Difficile mestiere il nostro, a cavallo tra la professione dello psicologo e quella faticosa del maestro di classe, ma con l’ardire del filosofo e la disciplina dell’atleta. Se poi vogliamo aggiungerci la pretesa di coerenza tra idea e vita e la necessità di formazione permanente, sembra che si parli più di un monaco, piuttosto che di un professionista dell’educativo.
Che fatica solo raccontarlo. Infatti, gli educatori hanno anche muscoli forti, si rimboccano spesso le maniche e, quando serve, parlano poco e lavorano molto.
Non mi è mai piaciuta la parola educatore, perché evoca, nel sentire comune, modalità coercitive e moralistiche, molto lontane dalla realtà di questa professione, declinabile in così tanti modi che servirebbe un neologismo per racchiuderli tutti. A volte uso la parola “insegnante”, nel senso di magister, perché amo la lezione di Tommaso D’Aquino, e perché sono cresciuto nella scuola di Menghi, il quale dava a questo termine lo stesso senso: guida, maestro, colui che indica i segni che l’altro deve seguire, colui che ha già percorso la strada e la può indicare.
Il magister di Tommaso è colui il quale opera con quell’attitudine maieutica, capace di «causare la causalità dell’altro». Non conosco definizione più bella e più alta. Ducci la spiega bene: «Al maestro toccherà il compito di guardare il potenziale umano di fronte. Non gli spetta infondere il lume della ragione, c’è già, ma collaborare con lui, per un comune lavoro e fine, offrendogli stimoli. […] Non comunica dunque i concetti ma, attraverso alcuni segni, lascia che essi si palesino a chi impara, sì che questi a sua volta originerà i propri».[1] Sembrerebbe un modo antico d’intendere il rapporto tra maestro e allievo, superato oramai dalle molte pedagogie sperimentali, dai molti metodi telematici dell’e-learning. Infatti, il titolo di maestro nella cultura occidentale è ancora correttamente usato solo per chi lavora con i bambini, o per chi insegna musica, per il resto lascia spazio a troppi fraintendimenti, frutto anche della superficialità di alcune definizioni veicolate dalla cultura orientale, al punto tale da rendere ridicolo o rischioso il suo uso. Per togliere ogni dubbio, il magister di Tommaso non ha nulla a che vedere con il discepolato iniziatico della cultura orientale, che a volte esagera il rispetto dovuto a chi guida, fino a esaltarlo, nelle forme estreme, verso culti di personalità.
Piuttosto è persona ben formata, umanamente e tecnicamente, che fornisce strumenti e fa leva sul volere dello studente, perché si attivi in lui la capacità ultima d’apprendere ad apprendere. Fatto ciò, la relazione d’apprendistato, così definita, può terminare ed eventualmente proseguire in altre forme. Ciò vuol dire che fare e saper fare, essere e saper essere, non devono mai confondersi, rimanendo però strettamente connessi. Essendo richiesto al magister di avere “qui explicite totam scientiam”, i riferimenti dovranno essere chiarissimi, la direzione evidente, e verificabili i risultati. Nessun esoterismo, né tantomeno confusivi discepolati. Coltivare il carattere significa avere la libertà di dialogare attorno ad ogni elemento dell’umano, cosa certamente molto delicata. A maggior ragione, la chiarezza di riferimenti del magister dovrà essere esplicita ed esplicitabile.
Penso anche alla mia professione di formatore di formatori. Se non è garantito un chiaro e verificabile riferimento, nessuna formazione sarà possibile, perché il rischio di confusività e d’invischiamento relazionale cresce. Nessuno può operare senza strumenti; nessuno può intervenire con gli strumenti che padroneggia, senza porsi il problema di ciò che è in grado o meno di fare, evocare, costruire, distruggere. Un insegnante deve vedere bene il confine del proprio sapere: cosa conosce, cosa sa fare, cosa non sa fare. Deve essere in grado di scegliere. È una tutela sia per lo studente, sia per l’insegnante.
Chi crede che ciò limiti la propria libertà di ricerca, ha tutto il diritto di non tracciare tali confini e di non sottoporsi ad alcun confronto e alcuna verifica, ma ciò, secondo me, è incompatibile con il mestiere d’insegnante.
Torniamo al problema della definizione.
Quando devo far rilevare la mia formazione universitaria o sgomberare rapidamente il campo da attribuzioni di ruoli inappropriati, uso il termine accademico ufficiale: psicopedagogista. Ma è una definizione fin troppo specialistica, che sembra ridurre il campo d’intervento educativo alla sola area dell’infanzia.
La definizione degli utenti è al pari problematica. Che cosa dire: studenti, educandi, discenti, allievi? Educando e discente credo che siano due parole veramente brutte, per quanto contengano il reale senso del rapporto di scambio e crescita, educatore-educando, docente-discente. Ma la prima evoca luoghi comuni tali che imbarazza usarla, la seconda è incomprensibile a molti ed ha un sapore eccessivo di accademia. Dire studente o allievo si avvicina di più al senso del rapporto educativo, ma è foriero di ulteriori fraintendimenti. Quando poi l’insegnante, come nel mio caso, si occupa anche di studenti più anziani della sua età, per qualcuno può essere difficile comprendere quale sia la sua funzione. Il luogo comune recita che da grandi si è già “grandi”, si sa già tutto quello che serve, e se non si è bambini o psichicamente fragili, dipendenti o malati, a che scopo rivolgersi ad un insegnante, docente, magister?
