Manuale inapplicabile

L’educatore è come un giardiniere

Un anno fa ho contribuito, come educatrice, all’apertura della Comunità Eldorado, luogo per la cura di ragazzi preadolescenti e adolescenti con difficoltà psicologiche e relazionali. La Comunità è stata voluta dalle Suore della Misericordia, le quali gestiscono a Verona l’Ospedale Psichiatrico «Villa Santa Giuliana» che nel 2012 è stato riconosciuto quale centro di riferimento regionale per la diagnosi, cura e riabilitazione psichiatrica in adolescenza.

La comunità si trova in una area adiacente all’ospedale, immersa in un splendido parco. È altresì dotata di immensa area per lo sport, con campi per la pallavolo, basket, calcio, bocce. Insieme ad altri colleghi stiamo dando vita a vari progetti individualizzati per ogni singolo ragazzo, oltre a progetti per il gruppo stesso. Nella Comunità Eldorado mi occupo, come educatrice, degli aspetti cognitivi dei ragazzi, e in quest’ottica ho proposto un piccolo progetto che mi sembrava «simpatico»: realizzare un giornalino, dove editare scritti, foto, disegni, pensieri. In un primo momento, rispetto agli argomenti di cui parlare, ho trovato alcune difficoltà, soprattutto rispetto alla voglia di scrivere qualcosa che riguardasse la mia sfera personale, ma poi mi sono detta che ciascuna educatrice è chiamata a partecipare con il suo pensiero e con la sua parola per comunicare qualcosa di significativo. Il fine è sempre quello di donare la possibilità di maturazione e di edificazione. Volevo condividere con i probabili lettori quelli che sono i miei gesti quotidiani, i valori in cui mi identifico, il percorso che ho vissuto anche prima di diventare educatrice, insomma una riflessione a tutto tondo. Chiaro che, essendo molti gli educatori/educatrici, molti risultano essere i punti di vista. Differenti caratteri, vite, percorsi formativi, modalità di pensiero e azione, variegate personalità incidono, inevitabilmente, a creare visioni prospettiche ed orizzonti di pensiero alquanto originali.

Si tratta di far convergere e incrociare i diversi punti di vista per poterli far confluire in qualcosa di bello che sia capace di far crescer ciascuno e la comunità intera. Chiaro che non possiamo negare un dato di realtà: spesso le posizioni divergono notevolmente mettendo in risalto il contrasto di accenti che ognuno evidenzia. Nondimeno dovremmo forse ricordare tre parole chiave che hanno una comune radice: confronto, scontro ed incontro. L’ordine in cui le ho disposte ritengo sia quello esatto. Si parte sempre da un confronto con l’altro e gli altri, ponendo in risalto ed argomentando la propria prospettiva; da ciò possono anche nascere possibili scontri e fratture. Attraverso questa esperienza ho saputo raccogliere la bellezza della scrittura cartacea, perché la parola scritta non si può più negare,  dà un senso di completezza e di integrità poiché consente e richiede di pensare, verificare e rielaborare.

Quando scrivo cerco di essere alquanto onesta e trasparente: non tanto per essere corretta negli altrui confronti ma, ancor prima, per essere schietta e sincera con me stessa. Denudarsi non è mai cosa facile né scontata: richiede di entrare a stretto contatto con la propria coscienza per fare verità nella vita. Nel mestiere di educatore è necessario giudicare le proprie azioni sia nei confronti dei colleghi che nei confronti dei ragazzi. Ecco allora che la scrittura consente di fare esercizio nel ricordare e fissare fatti ed eventi di cui si è stati protagonisti insieme a quanti vivono intorno a sé.

Vero pure è che la scrittura può presentare elementi di fraintendimento: non sempre tutto ciò che viene descritto è recepito, parimenti, con l’intenzione originale dell’autore. Comunque la possibilità che può fornire un giornalino è quella di mettere maggiormente in relazione i ragazzi e gli educatori per dialogare e confrontarsi. L’obiettivo finale è aiutare i ragazzi nella descrizione e nella rielaborazione dei loro vissuti extra ed intra comunitari; l’intento principale è quello di trasmettere ai ragazzi questo messaggio: l’importanza dell’ascolto del proprio mondo interiore e dei propri vissuti per poter successivamente descrivere quanto anima il proprio cuore. Ascoltare, riordinare e dare un senso alle proprie esperienze è davvero fondamentale per crescere e maturare.

