Per una pedagogia della tenerezza

di Antonio Ricci *

Sul fondo non turbato della memoria che ho di me,
un bambino si sveglia
 e fa singhiozzare la maschera del vecchio.
Un bambino che cerca padre e madre,
che cerca con voi aiuto e protezione;

protezione contro il suo piacere e il suo sogno,
aiuto per diventare ciò che è senza imitare nessuno.

Renè Daumal – Il  Monte Analogo

Tutti hanno bisogno di tenerezza, molti sono pronti ad abusarne, pochi sono disposti a darla. L’idea di forza tanto cara ad una maggioranza di uomini e donne parla di efficacia, attenzione vigile, potere spirituale o materiale, competenza relazionale, corpo giovane e vigoroso, austerità e disciplina, ma se quest’idea di forza esclude la tenerezza, diventa molto pericolosa. La tenerezza è un sentimento dell’uomo maturo ed esprime una qualità che chiede la rinuncia al sospetto come stile di vita e ad un’idea vittimistica di sé. Siamo tutti goffi nell’esprimerla, sconosciuta ai più e fraintesa da molti, spesso erroneamente equivocata nelle sue forme come azione dell’uomo ammansito e vile, come risultante dalla sottrazione di fermezza, definizione di sé e robustezza. Al contrario invece rivela un coraggio ancora più grande e in quanto espressione di rispetto della vulnerabilità dell’altro è difficile equivocarla o sentirsi minacciato da essa. È forte chi non teme la vulnerabilità della tenerezza stessa. Eppure, perché essa emerga, è necessario creare le giuste condizioni di protezione: bisogna riuscire a stare di fronte all’altro senza soccombere quando, spaventato, ci attacca. Bisogna saper rispondere senza paura, saper impedire che l’altro si danneggi tentando di danneggiarci, guardarlo bene in volto e a lungo, perché il tempo dell’incontro ha altri ritmi. Bisogna tentare di non sollevare lo sguardo per paura, rabbia o disgusto, piuttosto affondarlo ancora di più per andare dietro la crosta oramai indurita dal sospetto. Infine bisogna tentare di scoprire dove sia il bambino che l’altro è stato, ritrovarlo in quell’età della vita in cui ancora guardava al mondo con infinita curiosità, meraviglia e innocenza. Il volto può essere indurito, inespressivo e spento ma lo sguardo ancora no. Tutti abbiamo bisogno d’aiuto ed ogni bambino, che sia nella memoria corporea di un adulto o nella sua giusta età, ha il diritto irrecusabile di avere sostegno e protezione per diventare ciò che è senza imitare nessuno. In questo tentativo d’incontro vedo il buon combattimento di ogni pedagogia e del mondo educativo, cosa per la quale la nostra scuola ha dedicato l’intera sua ricerca e azione.

Ci vuole molto vigore per contrastare l’inerzia dell’ovvio, per frantumare la superficie della banalità; ci vuole un impeto appassionato perché qualcosa possa veramente cambiare in noi e nel mondo che abitiamo: l’incedere fiacco della rassegnazione genera sofferenza e in essa si adagia, andando verso un sonno torbido e senza rimedio. Restare svegli richiede un costante impegno e una ferma volontà. Sta sveglio chi vuole costruire, chi sente d’avere ancora qualcosa da dire e da imparare. Veglia chi ama, anche quando è esausto, come un buon genitore. Quale grande forza nella vulnerabilità. Quale grande forza nella disperazione accettata che ha frantumato illusioni di vittorie a buon mercato, siano esse materiali o spirituali, scagliandoci nelle braccia della realtà stessa. L’abbraccio della vita è pregno di tenerezza e adagiarvisi porta vigore, dona insospettabili risorse e spegne il lamento ora furioso, ora disperato, ora seduttivo e melenso di chi vorrebbe tutto senza dare mai niente. L’avidità irrisolta è alla base di molte sofferenze nonché sintomo di una pretesa di risarcimento dal mondo e dagli altri, irrisolvibile e indifferenziata.

