Manuale inapplicabile

Accettare l’assenza – I parte

“Oreste: – Un lungo apprendistato di dolore mi insegna molte forme di redenzione e ho imparato quando tocca tacere, quando tocca parlare. In questa circostanza il mio maestro celeste mi suggerisce di farmi ascoltare.

Il tempo che ci domina consumando purifica”.

Eschilo – Le Eumenidi

Telos:  tra compimento e nuovo inizio

Sono partito alla ricerca della mia Itaca molti anni fa. È il mio telos[1]: un lento ritorno a “casa”, a volte da solo, a volte in compagnia. Vita e viaggio sono analoghi, e in tal modo spesso la narriamo. Il viaggio personale, fatto di luoghi, persone e accadimenti, a volte diventa anche il viaggio del mito, dello spirito e della scoperta di sé, dove prevalgono le immagini interiori e i paesaggi dell’anima. Odissea, Argonauti, Divina Commedia, per citare qualche classico ma anche fiabe, miti e racconti di ogni tempo hanno cercato di narrare l’umano attraverso il viaggio.

Penso che, in fondo, la caratteristica che accomuna ogni viandante sia quella d’aver perso la via del ritorno a casa, esplorando così nel frattempo l’ignoto. Solo chi si è perso cerca la strada di casa, chi non si è mai mosso da “casa” crede invece di essere già giunto a destinazione. Tra i due, il secondo è quello più colmo di certezze e dogmatismi, mentre il primo tenta di mantenere la rotta tra approdi conquistati, molti dubbi e mete incerte.

Il nome Odisseo viene da odynè “colui che viaggia con dolore”, non un eroe quindi spinto unicamente dalla brama di sapere che segue “virtute e canoscenza”, ma qualcuno che in realtà si è perso e sta cercando di tornare a casa, affrontando con coraggio eroico e con dolore tutto ciò che si frappone tra sé e la sua Itaca, fra sé e sua moglie, il figlio, il vecchio padre, il cane, i suoi compagni di viaggio, la gente del suo paese. Tutta la sua vita intera.

Nascere è essere gettati nel mondo, afferma Heidegger, cioè l’uomo non si è messo da sé nella condizione di esistere in questo o quel mondo e, questo pensiero, se pensato fino in fondo, può essere disperante perché sappiamo che il mondo, nei nostri confronti, è del tutto indifferente e che la nostra posizione di nascita, sia essa culturale, economica, sociale o geografica, è del tutto casuale. Ci crediamo padroni della nostra vita quando poi ogni cosa ci ricorda che esistiamo tra tychè e anankè, sempre alla ricerca di un logos.[2]

Tutti sappiamo che esistiamo tra caso, destino e scelta sempre alla ricerca di un senso. Tutti abbiamo sperimentato la sottile angoscia che sorge ogni volta che impattiamo tale evidenza. Siamo in viaggio non per scelta ma in quanto gettati nel mondo, e può anche darsi che questa cosa non ci piaccia affatto, ma non c’è modo di sottrarsi né al viaggio né alla domanda di senso che l’accompagna: da che parte andare e per raggiungere cosa?

Procediamo a volte a caso, a volte seguendo segni, verso mete scelte e approdi cercati, tra ventura e sventura, tra piacere e sofferenza. Procediamo incontrando spesso sentieri che si biforcano, chiamati a decidere da che parte andare e quale strada lasciare, una scelta e una rinuncia: questa è la crisi. Edipo incontra suo padre Laio ad un trivio, non lo conosce e quindi non può riconoscerlo; lo uccide perché gli chiede il passo con arroganza, per futili motivi diremmo oggi. Dopodiché riprende il suo cammino. Come sia cambiata la sua esistenza da quel momento è storia nota e, potremmo dire, la strada che stava percorrendo, seppure identica nella direzione, in quel trivio ha mutato radicalmente senso e destino.

Su questa soglia mi siedo a volte a pensare, a valutare, a cercare segni della direzione da prendere, sapendo che non sempre è possibile tornare indietro, né è possibile sapere a priori cosa si troverà: a volte, in mancanza di indizi, si sceglie una direzione a caso oppure ad intuito; a volte si va avanti più decisi, grazie a segni trovati o già conosciuti. In ogni caso si va a vedere cosa c’è oltre il bivio, perché non si può rimanere troppo a lungo seduti in attesa di capire, rósi dal dubbio. Esploriamo perché abbiamo paura, quindi vogliamo conoscenza, ma cosa ci fa realmente muovere, l’amore o la paura della morte? Forse entrambe.

