scienza occidentale decada, non considerandola più come portatrice di un sapere superiore, ma piuttosto come produttrice di saperi e dispositivi di cura al pari delle altre culture, dispositivi intesi come quell’insieme di tecnologie, regole, mezzi materiali e immateriali destinati ad uno specifico scopo; la civiltà occidentale quindi, etnia tra le altre etnie, deve infine accettare di dialogare anche con saperi, simbolismi e significati a lei estranei.   

L’etnopsichiatria radicale di Coppo è un metodo inclusivo e costruttivista, dove non tutto è equivalente e dove l’esistente è frutto di costruzioni e decostruzioni storiche e collettive, in rapporto con uno specifico ambiente. In questa visione ogni posizione può legittimarsi senza prevalere sulle altre, e il giudizio di valore potrà essere dato solo in funzione di ciò che è in grado di generare, di ciò che essa fa fare. La radicalità sta nella profondità di attingimento e nel ritorno ad una dimensione più universale e generativa dello sguardo di chi cura.

L’etnopsichiatria guarda le comunità umane come laboratori diversi dove si cercano soluzioni per gli stessi problemi e “osserva la parte che in ciascuna di esse è riservata ai dispositivi di presa in carico del dolore che non trova nel corpo le sue principali ragioni: quella che è detta da noi sofferenza psicologica o dolore morale. Questi dispositivi sono espressioni della funzione generica diritualizzazione del disordine”.[2]

Radicalità della cura 

Qualcosa ha sconvolto l’equilibrio della persona portando sofferenza psichica, disordine, scompiglio, producendo la rottura di equilibri individuali, relazionali e sociali. È qualcosa di immateriale, una forza che diventa padrona e fa fare al di fuori della volontà. L’etnopsichiatria guarda agli effetti dell’invisibile, lo osserva e ascolta attentamente, lo interroga cercando di scoprirne il nome, per poi valutare le cure che dovranno servire a ricondurre ad ordine il “disordine della sofferenza che isola, contesta, disattiva”.[3] Perché possa esserci cura bisogna quindi conoscere queste forze invisibili, saperle invocare, essere in grado di dialogarci, comprenderne i linguaggi, gli scopi, le forme che possono assumere per metterle al lavoro e ammansirle.  Chi sa fare questo è uno specialista delle cose nascoste, sciamano, psicanalista, guaritore, sacerdote, stregone, pronto a negoziare con tutte quelle forze che trascendono l’individuo, capace di intervenire con i linguaggi del rito, della preghiera, del sogno; egli, ritualizzando il disordine, tra rispetto e timore, cerca di trovare un nuovo ordine nelle cose, accettando il mistero ma senza rimanere perciò inattivo.

I dispositivi di cura occidentali, in particolare quelli psicanalitici, per cercare una cura invocano l’inconscio come unico, vero e legittimo invisibile operante negli esseri umani, ma parlare d’inconscio può non avere più senso, laddove le forze immateriali che fanno fare assumono forme e significati molto diversi. 

Tanti inconsci e non uno solo quindi, molteplici sguardi sulla stessa sofferenza, molti specialisti delle cose nascoste i quali, insieme, come equipe, possono anche sinergicamente operare per trovare la cura.

Afferma Coppo che le medicine della psichiatria, gli psicofarmaci, sono strumenti materiali intenzionalmente costruiti e somministrati perché abbiano effetto sulla componente immateriale della persona, la psiche (sempre agendo però sulla componente materiale), ma aggiunge che in questa definizione ricadono anche “molti diversi oggetti e sostanze messi in campo da altri specialisti, quelli che da tutti i popoli sono incaricati di prendersi cura delle cose nascoste”.[4]

Da tale constatazione Coppo muove una critica alla farmacopea occidentale che per interessi economici e di supremazia culturale e tecnica, continua ad imporre modelli di cura basati su una netta separazione tra corpo e mente, perpetuando la disgiunzione dell’essere dalle forze sovrapersonali del mondo, da dei e spiriti invisibili, “contribuendo a costruire esseri fatti di molecole elementari da cui dipende la qualità della loro vita, spedendo gli umani in un divenire chimico”.[5]

Radicalità della relazione

Ebner, maestro dialogista afferma nei suoi diari: “Solamente quando l’io ha trovato il suo tu – e l’io cerca il suo tu perché esiste veramente soltanto nella relazione a lui – , allora solamente si attua la vera e giusta “oggettività” nel rapporto dell’uomo al mondo”.[6]  

La filosofia, ben prima di ogni psicologia, ha da moltissimo tempo dichiarato che lo statuto ontologico fondamentale dell’essere umano è relazione. È bene quindi che finalmente si ricerchino le implicazioni di tale realtà in ogni ambito di cura dell’umano, e che si osservi con molta attenzione il profondo valore che essa ha: la relazione primaria d’attaccamento tra madre e figli; la relazione sociale tra individui; la relazione con le forze del mondo che trascende il singolo, relazione che diventa società e cultura; rete transpersonale dove il singolo è membro di un corpo collettivo, dove tutto è connesso, in quanto, come afferma Menarini, “impersonale collettivo che attraversa la nostra identità più intima senza che il nostro potere cognitivo possa minimamente concettualizzarlo”.[7]

Le forze che convoca lo specialista delle cose nascoste sono quelle che la rete culturale di appartenenza riconosce, attraverso suoi simboli e riti, suoi linguaggi, segni e significati nell’ordine dei rapporti che trascendono l’individuo stesso e che lo inscrivono in universo collettivo all’interno del quale l’equilibrio spezzato può essere compreso e riordinato. 