Amo l’esortazione dello stoico Epitteto, “Spiatevi nelle vostre azioni e capirete a quale scuola appartenete”[1] e invito tutti coloro che cercano autenticità a sperimentarla. Se di fronte a se stessi è ancora possibile mentire, di fronte agli altri è inevitabile che ciò diventi uno stile di vita. “Spiatevi” diceva, perché bene conosceva la natura umana sempre incline all’autoinganno, in particolare quando deve comparare azioni e pensieri per valutarne la coerenza. Invita alla scelta. Com’è difficile operare in libertà senza diventare paladini dell’arbitrio; com’è difficile operare in coerenza quando si aspira all’anthropos teleios, l’uomo maturo e intero, senza rischiare l’ortodossia dell’uomo dell’ordine, senza schiacciare lo spirito creativo. “Spiatevi” diceva Epitteto, perché sapeva quanto fosse necessario distrarsi dall’immagine di se stessi per puntare l’occhio della coscienza sul mondo dell’azione con la dovuta spietatezza: sincerità contro inganno, intenzione contro arbitrio, responsabilità contro incoscienza, tenerezza contro violenza. Epitteto combatteva perché emergesse l’uomo autentico, l’uomo e la donna dialogici. « L’uomo dialogicoafferma Edda Ducci – non è un servo dei discorsi, sono i discorsi ad essere suoi servi. I suoi pensieri liberi da padroni indagano che cosa sia l’uomo e che cosa si convenga a siffatta natura. L’intraprendere la strada del dialogare provoca nel soggetto, man mano che vi si addentra, lo svelarsi dei bisogni grandi quasi più dell’io, bisogni ignoti, sopiti, velati o soffocati dai bisogni indotti, sovente effimeri o stagionali. Per questo l’uomo dialogico non è un uomo ammansito e spento, ma un cercante inquieto, spesso scomodo a chi gli vive accanto. […] Gli uomini vogliono essere adulati, soprattutto riguardo la loro fisionomia interiore, non amano chi li costringe a vedere la verità su loro stessi. Si vendicano sempre su chi lo fa con schiettezza e senza nulla mistificare. E questo operatore di svelamento, che non ha mai voluto imparare l’arte dell’adulazione, trascinato nei tribunali avrà la peggio, anche se a trascinare lui, nobile, sarà il più miserabile e vile degli uomini. È un rischio essere dialogici, ma è un rischio bello, perché grande è la speranza: quella di essere giusti e cooperare a che molti altri lo divengano. […] L’uomo dialogico è risanato dal solipsismo. Per l’uomo dialogare è costitutivo della persona in quanto l’uomo è uomo perché ha la parola. Vivere senza  interrogare, senza dialogare non è vivere». [2]

Una pedagogia della tenerezza richiede quindi impegno pratico e un lavoro incessante, non vuole possedere, non giudica e ignora la crudeltà, è intollerante verso la stupidità e la malvagità che sempre l’accompagna. La tenerezza non chiede appartenenze essa è il risultato di una rinuncia e di un attraversamento, è il frutto di una maturità perseguita e di uno schieramento netto con forze che edificano. Una pedagogia della tenerezza preferisce che l’altro sia piuttosto che non sia, combatte ogni giorno perché ciò accada, contrapponendosi alle forze che vorrebbero la vittoria dell’incoscienza sull’uomo pienamente risvegliato e interiormente libero. «La tenerezza è il reale – ci dice con vigore padre Maurice Bellett –  le cose e la gente, il volto del mondo, la memoria, il sogno  e il peso dei giorni.  È la tavola apparecchiata, il vino versato, i commensali, la parola tra di loro, la pace. È la luce tra gli alberi all’inizio del mattino. È il soffio profondo quando viene l’ora del sollievo e della verità. È il corpo amante, è il gradino al bordo del mare, è la serata trascorsa in casa, è il primo giorno e la centomillesima volta. È la folla e il solitario, è il lavoro, è l’angoscia stessa poiché la tenerezza salva ogni cosa. La tenerezza traboccante è l’allegria violenta di tutta la creazione. È poesia e canto, è rito e contemplazione, opere letterarie o parole di un momento. È gesti del corpo, mangiare, bere, amare e persino il dolore. La suprema tenerezza precede ogni legge. È il dono senza il quale la legge è ferocia. Il soggetto della tenerezza, nell’uomo, è l’uomo. La tenerezza è sempre singolare, è sempre qualcuno».[3]

(*)
Antonio Ricci, psicopedagogista, presidente del Centro Studi Educativi e Pedagogici Periagogè


[1] Epitteto, Diatribe.

[2] E. Ducci, Approdi dell’Umano, Anicia, da pg.137 a pg 151.

[3] M. Bellett, La Via, 2001, Ed. Servitium, Bergamo, pg. 53.