Nella lettura di un articolo scritto da una mia collega mi sono lasciata trasportare da un concetto che riecheggiava: l’incertezza. Dallo spunto iniziale da lei inconsapevolmente suggeritomi mi sono addentrata in una riflessione inerente il tema, cercando di sviscerare le possibili sfaccettature di questa problematica.

In effetti nel nostro lavoro grande importanza hanno sia le parole che noi utilizziamo per comunicare, come pure gli agiti che poniamo in essere. Ogni nostro termine ed ogni nostra azione hanno una ricaduta specifica, spesso non indifferente, su quanti ne sono i destinatari. È importante, pertanto, cercare di preventivare quanto un nostro discorso può avere, in termini di conseguenze, anche negative, su coloro che ci ascoltano. Il nostro lavoro, poi, deve avere particolare attenzione e premura, considerando la giovane età degli utenti di cui ci occupiamo e la loro vulnerabilità, essendo ragazzi con dei disagi psichici o comportamentali. A volte sento la necessità di frenare l’impulso ad agire a dire, perché penso che sia necessario costruire in loro delle basi.

Ritorniamo al concetto di incertezza. Da studi precedenti ho raccolto l’importanza di saper lavorare con sollecitudine a questo tema, dedicandomi con costanza a tutto l’incerto che la vita comporta e della necessità dell’ascolto del proprio mondo interiore. Il filosofo e teologo francese Blaise Pascal si rese conto che il lavoro dell’uomo su se stesso e la ricerca di una dimensione più alta, pneumatologica, ci rende consapevoli del fatto che «lavoriamo  per l’incerto». Scrive nei suoi «Pensieri»:

«(…) perché nulla è (…), perché non è certo che vedremo la giornata di domani, ma è certamente possibile che non la vedremo (…). Ora quando si lavora per il domani, e per l’incerto, si opera con ragionevolezza; perché si deve lavorare per l’incerto, per la regola delle probabilità che è stata dimostrata».[1]

A partire da questo pensiero Ferdinand Ebner, maestro elementare e dialogista austriaco dei primi del ‘900, afferma: «Non è senza un tratto leggermente doloroso nel fervore del proprio lavoro che ben procede, diventare coscienti di travailler pour l’incertain. Ma ci si deve esercitare in questo pensiero, e non lavorare altrimenti. Soltanto quando si lavora così in esso si diventa davvero strumento nelle mani di Dio. E non ho bisogno di sapere quel che Dio intende fare di me e del mio lavoro.»[2]

Credo che l’incertain di cui parlano Pascal ed Ebner sia forse di gran lunga superiore alla mia comprensione.  Il lavorare per l’incerto per me può essere espresso nei termini di dire i propri pensieri e compiere le azioni necessarie per incontrare l’altro e per aiutarlo. Nonostante i dubbi. Nonostante i pregiudizi nostri ed altrui. Incontrare l’altro, inoltre, ci aiuta ad incontrare profondamente noi stessi riconoscendoci aperti alla relazione oppure refrattari ad essa. Scoprire tutte le difficoltà che viviamo nell’ incontro con l’altro ci aiuta a giustificare e comprendere che anche l’altro vive le proprie laddove si approccia a noi, al nostro modo di vedere e sentire la realtà.

Credo che il lavoro dell’educatore abbia a che vedere con un sentimento di incertezza e di gratuità. L’educatore, forse, non ha diritto ai frutti del suo lavoro. Deve sempre ricordare che il suo è un lavoro incerto ed imprevedibile. Ciò cui ha diritto non è tanto di vedere i risultati del suo lavoro e dei suoi sforzi, quanto piuttosto la bellezza di non perdersi d’animo laddove non riesce a realizzarli, mantenendo intatta la freschezza e il giovane desiderio di voler comunque condividere il suo sapere e le sue esperienze. Quel seme che a fatica continua a piantare è quanto di più grande lui possa sperare ed operare: non sa quali frutti produrrà; sa soltanto che non potrà essere impedito da alcuno nel lavoro costante della semina. Se è vero che nel donare una parola, un gesto o semplicemente uno sguardo, molti possono essere i fraintendimenti, vero è pure che questo non deve precluderci dalla bellezza del saper donare e condividere.