Trasformare il senso dell’esistere: è la ricerca di felicità e di benessere, oppure l’individuazione e il bisogno d’interezza? Conoscere per ribadire la propria convinzione rassicurante sul mondo, oppure conoscere per amore esplorando ciò che non si sa? Conoscere per evitare la paura cercando il simile, oppure per affrontarla accettando il mistero e il perturbante?

L’esperienza del dolore

L’esperienza del dolore – afferma Natoli – ci colpisce esclusivamente quando siamo impegnati attivamente nell’esistenza; se abbiamo il coraggio di calarci nel mondo, facendoci promotori di iniziative personali, incontriamo veramente le contraddizioni della vita e proprio nell’azione possiamo intraprendere il cammino della conoscenza.  Se non ci immergiamo totalmente nella vita e non l’affrontiamo con coraggio, autonomia, ‘autodirezione’, rinunciando alle regole altrui, non esistiamo realmente.  Si tratta del confine che separa l’irresponsabilità da una vita autenticamente responsabile.  Nel primo caso, non viviamo realmente; nel secondo noi stessi scegliamo la vita, e proprio in questo momento noi dichiariamo guerra. Rispetto alla nostra autonomia, l’altro diventa un nemico”.[3]

Nella mia professione incontro le persone solitamente proprio su questo limes[4] dove la strada scompare oppure si fa troppo confusa e intrigata, la direzione si fa incerta e la paura prende il comando. Le incontro nella crisi, anche se spesso è celata o rifiutata, nella richiesta di rimettere le cose apposto, di riportarle a come erano prima del dolore, ma il mio compito non è quello di dare soluzioni o esserlo io stesso; non è dare spiegazioni tranquillizzanti e fornire certezze su cosa sia giusto fare o non fare, né tantomeno costruire ponti, mettere cartelli o aggiustare sentieri. Questo il compito che ritengo d’avere: aiutare l’altro a riprendere il cammino verso il suo telos, che gli piaccia o meno; che mi piaccia o meno.

La crisi spinge ad una scelta, segnala la necessità di un cambiamento e la rottura di un equilibrio non più sostenibile. “Considerare le crisi di ogni genere come qualche cosa da sopprimere – afferma Nietzsche – è la ‘niaiserie (sciocchezza) par excellence’ e in generale è un’immensa stupidità. Nella grande economia dell’insieme della realtà, (nelle passioni, nei desideri, nella volontà di potenza), sono infinitamente più necessari di quella forma di piccola felicità rappresentata dalla cosiddetta ‘bontà’.[5]

Certamente in questa sosta può essere necessario lenire ferite e dare momentaneo conforto; può essere utile rinforzare muscoli e pensieri, aiutare l’altro a riconoscere debolezze e fragilità, ma bisogna aver la giusta misura di ogni cosa: cura, accudimento, rinforzo. Il cammino va comunque ripreso in completa solitudine, e c’è un solo kairos[6] per farlo. Il processo di crescita diventa quindi, usando una immagine evocata da Kierkegaard, uno starsi accanto ma seguendo strade diverse.

Educare deriva da educere, “trarre fuori, condurre” ma nasconde molte insidie ideologiche tra l’addestrare, il convincere, l’ammansire, l’indottrinare. Chi si è perso ha paura e da quel bivio, che lo chiama ad una risposta, potrebbe non volersi più muovere. Ma esiste una seconda possibilità: che debba, al contrario, fermarsi perché è giunto proprio lì dove doveva arrivare e non voglia accettarlo. Educere assume quindi un significato più profondo, diventa un trarre fuori dall’ambiguità, dalla paura di esistere nella solitudine e parzialità di ogni scelta; diventa un condurre verso l’accettazione di ciò che siamo destinati a diventare. Stare o andare sono solo parte del viaggio.

Quindi il mio compito, rimanendo nella prospettiva della paideia, è quello di indicare, così come credo debba essere quello di chi opera nella direzione della coscienza e dell’individuazione; indicare possibili direzioni, simboli e segni, fornire chiavi di lettura, condividere significati, evocare forze, dare eventuali indicazioni di percorso, fare domande, anche le più scomode, per problematizzare il viaggio; fornire occasioni di confronto e di elaborazione, consentire di discernere. L’obiettivo costante sta nel porre l’altro di fronte a se stesso, nella scelta che inevitabilmente dovrà fare. La sua scelta.

Questo stare di fronte a se stessi può essere drammatico, perché è ciò che sviluppa paure e ansie, ma attendersi un’esistenza tutta in discesa, priva di dolore, equivale a negare la vita stessa. Noi siamo il tragico che ha messo una maschera per continuare a cercare senso e gioia. Accettare questo vuol dire accettare la vita ed affermarla.

