Manuale inapplicabile

Ogni uomo ha in sé un pazzo e un delinquente

di Antonio Ricci

“Ogni uomo ha in sé un pazzo, e ognuno ha anche in sé un delinquente. Non c’è nessuno senza qualche idea fissa e nessuno senza colpa. E ancora, ognuno ha tradito passivamente o attivamente lo spirito.”

Ferdinand Ebner – Parola e amore

Narra Esiodo nella Teogonia che Stige, (da stygeo “odiare”), fiume infero e divinità greca, partorisce quattro figli: Zelos (Zelo), Nike (Vittoria), Bia (Forza) e Cratos (Potenza). Così “Il freddo odio della madre è trasformato dai figli in quei tratti implacabili che abbiamo finito per accettare come virtù. […] prototipi di quella moralità bellicosa e fanatica che accompagna l’Io nelle sue moralistiche missioni di distruzione finalizzata all’autoconservazione”.[1] Alla concreta saggezza greca non sfugge il legame profondo e ambivalente tra queste forze e la sorgente che le genera, dalle cui radici emana un sentore di violenza e di morte. “L’Io odia, aborrisce, perseguita con intento distruttivo tutti gli oggetti che gli provocano sentimenti dolorosi […] lotta per la propria conservazione e affermazione”.[2] L’io, nostro necessario filtro psichico con il mondo, è anche il nostro problema più grande quando, per eccesso di zelo e protezione, propone e impone soluzioni al dolore e alla paura, violente, drastiche e unilaterali. Diventa in tal modo, paradossalmente, il vero pericolo per sé stessi e gli altri. 

Giustificare la violenza richiede attrazione per l’inferno e dimestichezza con l’odio, sentendosi al sicuro tra i santi del paradiso. L’io preserva se stesso con la lotta, e l’odio è il terreno sul quale coltiva le sue virtù da lottatore: zelo, vittoria, forza e potenza. Sotto ogni eccesso di fastidio sta quindi ben nascosta una più primitiva paura. Per conoscerla bisogna quindi scovarla, smascherarla nei suoi abili travestimenti ideologici o religiosi, dietro le ipocrisie del buon senso nel mentre semplifica fantasie di disprezzo e di omicidio; bisogna sentirla invocare perfetto ordine e severa giustizia, o masticare bestemmie e maledizioni per il pezzente ubriaco o per la lentezza del pedone sulle strisce. 

Dove affonda le radici tutta questa violenza sorda, nascosta e benpensante con la quale facciamo fatica a confrontarci? Che cosa sono questi pensieri così pieni di cattiveria? È forse follia? Cosa sono queste forme d’intolleranza malcelate da necessità morale? 

Questa paura fa paura, perché è come una lama di coltello affilata pronta a colpire, paura che per molti è meglio dimenticare; meglio continuare a credersi vittime innocenti come gli agnelli e astute come i serpenti. Questa paura di prede perse nel branco dei predatori, che in fondo aspirano a scambiare ruoli e privilegi, fa danni; paura al cui polo sta una pace solo apparente, tregua breve, momentanea quiete del branco di vinti sbranati e sazietà di predatori.

La violenza è la strada per non cambiare mai, per imporre senza proporre, per strappare all’altro, senza il suo consenso, ciò che non vuole darci; per ammutolirlo, controllarlo o immobilizzarlo, per predarlo o annientarlo, per togliergli il potere di trasformarci. I violenti sono persone deboli e pericolose. 

Ma chi è questo altroL’altro siamo noi reificati, resi cosa, oggetto nell’anonimato dei volti e dei nomi, Noi siamo la gente per gli altri, tutti gli altri, ma non ci piace essere considerati tali, non ci piace essere confusi tra i molti. “La gente dice, la gente fa, le persone non capiscono, io invece…”. L’altro, con il suo mistero e la sua differenza, porta inquietudine e domande, obbliga al cambiamento e impone il suo volto sulla nostra strada, ma spesso dimentichiamo che “l’altro” siamo anche noi, nella reciprocità. Bisogna solo cambiare punto d’osservazione, e poi dare un nome e un volto. Uno alla volta, tutte le volte, così la gente non c’è più e appare quel singolo, quella persona. Una persona, tante persone, tante storie, tante differenze. Più fatica ma più umanità. La malattia dello spirito nell’uomo – afferma Ebner – consiste nell’assenza di tu del suo io.[3] Siamo malati di solipsismo, auto isolati e auto referenziali, perciò l’altro, su questo orizzonte avvilente, non può che essere un ostacolo o una momentanea oasi a proprio uso e consumo.