Nel bene o nel male è necessario compiere quanto riteniamo utile per esprimere il valore in cui crediamo e perorare la causa che supportiamo. Certamente molte volte i pensieri dubbiosi ci allontanano dal confronto con l’altro, facendoci tornare sui nostri passi. Spesso pensiamo: «Lo dico o non lo dico? Ho fatto bene oppure ho fatto male?» Quante volte questi pensieri, con il cuore chiuso e sconfortato dal pensiero che nessuno capisca, hanno rischiato di farci rinunciare al dialogo, pensando di esser noi gli unici portatori di verità. Ma noi abbiamo compreso a nostra volta? Quale presunzione nasconde il nostro pensiero?

Rinunciare all’azione e/o all’espressione di quanto pensiamo ci preclude un’altra opportunità di crescita che, sprecata miseramente, ci distoglie dal riflettere e porre attenzione al nostro mondo interiore. Agire ed esprimerci ci permette di smuovere le nostre emozioni e i nostri sentimenti profondi e ci aiuta a prendere di nuovo un contatto più autentico con noi stessi.

L’etimologia di educare deriva da educere, ossia aiutare l’educando a tirare fuori il meglio di sé, ciò che «potenzialmente» è, le risorse di cui è foriero, seppure non consapevole. Fin dalla nascita portiamo in noi diverse caratteristiche ed abilità la cui crescita avviene attraverso l’incontro con l’altro. L’intelligenza, la manualità, le emozioni, le aspirazioni, gli interessi, sono tutte espressioni che caratterizzano la nostra unicità, la personale attitudine verso la particolarità di alcune passioni che noi già abbiamo quali doni del nostro essere, ma che riusciamo a sviluppare grazie all’ausilio dell’altro che ci aiuta nel processo di consapevolezza e maturazione. La vocazione della nostra vita consiste proprio in questa chiamata a diventare ciò che siamo profondamente, crescendo giornalmente e progressivamente nella conoscenza di sé e dell’altro, e nella conoscenza di sé in relazione all’altro.

Questo può servire al raggiungimento della propria forma migliore di vita e alla sua attuazione personale e sociale. Lambruschini, pedagogista del secolo scorso, definiva l’educazione come l’arte del giardiniere che prepara adeguatamente il terreno affinché i semi possano crescere.[3] Compiamo azioni verso gli altri o altri compiono azioni verso di noi che comprendiamo solo dopo molto tempo.

Anni fa, quando iniziai a formarmi tra l’Università e la scuola di specializzazione Normodinamica Periagogè, facevo spesso presente al mio formatore di non sapere con esattezza se il mio comportamento fosse o meno corretto: percepivo di non aver sufficiente autostima e sicurezze ferme cui ancorarmi. Ciò evidenziava una inconsistenza di cui oggi posso parlare non sentendomene più così sopraffatta, ma, parimenti, denotava pure una delicatezza ed un tatto che sottolineava come nel mio atto educativo non volessi assolutamente plasmare l’altro secondo le mie aspettative. Più che pensare al rispetto delle sovrastrutture sociali che ci danno un senso di appartenenza ad un determinato contesto, più che l’osservanza stretta e rigida di talune regole e parametri che diano il riconoscimento della cerchia sociale in cui viviamo, io credo che un approccio davvero autentico consista nella ricerca di aiutare l’altro a divenire chi realmente è.

È importante capire l’identità dell’altro, del suo essere, della sua personalità per aiutarlo a divenire sempre più se stesso. Quanto davvero è essenziale è aiutare le persone nella comprensione di se stesse e non nella compiacenza sociale a cui sono chiamate per essere riconosciute, apprezzate e confermate. Il plauso e il riconoscimento altrui quali mezzi per sentirsi vivi ed adeguati credo sia qualcosa che evidenzia il fallimento educativo del mentore.

Invece di parlare di regole mi piacerebbe parlare di libertà e di etica, il cui principale significato sottolinea la ricerca di uno o più criteri che consentano all’individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri.

 

*Giovanna Bernardi, educatrice professionale.

 

[1] Blaise Pascal, Pensieri, Milano, Bompiani, pg. 255.

[2] Ferdinand Ebner, La Parola è la via, Roma, Edizioni Anicia, pg.170.

[3] Cfr. Raffaello Lambruschini, Scritti pedagogici, a cura di G. Verucci, Torino, Utet.