Lavorare per includere più mondo vuol dire amare la crisi in quanto segno di realtà vitale.

L’eroe-non eroico

Gli eroi e le eroine dei miti greci sono tragici, muoiono giovani in modi strazianti per poi diventare costellazioni, divinità, monti, fiumi. Vengono uccisi per mano divina o mano umana guidata dalle divinità, in ogni caso è sempre Anankè che agisce attraverso le sue figlie, le Parche che tessono la tela del destino di ognuno. Gli eroi muoiono per decretare la fine di un’era e l’inizio di una nuova; per porre un limite alla tracotanza e definire una nuova legge. Gli dei mettono confini, misurano limiti e li superano in continuazione e gli eroi sono paradossi e esempi, martiri e strumenti nelle loro mani. Ma ciò che più conta è che si ricordino i loro nomi: Egle, Aridela, Erigone, Antiope, Pallene, Medone, Oreste agitatore di cavalli, Perifante, Telemonio, Aiace, Pilemene, Teutrante che aveva sembianze di dio, Fereclo, Archiloco, Glauco, Ettilio vibratore di lance. Nell’Iliade ne ho contati 184 e sono solo una piccola parte.

Ma a me non piacciono gli eroi della retorica guerrésca e civile, sono esempi di sproporzione e di sacrificio tanto cari alle ideologie totalitarie. L’atto eroico per eccellenza è sacrificare la propria vita per l’altro o per il bene collettivo. Questa cosa ci può commuovere forse vedendo qualche film, ma credo sia solo una fantasia che nasconde una pretesa e un’atrocità. Prima di delirare sacrifici di vite e atti di salvezza automutilanti, credo si debba provare a visualizzare atti meno eclatanti e molto più difficili, atti di rinuncia per la vita e non contro di essa, per i quali non ci saranno monumenti o medaglie, né morti strazianti e divinità coinvolte; atti che è possibile nessuno noterà, per i quali il proprio nome non verrà ricordato e nessuno scriverà targhe o poemi.

L’eroe invisibile senza testimoni, l’eroe non-eroico, è la persona che sa rinunciare al proprio tornaconto a discapito di un altro; è colui che pur potendo vincere, perché né avrebbe il potere, è capace di fare un passo indietro di fronte alla visibile sproporzione delle forze tra sé e l’altro, cosciente del danno che ne deriverebbe. Significa non abusare, non sfruttare, non danneggiare.

La virtù dell’eroe greco non è quella dei filosofi, né quella dei santi cristiani: cercavano il coraggio certamente, ma quello di dare la morte e di morire. Poteva aver senso in un’età arcaica dove la forza era la legge, dove la natura ancora prevaleva sulla cultura e le passioni annientavano il pensiero, ma da quella condizione bisognava evolversi umanamente e socialmente, cercando una alternativa alla faida, alla vendetta e all’omicidio come mezzi di soluzione delle controversie.

A che punto siamo quindi nella nostra pretesa di essere più evoluti e civilizzati?

Quali caratteristiche dovrebbe avere la persona che guarda al futuro, l’uomo e la donna nuovi?

Nelle tragedie greche il rapporto tra dolore e passioni, tra destino e scelta è ben rappresentato. Nelle Eumenidi di Eschilo vediamo l’affermazione del più alto valore del nomos, la legge, rispetto alla nemesi,[7] l’ininterrotto circuito di sangue della giustizia vendicativa. Vediamo uomini e donne soverchiati dalle forze della natura e dal destino, responsabili e innocenti insieme, incastrati in un doppio vincolo: qualunque sia la scelta, avrà sempre sia esiti vincenti sia esiti nefasti, e si paga sempre un conto.

Agamennone, re che governa un popolo, chiamato a decidere tra la guerra e la vita della figlia. Padre amorevole e governate equo. La divinità ha deciso, lui obbedisce e paga il prezzo umano dello strazio senza consolazione.

Clitemnestra, moglie ingannata che vede la figlia Ifigenia andare sacrificata per colpa del padre e di una guerra assurda, un massacro che durerà dieci anni a causa di uomini impazziti e donne traditrici.

Oreste, suo figlio, chiamato a ribilanciare il lato umano, uccide la madre e il suo amante, per vendicare l’omicidio del padre e riaffermarne l’innocenza di fronte al popolo e agli dei.

Nessuna vera giustizia, tutti perdono qualcosa e lo strazio di ognuno è infinito. Le Erinni chiedono sangue per il sangue materno. Apollo e Atena chiedono che si fermi tutto ciò affermando una legge più difficile che apre alla civiltà: il Tribunale.