È attraverso le differenze che cresciamo e percepiamo il reale: quando una differenza entra nel nostro campo di coscienza rompe un equilibrio precostituito e, per contrasto, ci fa vedere ciò che c’è. Dolore e piacere, intuizione e paura, conflitto e quiete sono condizioni transitorie: indicano l’irruzione di differenze. Le differenze destabilizzano e inquietano, le differenze ci parlano e ci obbligano al movimento. Le differenze ci fanno vedere chi siamo: ci fanno cadere. Impossibile evitarlo, intelligente prevederlo. Necessario comprendere le differenze, difficile non vederle. Eliminare le differenze per non soffrire porta quiete, molta quiete, quiete eterna ed ha un prezzo: l’immobile stupidità.

Le vittime eterne sono pericolose, hanno sempre molti buoni motivi per odiare. La gente comune è terrorizzata dalle proprie fantasie distruttive, perciò le nasconde o le dissimula, ma queste continuano ad agire nel profondo, condizionando i comportamenti. Più vengono negate e più diventano potenti. Ma è possibile agire la propria pericolosità senza essere pericolosi? Con l’arte e il gioco possiamo sicuramente esaurire e reindirizzare parte delle nostre forze distruttive ma ciò non basta. [4] Serve maggiore consapevolezza.

L’aggressività costruttiva è una funzione dell’io al servizio dell’autorealizzazione, ed è sempre rivolta verso oggetti riconoscibili e concreti; è una funzione fondamentale per esplorare e vincere l’ambiente. È un mezzo per la comunicazione: essa rende possibile il confrontarsi, la separazione, l’unione e la differenziazione, quindi l’approfondimento e l’arricchimento della relazione. È la forza che aiuta a superare gli ostacoli e a fare esperienza; aiuta ad andare verso il mondo, le cose e le persone, o ad allontanarsi da esse, senza eccessiva paura e con curiosità.

La distruttività al contrario è un divieto di comunicazione e d’esperienza, avendo perso, o rimosso, gli oggetti originari verso i quali la forza aggressiva doveva dirigersi, divenendo così estranea all’io e alla coscienza. La distruttività è il tentativo disperato di liberarsi di un conflitto interiore del quale si è persa l’origine: si agisce spinti da rabbia e paura senza alcun fine cosciente e con l’unico effetto di vedere rappresentato fuori di sé l’inferno che si ha dentro. 

Chi non riesce a comunicare con i propri bisogni e desideri profondi, non può nemmeno comunicare con quelli degli altri. 

La distruttività cerca e genera indifferenziazione, svuotando il rapporto per paura che la comunicazione annienti i comunicanti, in una altalena estenuante e ambivalente tra il desiderio di un legame fusionale e quello di diventare qualcuno. È un problema di identità. Chi riconosce il valore del proprio io e la propria identità saprà sempre delimitare se stesso nei confronti di un altro io, rispettando e lasciando intatta l’altra persona. 

Dovremmo concederci più occasioni per toccare il disprezzo, l’odio e la rabbia che ci abitano per poterle comprendere e gestire e, all’occorrenza, fermare quando rischiano di provocare danni. Dovremmo avere più occasioni per far emergere la nostra intolleranza e guardarla bene in faccia; sentirla deformarci il volto con il suo ghigno compiaciuto che cerca vendetta, annotarne le fantasie infantili premonitrici di disfatta e dolore, isolarne i pensieri di onnipotenza delirante, gustarne le lamentele e le infinite pretese di risarcimento. Dovremmo imparare a riconoscere la voglia di distruzione e annientamento, sentirla contorcerci le budella e muoverci mani e lingua per ferire, per fare male e per giustificare se stessa.

Che si veda quindi che razza di stronzi siamo, soprattutto ai nostri occhi. Non siamo né buoni né cattivi per nascita. Per nascita non siamo nemmeno innocenti o colpevoli. Colpevoli in caso lo diventiamo esistendo, perché dobbiamo continuamente conferire senso al nostro agire, prendere posizione, scegliere da che parte andare, cosa fare. Sbagliamo per eccesso di zelo o mancanza di coscienza, ci macchiamo di cattiverie, misfatti e crudeltà in nome di Giustizia, Dio e Verità ma quasi mai lo ammettiamo. Il danno lo vediamo sempre dopo, se lo vediamo, e spesso solo perché qualcuno, o la vita stessa, ci presenta brutalmente il conto. Ma solo chi agisce sbaglia, chi non agisce lascia sbagliare gli altri ed è perciò doppiamente colpevole della sua ignavia e delle sue omissioni. Azione e non azione producono comunque effetti, ma è la scelta a conferire senso e a determinare l’assunzione della responsabilità. L’illusione di una eterna innocenza è un delirio di verginità e di purezza molto pericoloso. 