Un altro problema sorge quando si confonde l’educatore con l’istruttore, cioè qualcuno che fornisce unicamente nozioni di pura natura tecnica. Quindi qualcuno interessato a che l’allievo acquisisca, nel più breve tempo possibile, delle competenze pratiche o delle conoscenze tecniche specifiche. In tal caso si dovrà parlare d’addestramento, poiché non è prevista alcuna attenzione all’altro e alla qualità della relazione che si stabilisce. Nell’addestramento non c’è interesse a chi l’altro diventa nel mentre impara, ma unicamente a cosa sa fare; né tantomeno è prevista una valutazione etica di ciò che egli farà con quello che avrà appreso.
Altra possibile e molto più preoccupante confusione, è quella tra educatore e persuasore, cioè qualcuno che sarà, al contrario, unicamente interessato alla trasmissione acritica di idee, principi e ideologie, per costruire nell’altro un’identità di vedute e convincimenti. In tal caso si dovrà parlare di persuasione o ammaestramento, giacché è prevista una grande attenzione unidirezionale a cosa l’altro diventa nel mentre impara, affinché aderisca e si conformi acriticamente, ad un unico modello ideologico precostituito, di persona e di pensiero. La persuasione non ha come scopo la differenziazione e la crescita personale.
Nel primo caso c’è un disinteresse totale all’altro, che può avere i suoi vantaggi nella formazione tecnica e scientifica.
Nel secondo caso, c’è un eccesso di attenzione all’altro, rispetto al quale vedo solo svantaggi.
Se la persona non sa se sta cercando un istruttore o un insegnante, può nascere uno sgradevole susseguirsi d’incomprensioni e fraintendimenti.
Guai a qualunque educazione che pretenda di ergersi a portatrice di modelli unici, foriera d’ideologie del “dover essere”, perché tradisce la sua dimensione autentica, impedendo alla persona di coltivare la propria originalità. Sicuramente in nessuno dei due casi si potrà parlare di educatore o insegnante, anche se un buon magister, se vorrà, potrà addestrare altrettanto bene di un istruttore, senza voler però né ammaestrare, né persuadere.
Non è semplice definire che tipo di lavoro sia il nostro, perché non bastano i titoli o l’esperienza professionale. Avverto talvolta la riduttività o la genericità di alcune definizioni, e infine penso che quella d’insegnante, nella sua accezione di magister, sia quella più completa.
L’insegnamento comporta un perfetto operare del sapere in chi insegna: ci deve essere una totale aderenza tra pensiero, parola e azione. “Di conseguenza, – afferma Tommaso – è necessario che chi insegna, ovvero è maestro, possieda quel sapere che causa nell’altro negli stessi termini di scioltezza e pienezza in cui, in chi impara, esso viene acquisito tramite l’insegnamento”.[2] È una definizione perfetta e coerente, adeguata al compito. Come ho già sopra evidenziato, Tommaso chiede al magister d’avere una completezza del sapere, “qui explicite totam scientiam”, il che escluderebbe credo la quasi totalità degli attuali aspiranti insegnanti, me compreso. Ma è un riferimento irrecusabile e bellissimo, che toglie ogni possibilità illusoria di sentirsi formati una volta per sempre, per quanto coscienti di avere una forma chiara, già acquisita. Per forgiare un tale sapere, serve un metodo e uno spirito incessante di autoformazione, una disciplina ferma con un’intenzione stabile. In greco antico è detta askèsis, termine che riporta l’attenzione alla dimensione pratica della conoscenza, come atto d’attingimento dall’esperienza, frutto di un costante e duro lavoro, scelto in piena libertà.
Il lavoro educativo ritengo si possa fondare almeno su quattro elementi d’esperienza: il corpo, la parola, la relazione e la costruzione della conoscenza.
L’invito è a sperimentare, piuttosto che credere. Nell’esperienza formativa, è utile provare ad applicare ciò che viene insegnato, sentendosi liberi di rifiutarlo qualora si riveli inadatto per i propri scopi. Ciò che importa è garantirsi l’apertura necessaria per apprendere, assieme ad uno spirito critico. È importante tentare di unificare l’esperienza.
Per consolidare la propria autoformazione è utile fare in modo che ogni giorno sia realmente dedicato a ogni cosa, nella giusta proporzione. Non perdere tempo a rincorrere il tempo, cercando di stabilire un chiaro ordine di priorità tra le azioni. Per dare disciplina alla libertà è necessario evitare la tendenza a valutare quantitativamente l’impegno, vigilando quindi sulla propria tendenza alla dispersione.
A tale scopo possono venire in aiuto alcune domande:
- Quando dico che non ho tempo, dov’è finito?
- Che cosa ho fatto finora?
- Cosa resta da fare?
- Che cosa è necessario fare?
Ritengo che uno degli obiettivi di un insegnante sia quello di condurre lo studente a riconoscere e definire la disciplina necessaria per la propria autoformazione. È utile ricordare il vantaggio che può darci il tentare di applicare una pratica informale durante la giornata. Può aiutarci a riconoscere quale dispersione ci sia, quali forze si oppongano e quali edifichino. Si entra e si esce da un tempo per successivi approdi, successive mancanze e bisogni di completezza, e mai per strade forzate. La disarmonia di un giorno è la partenza per cercare armonia nell’altro. Un giorno perfetto, dopo mesi di aridità, non arriva per caso ma nemmeno per programma. L’intenzione perfetta colma di senso ogni fallimento, ogni errore, ogni successo. È importante avere tempo per coltivare, nella stessa misura, bisogni necessari alla sopravvivenza fisica e bisogni legati alla sfera relazionale e spirituale.
[1] T. D’AQUINO, De Magistro, a cura di E. Ducci, Roma, Anicia, 1995, pg. 48.
[2] T. D’AQUINO, De Magistro, a cura di E. Ducci, Roma, Anicia, 1995, pg. 116.