Ogni ambito relazionale nel quale esiste una continuità d’interazione attorno alla condivisione di un progetto, sviluppa inevitabilmente attriti di diversa natura. Chiunque voglia garantirsi tale continuità assieme ad un buona qualità relazionale, dovrà essere quindi in grado di rispondere in maniera adeguata alle diverse situazioni conflittuali che da questi attriti solitamente emergono. La gestione del conflitto interpersonale è però molto complessa e dai risultati incerti, anche per chi ha buone competenze relazionali, psicologiche e professionali, vista la facile confusione che può nascere tra vissuti emotivi, tratti di personalità, motivi concreti, motivi simbolici, fatti, interessi, ruoli e così via.
La sanità, la complessità e l’intelligenza di ogni sistema umano è proporzionale alla sua capacità di gestione armonica del conflitto: esso infatti ha una sana radice evolutiva, ma visto che non è raro che degeneri in qualcosa di insano e distruttivo, è importante saper gestire la sua complessità nel modo più armonico e più ampio possibile. Sicuramente la sgradevolezza che il conflitto porta con sé rende tutto più difficile, perché invita ad una velocità che può scadere in fretta, evoca soluzioni palliative, difensive o nel peggiore dei casi violente e vendicative. Tuttavia, tale sentimento obbliga a non distogliere l’attenzione malgrado la voglia di fare altro, e segnala sempre la necessità di un cambiamento sulla base di un disagio non più tollerabile.
La richiesta che solitamente viene avanzata nei contesti lavorativi fa capo a due diverse necessità:
- essere aiutati nella gestione di situazioni di conflittualità aperta tra pari o tra capi e collaboratori che influenzano palesemente in modo negativo le attività e che non trovano vie d’uscita autonomamente;
- acquisire competenze specifiche per la gestione di contesti ad alta complessità dove gli aspetti comunicativi e relazionali hanno un grande valore per la conduzione ottimale del lavoro.
In entrambi i casi esistono dei limiti d’intervento, alcuni rimovibili altri no, limiti oggettivi che è necessario rintracciare e considerare seriamente. Infatti tracciano spesso dei confini oltre i quali non ci è consentito andare, obbligando o ad una ridefinizione delle strategie d’intervento oppure ad una presa d’atto dell’impossibilità a procedere con i mezzi a nostra disposizione.
L’approccio al conflitto del quale parlo è frutto di studi da me condotti nell’arco di due decenni sia su gruppi d’appartenenza che d’apprendimento – famiglia, scuola, lavoro. In alcuni di questi ultimi contesti ho avviato processi formativi per la gestione della complessità interattiva e del conflitto, fondandomi su principi della teoria dei sistemi applicabili alle relazioni umane e utilizzando anche i riferimenti metodologici della Normodinamica, con il fine di favorire la comprensione di aspetti cognitivi ed emotivi della relazione attraverso esperienze corporee ed analogiche.
Perché l’approccio sistemico
Nella sistemica l’attenzione viene posta su ciò che non è riconducibile in modo sommatorio e di causa-effetto al semplice insieme delle parti: una scatola contenente mele o un gruppo di persone anagraficamente intese formano un insieme, le cui caratteristiche sono quindi immediatamente riconducibili a quelle dei suoi elementi la cui natura è omogenea, mentre una squadra di lavoro è un sistema, così come un corpo vivente o una famiglia sono sistemi. L’interesse viene in tal caso completamente rivolto a ciò che l’interagire dei diversi componenti produce, laddove la strategia dell’isolarli e dello studiarli separatamente o non è attuabile o non dà luogo ad alcun risultato. In sintesi un sistema è qualcosa avente una propria identità e forma, che è altra cosa sia rispetto ai suoi elementi sia rispetto alle interazioni tra essi.
La visione sistemica nasce quindi dalla necessità di avere schemi di riferimento utili per comprendere la complessità e per poter agire su di essa in modo efficace. Ci permette di operare in modo realmente creativo, perché valutando la totalità emergente, ci aiuta ad ideare usi per risolvere i problemi e ad uscire dalla rigidità delle definizioni funzionali (un bicchiere serve solo per bere o un martello per piantare chiodi): ci sono infatti infiniti modi di usare un oggetto in funzione del contesto, dopo che l’avrò svincolato dalla sua funzione primaria (un bicchiere può essere un ottimo portacandela). Se proviamo ad immaginare come tale attitudine possa essere applicata anche agli esseri umani, appare evidente a quali ampiezze di analisi e d’intervento c’introduce. Infatti relativamente alle procedure di risoluzione dei problemi, la sistemica è orientata a trovare soluzioni intervenendo oltre che sulle variabili anche sulle leggi che regolano il processo intero. L’importanza di quest’ultimo principio la si comprende bene proprio quando parliamo di gestione dei conflitti: ogni «gioco» ha le sue regole, ma quand’esso diventa insano, ripetitivo, insensato e generatore di sofferenza, è necessario a volte cambiare il gioco stesso, cioè le leggi che lo regolano e le funzioni che all’interno di esso si sono irrimediabilmente irrigidite.
