Manuale inapplicabile

I bambini non sono angeli

Non credo che alcun genitore voglia vedere stare male i propri figli, escluse ovviamente quelle persone chiaramente disturbate, i cui comportamenti vanno dall’indifferenza, all’abbandono, all’abuso palese, ma credo esistano anche molteplici modi di intendere quel “ti voglio bene” spesso pensato o dichiarato, ma altrettanto spesso dato per scontato all’interno di una serie di assiomi pseudo educativi scarsamente verificati.

“Ti voglio bene” vuol dire prima di tutto “voglio il tuo di bene”, con l’enfasi sulla seconda persona singolare. Può sembrare un cavillo ma sul piano semantico sposta l’attenzione da sé all’altro, e a ciò che consideriamo possa farle, o fargli, bene o male.

“Volere il bene dell’altro” implica che si riconosca all’altro, prima di tutto, una propria esistenza distinta dalla nostra, all’interno di un legame affettivo dove ci impegniamo a riconoscere i suoi bisogni, distinguendoli dai nostri; dove agiamo affinché vengano soddisfatti, per ciò che ci compete e per ciò che vogliamo.

Certamente però bisogna volerlo

C’è uno star bene del bambino, del ragazzo, dell’adulto, dell’anziano e del vecchio. Ogni età ha un suo specifico bisogno, così come ogni persona è portatrice di sottili differenze che ne definiscono l’unicità irripetibile. Ecco la difficoltà, e la bellezza, del “voglio il tuo bene”: proprio a te, per come sei, per quello che fai, per ciò che non capisco e per quello che comprendo.

Ogni persona definisce un nuovo inizio.

Rispetto ai bambini, ci sono molte cose che li fanno stare bene, e molte invece no. Che cosa? Per capirlo dobbiamo parlare di quella bambina, di quel bambino, dobbiamo conoscere la sua storia particolare, a partire dal grembo, fino a quali colori preferisce, quali cibi ama, cosa lo fa molto arrabbiare o cosa lo diverte. Dobbiamo osservare molto per comprendere un po’; dobbiamo imparare a parlare dell’altro senza mettergli addosso vestiti non suoi, dobbiamo togliere il peso delle nostre aspettative dalle sue spalle, il peso delle nostre frustrazioni e dei nostri desideri irrealizzati.

Ogni bambino che nasce ha un proprio compito da realizzare, e volergli bene può voler dire aiutarlo a scoprire e a perseguire tale compito, il proprio, non quello fallito dal padre o dalla madre, o quello già realizzato da generazioni, che deve mantenere per lealtà.

Poi esistono delle proprie idee su cosa crediamo possa farli stare bene, questi bambini e queste bambine. Penso a tutti e tutte, in ogni parte del mondo.

Io penso che i bambini stiano bene se possono correre alla loro velocità e andare lenti quanto e quando vogliono. Se gli si permette di cadere e di sbucciarsi le ginocchia, e se gli si insegna a rialzarsi. L’ansia protettiva fa più danni di un livido.

Se possono piangere di dolore ed esultare di gioia, anche se disturbano la nostra quiete di adulti stanchi. Vogliono la nostra attenzione rendendoci partecipi.

I bambini stanno bene se assaggiano cibi nuovi e possono sputare quelli che non gli piacciono. Il nutrimento è un diritto, i gusti sono il segno di una differenza. Se possono litigare anche animatamente, senza che gli adulti s’intromettano, a poi fare pace: la giustizia è un concetto che va compreso a tappe, nella reciprocità e con la testimonianza.

Stanno bene se noi adulti non gli riversiamo addosso la nostra infelicità e le nostre frustrazioni, se non li umiliamo perché non ci somigliano o li esaltiamo perché ci compiacciono. Se ci ricordiamo che prima di essere padri e madri, siamo uomini e donne, che sono stati bambini,

I bambini stanno bene se le decisioni importanti le prendono gli adulti, e non gli affidano la totale responsabilità della loro vita. Solo così possono sentirsi al sicuro. Se possono scegliere e anche sbagliare, per ciò che già sanno e per ciò che possono sapere. Solo così possono sentirsi autonomi.

Stanno bene se possono essere liberi di criticare, domandare, piangere, esultare, ridere ed esistere dentro a confini chiari, solidi e flessibili. Gli adulti fragili sanzionano o premiano in base alla loro paura e inconsistenza e non ai bisogni del bambino che li fronteggia.