Basta poco per diventare minacciosi, un semplice tocco al nostro fragile senso d’importanza personale e il gioco è fatto. Ma chi vuole sapere davvero, e perché poi andare a stuzzicare la bestia? E se il cane rabbioso si gira e ci azzanna? Vero, ma forse ci sta già sbranando da tempo e non sappiamo come fermarlo. 

“Ciò che respingo lo accolgo in me pur senza accorgermene. Ciò che accetto finisce nella parte della mia anima a me nota; ciò che rifiuto va nella parte della mia anima che non conosco. Quello che accetto lo faccio io stesso, quello che rifiuto viene fatto a me. […] Ma il veleno del serpente cui hai schiacciato il capo penetra in te attraverso il morso nel calcagno. E così il serpente diventa per te più pericoloso di prima. Infatti qualunque cosa io respinga fa comunque parte della mia natura. Pensavo che fosse esterna a me, e perciò ho creduto di poterla distruggere. […]  Ne ho distrutto le sembianze credendo di esserne vincitore. Invece non ho ancora vinto me stesso. […] L’opposizione esterna è un’immagine della mia opposizione interiore. Dopo che l’ho capito, taccio e penso alla voragine dei conflitti presenti nella mia anima”. [5]

Che almeno si provi a guardare il drago dritto negli occhi, per verificare se davvero lo abbiamo già domato come crediamo o se, al contrario, siamo da tempo suoi servitori mansueti e spaventati. Dovremmo avere più coraggio per accettare il gusto ambivalente che proviamo, tra piacere e vergogna, nel vedere lo scomposto incalzare interiore delle nostre ombre, indifferenti e feroci. Uno spettacolo ignobile e magnifico come l’inferno dantesco, dove però preferiamo essere demoni, o angeli vendicatori, pronti a punire con solerzia le anime colpevoli, che sono sempre tutti gli altri.

Gli odiatori di professione, convinti attivisti della giustizia delle armi e delle botte, muscolosi difensori del privilegio, promotori del controllo preventivo, della punizione esemplare e del potere senza mediazioni, non sono poi così diversi dall’indecente schiera dei sempre buoni e giusti, saggi correttori di ogni umana bruttezza, odiatori ipocriti e occulti di ogni differenza, missionari lindi e sorridenti di un bene e di un bello universali, che però somiglia troppo a loro stessi. Al pari dei loro indispensabili fratelli cattivi che urlano sguaiati dal polo opposto, i buoni hanno un’unica misura valida: la loro. Sono fratelli di sangue e di odio, e all’unisono incitano alla guerra santa: quella contro gli altri, i diversi da loro. Entrambi i poli sanno sempre cosa sia giusto e sbagliato fare, sanno sempre cosa l’altro debba fare per andargli a genio, costringendolo se serve. Voci dissimili ma attinte dallo stesso pozzo di violenza, di un ego spaventato, infantile, indifferenziato e inconsistente: si credono tutti innocenti e dei bravi ragazzi. Ma che siano dell’una o dell’altra fazione non fa alcuna differenza. 

In realtà, di fronte a costoro si ha la netta sensazione che non ci sia qualcuno a parlare, che non ti vedano e non si sentano. Assenti a loro stessi, come fantasmi nella nebbia, sciorinano significati presi in prestito, parole d’ordine, dogmi, certezze e varie confuse banalità usate a mo’ di comandamenti, oppure come mazze ferrate. Ma se viene posta loro la domanda: “…ma tu, proprio tu, cosa pensi?”, non sanno cosa rispondere, non ne capiscono proprio il senso. Infatti di fronte a costoro si ha la netta impressione che non abbiano una vita interiore, che non pensino davvero ma ripetano, senza alcuno spirito critico, slogan, discorsi e giustificazioni preconfezionate, sia che vestano lindi abiti da monaci, cravatte da professori o divise da metalmeccanico; sia che pronuncino discorsi sofisticati e rivoluzionari, o s’impastino la bocca con imprecazioni, grappa e invettive qualunquiste. Marionette inconsapevoli, sono un monito costante per vigilare sulla propria paura e stupidita; sono un monito per vigilare sulla propria tendenza a scomparire dietro le voci rassicuranti dell’omologazione dei molti, o nel ribellismo isolato e contro-dipendente delle certezze dei pochi.