La totalità integrata
Come già accennato, in un sistema le proprietà che emergono dall’interazione delle parti sono qualità che nessun elemento detiene singolarmente e sono il risultato della loro totalità integrata. Un’orchestra può essere un buon esempio, ma basta pensare al proprio organismo per comprendere tale complessità: dalla corporeità biologica alla coscienza il salto è evidente. Deconnettere le parti tra di loro significa far cessare le proprietà che definiscono il sistema stesso, infatti quando uno o più elementi perdono il senso assunto all’interno di una globalità connessa e comunicante, prevarrà il caos: in un’orchestra sarà rumore fastidioso prima del silenzio; in un gruppo di persone vedremo l’espressione di una babele di significati individuali incomunicabili prima di un suo scioglimento; in un organismo vivente vedremo emergere malattia fino alla morte.
Per comprendere il comportamento di un sistema vivente dobbiamo quindi riferirci al contesto d’insieme e non solo alle singole proprietà delle parti. In tal senso per comprendere la reale natura di alcuni conflitti è necessario spostare l’attenzione definitivamente sulle qualità emergenti dall’interazione in atto tra tutti gli elementi e non soffermarsi esclusivamente sul comportamento dei singoli avulso dal contesto nel quale nasce. Da questo punto di vista risulterà quindi banale, errato, se non ingiusto considerare causa di un conflitto il comportamento di una singola persona, anche se esprime aggressività esplicita, potremmo accorgerci da una più accurata osservazione, che essa nasce in risposta alla passività ottusa e ripetitiva di qualcun altro, a sua volta generata dalla confusività approssimativa di un altro ancora e via dicendo. Ad una valutazione finale potremmo constatare un perfetto, anche se incomunicabile, accordo di tutti nel tentativo maldestro e inefficace di cercare una soluzione ad un problema reale che in modo diverso li coimplica in una interazione circolare, dove non è più possibile trovare un vero punto d’inizio. Ciò non significa che il contesto sia sano, semplicemente che avrà prodotto regole interattive necessarie al suo mantenimento. Un comportamento può quindi essere del tutto sensato, per quanto inconsueto e ai nostri occhi inaccettabile, all’interno di un contesto che lo richiede e lo giustifica, oppure completamente inadeguato al di fuori di esso. Esistono ad esempio contesti militari che premiano comportamenti aggressivi e autoritari all’interno di rete relazionali altamente gerarchizzate, che potrebbero essere considerati perfettamente adeguati per situazioni di guerra, ma che sono sicuramente inammissibili in un’azienda o in una famiglia. Sappiamo anche perfettamente che molte regole di buona educazione fanno riferimento a precisi contesti culturali, fuori dai quali non hanno più lo stesso valore: è buona usanza per un giapponese far rumore con la bocca quando mangia una zuppa e maleducazione soffiarsi il naso in pubblico.
L’inclusione dell’incertezza
Perché un gruppo possa dirsi evoluto e quindi operare in ambiti di alta complessità dovrà garantire a tutti i suoi membri la migliore espressione dell’intelligenza e della creatività individuale assieme alla diffusa percezione che l’intelligenza interattiva espressa dal gruppo sia maggiore di quella del singolo. Inutile dilungarsi sulla rarità di tale eventualità e sulla difficoltà che comporta raggiungerla stabilmente, ma quando ciò accade l’alta qualità dei risultati appare evidente a chiunque: la manifestazione di questo principio è strettamente correlata alla capacità di gestione armonica del conflitto.
Il processo di costante rinnovamento creativo di un gruppo avviene attraverso il variare del rapporto tra le tendenze alla stabilizzazione delle soluzioni già trovate e quelle al cambiamento, con equilibri raggiunti a favore di quest’ultime. Solo lo squilibrio del rapporto tra i due dinamismi può produrre un reale cambiamento, ed in tal senso un gruppo può essere detto «sano» quando è in grado di perdere la propria stabilità e di recuperarla riorganizzandosi su nuove basi. Sono esattamente questi i momenti nei quali si può sviluppare una forma di conflitto evolutivamente sano: la sua risoluzione armonica dipenderà perciò dal grado di tolleranza dello squilibrio momentaneo e della condizione di incertezza che sempre porta con sé.
Armonizzare il conflitto significherà quindi:
- avere la capacità d’includere e di comprendere la crisi che nasce dallo squilibrio e dalla spinta al cambiamento;
- accettare la momentanea destrutturazione del sistema, senza perdere le due spinte fondamentali di stabilizzazione e cambiamento:
- saper cercare una soluzione che possa garantire a tutti il massimo di differenziazione e di coesione possibili in quel dato momento.
Non c’é processo d’apprendimento né di cambiamento senza una destabilizzazione degli equilibri raggiunti e senza la capacità di integrare un nuovo equilibrio ad un livello più evoluto. Ogni vero processo di cambiamento prevede un apprendimento, così come ogni apprendimento profondo porta con sé un inevitabile cambiamento. Il conflitto inteso in questi termini premette, indica e prepara un cambiamento necessario per accogliere le differenze emergenti all’interno di un nuovo equilibrio coesivo, ed obbliga ad un nuovo apprendimento anch’esso necessario all’inclusione ed alla gestione delle qualità che stanno emergendo.
