Comunicare è un rischio bello

di Antonio Ricci (*)

Qualche anno fa è velocemente passato per le sale cinematografiche un film del regista Lech Majewski, “The mill and the cross – I colori della passione”, ispirato ad un saggio di Francis Gibson. Con una forza rappresentativa unica il film riesce a farti entrare nei dettagli narrativi del magnifico quadro di Pieter Bruegel il Vecchio “La salita al calvario”.

Dalla visione di quel film e dalla lettura dell’articolo di Trachsel “Il bello e il brutto”, nasce questa mia breve riflessione sulla comunicazione.

Nella comunicazione sana tra due persone c’è sempre un soggetto che parla ed uno che ascolta, nell’alternanza precisa e fluida dei ruoli in una piacevole danza dai ritmi variabili. Nella comunicazione sana si parla per farsi capire, per essere riconosciuti e riconoscere. C’è svelamento, apprendimento, curiosità e scambio. Si comunica per bisogno di contatto, per amore di conoscenza, per gioco o per sopravvivenza.  Si comunica per insegnare ed imparare.

Quando ciò non accade si soffre e finché non si trova un nuovo ordine non ci fermiamo nel cercare, perché vogliamo comprendere ed essere compresi.

La parola ci rende umani. Parola pensata, letta, ascoltata, pronunciata o scritta.

La scrittura segnala la presenza della civiltà, la continuità culturale e storica. È parola rimandata, suono inciso non ancora pronunciato; discorso già compiuto che attende di rinascere; dialogo sfasato nel tempo e nello spazio; possibile equivoco di suono in quanto segno privato del corpo che l’ha pensato; seme di significati che possono germogliare all’infinito; traccia di saggezza o follia, orrore o meraviglia; ponte per il sacro, l’inutile, l‘eterno o l’abisso.

Amo la parola scritta e amo leggere. Scrivere m’impegna perché non sono agile ma mi aiuta a pensare. Mi costringe a cercare i significati più adeguati a dare forma alla mia esperienza, per portarla a compimento trasformandola in parola. È un’impellenza che nasce dal bisogno di arrivare all’altro, di fare chiarezza, di dare un nome alle cose, ai sentimenti, all’esperienza. La parola scritta può essere precisa, penetrante, misteriosa, inconsueta o poetica; può muoversi in modo del tutto imprevedibile ma, infine, se accolta, si lascia sempre intendere.

La parola scritta è bella anche per il segno grafico con il quale la possiamo tracciare così come per la libertà di pensare che ci concede. La parola scritta equivale al discorso silenzioso del pittore di fronte al suo quadro: ci vuole del tempo perché arrivi a compimento e possa essere significante; può bastare un’unica pennellata oppure possono volerci anni di lavoro. Ma una volta finito qualcosa ancora manca perché ogni cosa possa dirsi compiuta: qualcuno che lo guardi. Il quadro, come il testo scritto, perché parli è necessario che si manifesti a qualcun altro. In questo tempo dilatato, in questo spazio di non necessaria contemporaneità di presenza tra chi parla e chi ascolta c’è qualcosa di bello e d’importante. La distanza si colma attraverso il segno che diventa ponte, porta d’accesso al mondo di un’altra persona. Se si vuole passare quindi è necessario concedere qualcosa di noi e del nostro tempo, bisogna ascoltare, stare aperti a ciò che ci capita di fronte a quella proposta. Sta quindi a noi trovare la chiave.

Comunicare è un rischio bello, che si prende solo se si ha fiducia che qualcosa di prezioso ne sortirà: si rischia lo scontro se si cerca incontro. Rischio di andarsi a scontrare con l’altro e nell’impatto farsi male o fare male, oppure di rimanere del tutto indifferenti, di non capire nulla o fraintendere ogni cosa. L’incontro è un movimento sottile e caldo, che segna il passaggio dall’isolamento alla relazione.

Ci vuole un tempo adeguato per dire e capire le cose importanti, ce ne dobbiamo ricordare, soprattutto quando abbiamo la pretesa che ogni cosa, nel dirla, osservarla, leggerla o ascoltarla, ci sia chiara subito. Vogliamo che l’altro sia subito esplicito, definito, esposto, chiaro, visibile. Perché? E noi in cambio cosa concediamo? Sembra che a volte c’interessi di più stare al sicuro per avere l’immediato controllo della situazione. Sembra che il poter pensare: “so chi sei e cosa pensi” sia più importante di stare ad aspettare che l’altro si manifesti nella sua verità e differenza, rimanendo noi, al contrario, il più invisibili e anonimi possibile. Certamente stare in ascolto nell’incertezza è più difficile; fare domande per comprendere è difficile; entrare in rapporto con l’altro e la sua alterità estranea è più difficile, perché inquieta e ci obbliga a venire allo scoperto. Il conoscere richiede uno sforzo di sottrazione per togliere l’ingombro della nostra pretesa di sapere già; richiede la rinuncia al nostro tentativo di controllo della vita dell’altro, nello svelamento delle reciproche estraneità e differenze, assieme alle riconoscibili similitudini. Conoscere richiede che si guardi con la giusta attenzione al quadro intero, per comprendere i dettagli; che si sappia attendere che esso si sveli, nei tempi e nei modi che preferisce. Sono i tempi della relazione, imprevedibili, impegnativi, a volte contradittori e ambigui. Nelle relazioni importanti, per comprendere ed essere compresi, bisogna sapere sia attendere sia andar via, sia sollecitare.

Un vero cambiamento si manifesta soprattutto in una radicale trasformazione della struttura della propria comunicazione. Perciò se vogliamo sapere chi siamo è il caso di guardare alle nostre forme di comunicazione; se vogliamo sapere cosa e chi stiamo diventando è il caso di verificare come esse si stanno trasformando; se vogliamo partecipare attivamente al nostro cambiamento dobbiamo sforzarci di cambiare in profondità i nostri modi di comunicare.

 

(*) Antonio Ricci, psicopedagogista, presidente scuola “Periagogè”.