La concezione antropopoietica che vede la costruzione dell’identità strettamente connessa al rapporto con l’ambiente in cui vive la persona, in una circolarità costruttiva tra personalità e cultura, ci parla di una rete che, a partire dalla neotenia umana, forma legami di reciproca sussistenza nella consapevolezza della necessità dell’altro. 

Siamo reciprocamente dipendenti e attaccati ad una infinità di oggetti materiali e immateriali che “ci fanno fare”, da molti dei quali dipende anche la nostra sopravvivenza. Nella dimensione etnopsichiatrica, la consapevolezza della condizione dipendente e transpersonale della persona, promuove forme di cura che tendono a ristabilire i legami laddove sono recisi, a nutrire le connessioni che edificano l’essere e a sciogliere e sostituire quelle che lo parassitano, nella certezza che nessuno può sopravvivere fuori dalla rete. 

Questa dimensione immateriale, secondo Coppo, ha assunto forme di rappresentazione molto variabili all’interno di diverse culture; perciò, propone la necessità di un sistema di concettualizzazione che ne tenga conto, affinché si possa rispondere in modo adeguato, coerentemente con il contesto di appartenenza dell’individuo.

L’etnopsichiatria radicale può farlo perché vuole muoversi verso il riconoscimento delle differenze per una loro coesistenza dialogante, in opposizione ad una concezione verticista della verità presunta universale, che è in realtà il prodotto di uno specifico gruppo, costruito all’interno di una particolare storia. L’antropologo Ernesto De Martino, a proposito del riconoscimento delle differenze, a partire dallo “scandalo” provocato dalla presenza dell’altro che insiste nel porsi come diverso, invita a procedere ad una doppia tematizzazione della propria storia e della storia dell’estraneo, considerandole come “due possibilità storiche di porsi in quanto uomo dal cui fondo anche ‘noi’ avremmo potuto imboccare la strada che conduce all’umanità aliena che ci sta davanti… In questo senso l’incontro etnografico costituisce l’occasione per il più radicale esame di coscienza che sia possibile all’uomo occidentale”. [8]

Voler dare più spazio alla voce del paziente e ai dispositivi di cura del suo gruppo di appartenenza significa accettare zone d’incertezza epistemologica, unica strada affinché si possa parlare di psichiatria democratica e plurale, e si possa davvero attuare una visione metaculturale e una complementarità d’approccio nella pratica clinica, così come proposto da Devereux. Ciò vuol dire lasciar coesistere diverse letture del mondo e diversi modi di curare, per ciò di cui il paziente ha bisogno in quel momento in quella determinata situazione.

L’etnopsicoterapeuta è colui il quale sa tollerare questa incertezza perché riconosce la maggiore forza e complessità della molteplicità dei mondi e dei suoi dispositivi di cura; mondi che sa di dover convocare e con i quali deve essere in grado di dialogare: si tratta di far spazio, di non saturare la situazione con propri significati e spiegazioni, muovendosi così, come afferma Tobie Nathan, verso una reale pluridisciplinarietà complementaristica

Concludo questa breve riflessione direttamente con le parole di Coppo che, a mio avviso, racchiudono in modo semplice il grande valore dell’etnopsichiatria, sia nella sua visione metaculturale, sia nel suo essere radicale anche nelle domande scomode che è in grado di proporre, senza mai smettere di cercarne le risposte.

“Come curare senza aggiustare per riduzione, come pensare e alleviare il dolore senza negarne il senso, senza separarlo da ciò che lo circonda? […] Nell’ultimo decennio ho partecipato con grande entusiasmo al divenire dell’antropologia medica e dell’etnopsichiatria. Finalmente veniva fatta luce sui meccanismi collettivi, sociali e culturali che partecipano alla messa in forma del dolore e alla costruzione delle sindromi, in particolare quelle psicopatologiche. Finalmente venivano studiati i nessi tra le qualità dei diversi ambienti e le visioni del mondo, gli ideali di salute, le forme di malattia, le modalità di cura adottati dai gruppi umani che li abitano. Finalmente la diversità culturale era rispettata e trattata come una risorsa collettiva, che arricchisce la specie alla quale tutti apparteniamo. Finalmente c’era chi era disposto a mettere davvero alla prova il proprio saper fare confrontandolo lealmente con quelli espressi da altre tradizioni, considerate con il rispetto che meritano”. [9]


[1] Coppo, P., Le ragioni degli altri, Raffaello Cortina, 2017, pg.19.

[2] Ibidem pg.56.

[3] Ibidem pg.54.

[4] Ibidem pg.130.

[5] Ibidem pg.148.

[6] Ebner, F., Parola e Amore, Rusconi, 1983, p. 57.

[7] Menarini, R., Neroni, G.Neotenia. Dalla psicoanalisi all’antropologiaBorla, 2002, pg.78.

[8] De Martino, E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 2002, pg.391.[

[9] Coppo, P., Le ragioni del dolore. Etnopsichiatria della depressione, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, pp.8-9.

Photo by Periagogè.