La comunicazione d’essere

di Fabiana D’Onofrio *

Recentemente sono stata invitata a tenere una lezione nell’ambito di una formazione scientifica rivolta a professionisti dell’industria farmaceutica. Il titolo che mi hanno proposto suonava così: “Empowerment: consapevolezza personale per una migliore efficacia nella relazione”. Una piccola isola in un mare di numeri, formule chimiche, principi attivi e risultati terapeutici.

Ho iniziato a prepararmi e soprattutto a cercare il messaggio chiave da proporre ai miei studenti. Quella parolina “efficacia” nel titolo richiama un’idea di tecnica e so bene che spesso la domanda implicita in questi casi riguarda il desiderio di dotarsi di modalità, strumenti e sistemi, in grado di garantire un risultato attraverso un approccio di causa ed effetto. Imparare e saperne di più su come fare. Cosa dobbiamo ancora insegnare riguardo alle tecniche? Ma soprattutto, come possiamo ancora credere che la chiave in questi ambiti di studio sia una tecnica?

Preparo dunque il mio intervento decidendo di impegnarli in una riflessione sulla differenza tra prestazione e relazione, partendo dalle due forme di comunicazione orientate rispettivamente ai contenuti e alle conoscenze piuttosto che all’essere.

Nella prima forma di comunicazione l’obiettivo è diretto alla trasmissione e allo scambio di contenuti e messaggi. L’interesse è rivolto alla quantità e alla qualità dei saperi, con una scarsa preoccupazione a chi sia il ricevente e a come questo utilizzi tali saperi. Si può sviluppare puntando alle tecniche. Il focus è sulla prestazione. E’ la forma di comunicazione sulla quale la formazione aziendale lavora di più e sulla quale le organizzazioni sono abituate a ricevere “istruzioni per l’uso”.  Questo ambito di studio ha dietro di sé nomi illustri in termini di letteratura e in questo senso va spiegato e approcciato con metodo e serietà.

Esiste tuttavia una seconda forma di comunicazione che potremmo definire comunicazione d’essere il cui obiettivo è l’incontro con l’altro all’interno di uno spazio dialogico e inter-soggettivo. L’interesse è rivolto alla qualità della relazione e all’altro in quanto interlocutore privilegiato, con una attenzione per i contenuti veicolati nel rapporto e al loro senso. La prestazione arretra sullo sfondo e lascia il posto alla relazione. Nessuna comunicazione di conoscenza può sostituire una comunicazione d’essere, tuttavia le due forme sono entrambe necessarie e interconnesse.Nella comunicazione di essere, la persona assume una posizione centrale, si veicolano conoscenze, idee e contenuti tenendo conto di chi si ha di fronte, delle sue modalità di rapporto, di conoscenza, d’apprendimento. Si mira a uno scambio che coniughi esperienza – relazione – conoscenza. Chi comunica si rende fattore causante e attivo. L’attenzione è posta su cosa viene scambiato e su cosa diventiamo mentre avviene lo scambio. [1]

Se ci interessa accedere all’ambito della comunicazione d’essere è necessario conoscere i procedimenti e le tecniche della pragmatica comunicativa interpersonale per inserirsi con meno timore e maggiore scioltezza nei complessi territori di questo ambito comunicativo. Tuttavia, nessuna tecnica per quanto scaltra, nessuna prassi oggettiva, nessuna conoscenza psicologica, può sostituire la ricchezza del rapporto e con esso i successi ottenibili a ogni livello attraverso una relazione che passi per l’essere della persona e non solo per il suo fare.

Si tratta di guardare alla persona tutta intera, richiamando la sua possibilità di vedersi intera. L’idea di applicare una tecnica in un processo relazionale corrisponde ad avere un approccio frammentario, ovvero a pensare di potersi accostare guardando ad un pezzetto di quella complessità. Spesso le persone con le quali lavoro aprono interrogativi sul fatto di essere/sentirsi diversi al lavoro o nella vita. Si aspettano che io spieghi loro qualcosa sul perché di questa evidenza. Ma non è facile affrontare questo argomento, perché in fondo credo che corrisponda ad un’idea illusoria di potersi proteggere attraverso la rinuncia a parti di sé. Dietro a questa illusione si nasconde spesso un disagio legato all’identità professionale e alla difficoltà della persona di collocarsi in modo corretto rispetto al contesto e al ruolo. Il potere negativo che l’ambiente può esercitare sul singolo viene contrastato e combattuto attraverso una separazione che in qualche modo vuole rappresentare un “a me non mi avrai mai”.