I bravi ragazzi sono pericolosi. Difficile dire chi sia più ripugnante e meno minaccioso. Fanno paura e rabbia entrambi. Perciò, se deve essere guerra che sia quindi, ma contro chi?  Guerra agli altri o dentro di sé? I nostri conflitti non si esauriscono nella loro negazione, esasperazione o proiezione. In una delicata dialettica tra dentro e fuori di sé fluttuano e si trasformano, prendendo a volte il volto e le azioni di qualcuno o rimanendo solo una voce interna. 

Perciò: “Colui che ha dichiarato questa guerra dentro di sé, è in pace con i propri simili e, benché egli sia tutto quanto campo della più violenta battaglia, nell’intimo del suo intimo regna una pace più attiva di qualunque guerra. E più regna la pace nell’intimo dell’intimo, nel silenzio e nella solitudine centrale, più infierisce la guerra contro il tumulto delle menzogne e l’innumerevole illusione”. [6]

Chi si sente sempre nel giusto e già in salvo, chi sente il migliore, è estremamente pericoloso. Non siamo liberi e quindi potenzialmente siamo tutti pericolosi. Siamo occasione di crescita reciproca e al contempo possiamo farci molto male. La crescita non procede linearmente e non è una sommatoria di competenze, forze, intelligenza o potere ma è un processo di continua ristrutturazione della realtà e del nostro rapporto con essa, che nasce dalla cooperazione di forze d’integrazionedestrutturazione econservazione dell’esperienza. 

Che l’educativo continui quindi a svolgere il suo compito smisurato e incerto, come un Sisifo liberato e inarrestabile; che metta in guardia contro i pericoli dell’omologazione rassicurante  e della perdita di sé, della propria libertà interiore e del proprio spirito critico; contro il dilagare dei manuali del “come fare per essere”, delle tecnologie psicologiche e spirituali per il trionfo egoico e narcisistico; delle religioni annacquate ad uso manageriale ed emotivo, con relativo copyright sulla consapevolezza, siano esse in otto o mille passi; contro le menzogne delle strade facili, del benessere superficiale e ad ogni costo, della felicità obbligatoria; contro le cialtronerie di ogni tipo, lo svilimento del pensiero, della responsabilità individuale e della profondità dell’esperienza. 

Che l’educativo continui la sua incessante opera: rimettere l’uomo, la sua irripetibilità e la sua coscienza al centro. Forza debole dell’uno a uno, che insista nel riproporre la scomoda inattualità della persona posta drammaticamente di fronte a se stessa; di fronte al valore della propria solitudine; valore senza il quale la relazione diviene un rifugio consolatorio e mutilante e l’altro una minaccia o un’occasione di sfruttamento.  

Come un masso che continua a rotolare giù, la coscienza va costantemente riportata in alto, al suo posto, nonostante le molte forze che si oppongono e che vorrebbero che fosse un’opera del tutto inutile. 

“Guardate che bella pace mi si propone. Chiudere gli occhi per non vedere il delitto. Agitarsi dalla mattina alla sera per non vedere la morte spalancata. Credersi vittorioso prima di aver lottato.  Pace di menzogna! 

Adattarsi alle proprie vigliaccherie, poiché lo fanno tutti. Pace di vinti!

 Un po’ di ubriachezza, un po’ di bestemmia, un po’ di sudiciume, sotto motti di spirito, […] un po’ di mascherata, di cui si fa virtù, un po’ di pigrizia e di sogno con intorno una confetteria di belle parole, ecco la pace che ci viene proposta. Pace di venduti. 

E per salvaguardare questa pace vergognosa, si farebbe di tutto, si farebbe la guerra al proprio simile. Perché esiste una vecchia ricetta sicura per conservare sempre la pace dentro di sé: accusare sempre gli altri. Pace di tradimento”.  René Daumal – La conoscenza di Sé

(Estratto e riadattato da “i bravi ragazzi sono pericolosi” su Manuale Inapplicabile


[1] J. Hillman, Il sogno e il mondo infero, Adelphi, pg. 77.

[2] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, pg. 34.

[3] Ferdinand Ebner, Parola e Amore, Rusconi, pg.57.

[4] Cfr. Gunter Ammon, La dinamica di gruppo dell’aggressività, Astrolabio.

[5] C.G.Jung, Il libro rosso. Liber Novus, a cura di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pg. 279.

[6] René Daumal, La conoscenza di sé, pg. 44.

Photo by Periagogè©