Tale movimento dialettico incontrerà molti impedimenti dovuti a diversi fattori tra cui la difficoltà a lasciare un equilibrio raggiunto per raggiungerne uno nuovo e la non preparazione dei membri del sistema ad accogliere ed affrontare il conflitto che ne deriva, in quanto spesso accompagnato da sofferenza. La capacità o meno di tollerare una disorganizzazione temporanea in vista di una nuova stabilità, è ciò che definisce il grado di flessibilità del sistema, e quindi la sua capacità di produrre la crescita operativa, creativa e psicologica di tutte le persone che vi appartengono consentendo la coesione di ognuno dei membri assieme alla trasformazione delle regole d’associazione. È rigido quel sistema invece che si oppone ad un cambiamento o che non è in grado di sostenerlo, per il mantenimento della coesione e dello status quo raggiunto.
Prima o poi, se tale rigidità si esaspera, un sistema così fatto arriverà ad un punto di rottura dove il conflitto molto probabilmente emergerà in maniera violenta e sintomatica, cioè più incline a distruggere che a trovare vere e proprie soluzioni. Il conflitto ha quindi una sana matrice evolutiva che segnala sempre esigenze d’integrazione e di cambiamento e che è bene saper cogliere ai suoi esordi prima che tale spinta si perda.
Cosa è possibile fare per armonizzare una situazione di conflitto, non ancora esasperata ma evidentemente irrisolta, e quali sono i limiti che un contesto aziendale può imporre?
Trasformazione e resistenza al cambiamento
Quando vogliamo comprendere una situazione di conflitto è necessario analizzare ciò che le interazioni producono su tre diversi livelli: tra le parti in causa, nel gruppo intero, tra il gruppo e gli altri gruppi ad esso connessi.
Già in questa prima fase esplorativa si incontrano delle difficoltà, in particolare rispetto alla disponibilità di tutte le parti in causa ad essere coinvolte: come abbiamo già visto, si tende ad attribuire ad un singolo evento o ad una persona la causa del problema, nella speranza che dopo averla eliminata tutto tornerà a funzionare come prima, se non meglio. Potere e disponibilità al confronto non sempre vanno d’accordo, così come più in basso si scende nella scala gerarchica e minore sarà la rinuncia alla delega a chi invece opera in posizioni di maggiore responsabilità. Laddove il committente insisterà nell’operare su singoli elementi, imponendo rigide cesure nell’analisi dei tre livelli sopra elencati, difficile sarà operare per un vero cambiamento, perché viene richiesto di correggere un ipotetico malfunzionamento senza però poter indagare seriamente e sistemicamente sulle sue cause. È comprensibile che a volte non ci sia la disponibilità ad un confronto, così come è comprensibile la diffidenza verso il consulente e la sua neutralità. È infatti buona regola non occuparsi di situazioni nelle quali non si è conquistata una reale fiducia e concordato un chiaro processo risolutivo con tutte le persone coinvolte e non solo con il committente. Quindi buona parte del lavoro iniziale sta proprio nel tentativo di comprendere se è possibile operare e a quale livello, se esiste disponibilità al confronto e a cercare soluzioni condivise che coinvolgano tutti gli interessati e non solo uno o alcuni elementi. Il tentativo di superamento di questa prima resistenza è parte del lavoro sistemico ed è già un buon passo in avanti verso la ricerca di una soluzione e di un cambiamento.
Quindi possiamo concludere che il livello di flessibilità, differenziazione e coesione che un gruppo è in grado di esprimere, determina la capacità o meno di:
- gestire armonicamente i conflitti;
- apprendere;
- esprimere creatività;
- collaborare con efficacia;
- stabilire un buon clima relazionale;
- rispettare le procedure operative;
- riconoscere i ruoli;
- risolvere i problemi;
- operare per il cambiamento.
Ogni qual volta dobbiamo verificare il buon funzionamento di un gruppo e valutare il suo grado di complessità, sarà bene indagare quindi con attenzione, quale flessibilità, livello di differenziazione e intensità di coesione esso esprime, stando ben attenti sia alle manifestazioni più esplicite sia ai segnali sistemici, spesso più difficili da cogliere. Sicuramente un processo formativo mirato alla costruzione di competenze utili per la gestione della complessità interattiva, dovrà intervenire con molta cura sulla persona e sul gruppo tenendo ben presenti questi tre fattori, con il fine di renderli consapevoli, ben strutturati, sinergici e sempre operanti.
(Articolo già pubblicato sulla rivista AIDP- Direzione del Personale, 2008 n°4)
*Antonio Ricci, psicopedagogista, fondatore e presidente del Centro Studi Periagogè, mediatore familiare sistemico-relazionale, formatore di Normodinamica, consulente per Open Sky Formazione.