Su questo tema, Paolo Menghi scrive: “Quando si parla di una persona falsa, non significa banalmente riferirsi al fatto che dica bugie, bensì al fatto che essa sia scissa, divisa. Che viva usando parti di sé differenti in relazione al contesto in cui si trova e alle persone con le quali entra in contatto; ma non in modo mirato all’evoluzione altrui, bensì allo scopo automatico di dividere gli altri e dividere se stessa ancora meglio e con minori rischi. Questo camuffarsi si nutre di qualunque tipo di energia, senza rispetto per la propria integrità. Pur di essere riconosciuti in una bella immagine, non ci si chiede di cosa ci si stia nutrendo, per cosa si preferisca vivere, dove si voglia andare; non definendosi quindi mai. E’ un modo di fare che può sembrarci comodo, ma questa ‘comodità’ fa calare l’intensità e ci rende progressivamente più meschini. E il falso avanza (…) ” [2]

Riguardo a questo, ho proposto ai miei attentissimi studenti una riflessione sull’importanza di potersi garantire autenticità, distinguendola dal senso di opportunità che il contesto richiede. Possiamo definire autenticità la capacità della persona di essere fino in fondo se stessa nella relazione con l’altro, senza fingere o recitare un ruolo. Parliamo quindi di autenticità intrapersonale,ovvero della capacità della persona di essere consapevole dei propri vissuti (sensazioni e emozioni) e dei propri pensieri e di accettarli come propri così come sono, e di autenticità interpersonale riferita alla capacità della persona di essere consapevole che non tutto quello che sente e pensa debba essere comunicato, ma che quello che sceglie di comunicare sia autentico e congruente con sé. In nessun modo considero dunque l’autenticità come condizione per un idilliaco scambio verginale, quanto piuttosto uno stato da cui partire e a cui tornare per garantirsi connessione con se stessi, nella complessità.

A questo punto la domanda che torniamo a farci è come tutto questo possa trovare uno spazio di significato e di senso in un contesto organizzativo. Riproponiamo dunque questioni già aperte (cfr. “Se Gorgia potesse rispondere: una riflessione sulla formazione aziendale” di Antonio Ricci su questo blog) e alla quale non possiamo dare risposte certe o comunque unilaterali. Da parte nostra rimane un interesse a non liquidare con semplicità una materia complessa, continuando a dirigere la nostra ricerca verso la possibilità di vedere l’intero piuttosto che le singoli parti. Questo implica la capacità di procedere contemporaneamente su più fronti con lo scopo di vivere la complessità come una indispensabile ricchezza e non come una sommatoria di cose. Va però detto che la visione d’insieme impegna e spesso non siamo disponibili ad accettare d’impegnarci al di là delle abitudini. “Siamo piuttosto legati all’idea dell’impegno finalizzato al disimpegno, ovvero un impegno orientato a gestire più potere in grado di garantirci la possibilità di disimpegnarci[3]. Interessante e rischioso paradosso.

Tornando ai miei studenti qualcuno di loro mi ha detto di aver trovato difficile la materia. I testi sulla pragmatica della comunicazione umana consegnati in lettura prima del nostro incontro hanno lasciato l’impressione che si trattasse di argomenti difficili. Del resto quando si parla di relazione, in quanto atto spontaneo al quale non poter rinunciare, spesso ci riteniamo già esperti, conoscitori per definizione. Ma non è così. Ho desiderato lasciare loro il senso della complessità della materia affinché smettessero di credere a facili promesse. Aspirare ad essere semplicemente più efficaci farà di noi delle persone qualunque. Come potersi assicurare dunque una buona qualità di presenza al di la di una buona prestazione?

Io comincerei da qui:

  • distinguere losservazione di un fatto dalla sua interpretazione per garantirsi neutralità;
  • sviluppare un osservatore interno in grado di guardare cosa accade mentre le cose accadono;
  • imparare a identificare quale bisogno e quale stato d’animo ci muove nella relazione con l’altro;
  • sospendere il giudizio: quando giudichiamo non ci interroghiamo più né su noi stessi, né sull’altro;
  • mantenere un atteggiamento aperto, orientato alla ricerca.

Tutto ciò, nel tempo, forse ci permetterà di cogliere la differenza tra prestazione e relazione e di impegnarci per favorire incontri edificanti con gli altri, senza artificiali separazioni di parti di sé.

 

[1] Cfr., E. Ducci, Essere e comunicare, Anicia, 2002, pp. 198 -202.

[2] P. Menghi, Figli dell’Istante, Normodinamica Edizioni, 2014, pag. 200.

[3] Antonio Ricci , supervisione equipe “Periagogè”, 2014. Da appunti personali.

 

(*)
Sociologa, formatrice e counselor. Titolare della Società Open Sky Formazione. E’ membro dell’equipe del Centro Studi Educativi e Pedagogici Periagogè, dove opera nel settore Formazione.