I bambini stanno bene se possono giocare con tutto il corpo, e non solo con le dita sul cellulare, se possono sporcarsi dalla testa ai piedi, tanto poi ci si lava. Se possono allungare lo sguardo molto lontano all’orizzonte o in alto nel cielo; guardare una formica che trascina una mollica e, se capita, schiacciarla senza esser visti; se possono schifarsi sentendo puzze e inebriarsi del profumo di un fiore, fare rutti e sentire il suono della pioggia anche se si bagnano, guardare le smorfie dell’amichetto e ridere a crepapelle. La sensorialità è il primo vero tesoro dell’esperienza. Un bel cartone animato ogni tanto va bene, zittirli davanti ad uno schermo ogni giorno per ore li danneggia nel profondo: è una truffa colpevole.

I bambini stanno bene quando, se fanno i capricci, la smettiamo di terrorizzarli con le minacce, i mostri mangia bambini o con “quel signore ti sta guardando”. La paura e la vergogna possono ammaestrare ma non fanno sbocciare un’anima. Perché accada serve fermezza e amore.

I bambini stanno bene se possono trasgredire senza rappresaglie, ed obbedire affidandosi. Se dopo aver sbagliato viene concesso loro di riparare, dando noi per primi l’esempio. Se imparano che nella vita gli errori sono inevitabili e, anche se a volte fanno male, ci insegnano più di un libro.

I bambini stanno bene se parliamo con loro e a loro, se li trattiamo per ciò che sono: bambini. Ma come minimo a volte dobbiamo abbassarci, e a volte dobbiamo sollevarli e prenderli in braccio.

Stanno bene se sentono che abbiamo una nostra vita, anche senza di loro; che sono nei nostri pensieri e non i nostri unici pensieri. Se accettiamo di essere meno importanti per loro, vuol dire che sappiamo tramontare e che abbiamo assolto bene il nostro compito: renderli liberi. Se li aiutiamo a diventare più responsabili della loro libertà; a riconoscere le conseguenze delle loro azioni: la differenza tra il bene e il male che fanno e quello che ricevono. Se non gli sbattiamo in faccia crude verità e non gli raccontiamo bugie, ma accettiamo che loro lo facciano: è il modo che hanno per differenziarsi da noi.

I bambini stanno bene se le porte hanno le chiavi e loro possono decidere di chiuderle anche solo per lasciarci fuori e la smettiamo di dirgli “cosa hai da nascondere?” perché qualunque cosa sia è loro diritto farlo; stanno bene se entriamo nella loro stanza bussando, e nella loro vita chiedendo il permesso quando serve.

Stanno bene quando gli parliamo di ciò che per noi davvero importa, della nostra vita presente e passata, di loro e della loro vita, della speranza che è futuro e progetto. Se comprendono che ogni cosa ha un suo valore, un inizio e una fine e che lo spreco è il più grande peccato. Se rispondiamo alle loro domande sul sesso, la morte e la paura ricordandoci che sono bambini, non degli idioti, né degli adulti.

I bambini stanno bene se noi genitori sappiamo ancora abbracciarci e baciarci, e se sappiamo ancora fare l’amore, perché eravamo già amanti ben prima che esistessero e non ce ne siamo dimenticati; ma se non siamo più una coppia, possiamo certamente continuare ad essere genitori che amano i loro figli, e che forse amano qualcun altro, perché le due cose possono coesistere senza confondersi.

Stanno bene se vedono i loro genitori litigare senza distruggere e distruggersi; sbagliare sapendo chiedere scusa; scambiarsi affettuosità, ridere di loro stessi, delle loro permalosità e delle reciproche intolleranze.

I bambini non sono angeli innocenti, né demoni colpevoli, ma persone  che stanno bene se si sentono amate, pensate, e considerate, e se possono crescere insieme a noi, per poi un giorno finalmente, amare qualcuno che non siamo noi, magari anche di più, e noi esserne felici.

Forse proprio questo è amore.

*di Antonio Ricci, dottore in Scienze dell’Educazione e in Psicologia clinica, fondatore della Scuola di Normodinamica – Periagogè. Ho una formazione sistemico-relazionale e normodinamica,  nel mio lavoro psicopedagogico faccio riferimento alla teoria dell’attaccamento, alla psicologia del Sè e delle relazioni oggettuali.