Gli eroi epici affermano un ethos delle forze e del coraggio di morire e di uccidere. I personaggi della tragedia incarnano il doppio vincolo della responsabilità e dell’innocenza e pagano la pena delle conseguenze delle loro azioni per generazioni. La legge, la gentilezza e la devozione si contrappongono alle forze della vendetta e del sangue.

Nelle Eumenidi si afferma l’ethos della legge sulla forza, per la vita e la convivenza, ma affinché accada le forze distruttive devono essere viste e riconosciute, ascoltate e comprese, e non vanno lasciate agire. Va dato loro un posto nella polis e va loro richiesto con umiltà di non distruggere; va chiesta pietà inginocchiandosi al loro altare. Eschilo narra la nascita di una nuova etica della convivenza nella polis, che pensa e dialoga con le forze profonde, ma non le lascia prevalere.

Noi, in questa eloquente rappresentazione, possiamo intravedere una paideia che vuole si compia lo stesso processo all’interno dell’individuo: luci e ombre devono poter dialogare perché le seconde non prevalgano e al contempo possano contribuire alla costituzione dell’intero, senza fratture, senza illusioni. Le forze distruttive vanno ricondotte a ragione ma, dopo averle riconosciute, bisogna saper rinunciare al loro potere.

Bisogna rinunciare al proprio tornaconto egoico e psichico.

Ci sono tornaconto materiali e tornaconto psichici immateriali ma altrettanto reali. Con questi secondi è più difficile confrontarsi perché la loro natura è più inconsapevole e nascosta, ma il loro potere più grande e attivo. Molte sofferenze possono nascere da vantaggi psichici pretesi o estorti, inconsapevoli o meno, che possono dare il via a sfruttamenti di ogni natura, dai più innocui fino agli estremi dell’abuso. Il problema è l’inconsapevolezza o la disonestà, non il desiderio di ottenere un vantaggio con il minimo delle forze. Il problema è preferire in ogni caso il proprio piacere anche se questo produrrà sofferenza e perdita in qualcun altro.

Ci sono molti modi come tale potere può essere esercitato nella relazione; modi per ottenere vantaggi senza pagarne il prezzo e senza che l’altro possa consapevolmente dare il proprio consenso o meno.

Se si vuole vivere da svegli, il tornaconto psichico credo sia il punto sul quale mettere la propria attenzione, perché rispetto ad esso si gioca una importante battaglia per la propria umanazione. Significa far prevalere una dimensione di coscienza sui propri bisogni narcisistici e nevrotici, accettando l’angoscia e lasciando che il dolore assuma senso.

Significa riorganizzare nostre relazioni sulla base di nuovi significati. Solo così la sofferenza può essere pensata. Solo così può poi diventare parola, scelta, azione.

*di Antonio Ricci, dottore in Scienze dell’Educazione e in Psicologia clinica, fondatore della Scuola di Normodinamica – Periagogè. Ho una formazione sistemico-relazionale e normodinamica,  nel mio lavoro psicopedagogico faccio riferimento alla teoria dell’attaccamento, alla psicologia del Sè e delle relazioni oggettuali. 


[1] I termini originali rimandano a significati molto più complessi della loro semplice traduzione. In telos è implicita una nozione dinamica di compimento e una ciclicità del tempo in rapporto alla concezione di Physis, la Natura, la Vita nella sua volontà infinita di ribadire se stessa. Telos è insieme “perfezione”, “compimento”, “morte”.  È collegato al paradossale concetto greco di felicità: in quanto qualità totale dell’uomo, occorre aspettare che la vita di quell’uomo si compia con la morte, perché si realizzi. La vita si compie quando realizza la sua forma perfetta, ma in questo compimento cambia forma, perciò non è il raggiungimento di una fine ma l’espressione di un continuo divenire, sempre nella stessa direzione. Questo è il telos. Si distingue da skopos, traducibile con bersaglio, il quale come telos è la determinazione del fine, ma più direttamente collegato alla volontà personale e a qualcosa di preciso che deve accadere nel futuro. Definisce un termine legato al raggiungimento, una fine senza ulteriori rimandi.
[2] Tychè: caso, sorte, fortuna. Ananke: destino, necessità. Logos: pensiero, parola.
[3] S. Natoli, “L’esperienza del dolore”.
[4] Limes: confine, frontiera.
[5] Nietzsche, “Ecce Homo”.
[6] Kairos: tempo opportuno. A differenza di Chronos che definisce il tempo nel suo scorrere ritmico, sempre uguale.
[7] Nomos: lo spirito delle leggi. Nemesi: la dea della giustizia vendicativa.

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