Manuale inapplicabile

Normodinamica e disabilità

Premessa

Questa ricerca nasce nel 2019 da una proposta di studio individualizzata da parte della docente Annamaria Curatola, o come ha ben definito lei, cucito per ognuno di noi all’interno del percorso di studio della sua materia: Didattica inclusiva, nel terzo anno didattico del corso di laurea in Scienze della Formazione e della Comunicazione dell’Università C.U.M.O. di Noto, (Sr).

Durante una lezione non frontale, seduti in cerchio, la docente ha aperto un dialogo chiedendoci se conoscessimo la differenza tra finalità e obiettivo, per poi introdurci proprio l’obiettivo della scuola, cioè di rendere possibile che l’allievo diventi cittadino attivo, portatore di una determinata cultura e da adulto capace di autonomia sociale e personale. Poi ci ha accompagnato verso il tema dell’identità e delle relative tre importanti domande:

Una volta create le basi su questi argomenti ci è stato chiesto ad ognuno di presentarci, prendendo in considerazione le premesse fatte fin qui. Apparentemente banale l’idea di presentarsi e invece no, queste domande toccano e parlano proprio della nostra identità, del nostro cammino, portano dentro le nostre paure, i desideri, la nostra cultura, il nostro vissuto, la nostra unicità: come dichiararla?

“Buon pomeriggio, sono Marco Brugaletta, ho 32 anni e vengo da Ragusa. Gestisco una drogheria-ristorante di mia proprietà e all’età di 30 anni dopo aver cominciato da qualche anno un percorso di crescita personale all’interno del centro studi educativi e pedagogici “Periagogè – Scuola di Normodinamica”, mi sono fortemente appassionato a questo percorso ed è quindi emerso successivamente il bisogno e il desiderio di studiare, ho così scelto di cominciare gli studi universitari. Pratico discipline corporee e molte di esse sono strumenti di pratica insegnate nella Scuola di Normodinamica come lo yoga evolutivo, la meditazione, il kendo e il judo.”

La docente, a conclusione della mia presentazione, incuriosita, mi invita a fare la mia relazione sul tema: “Normodinamica e Disabilità”. Contento e preoccupato un po’ per la complessità percepita del compito nel dover per la prima volta tentare di elaborare e astrarre la mia esperienza Normodinamica, rivedendone il processo fatto e trovare una connessione sensata al tema della disabilità.

Il tentativo è di portare l’attenzione della mia ricerca sull’essere mancanti di qualcosa, da diversi punti di vista e cause: una malattia congenita, a seguito di un’incidente o di malattie neurodegenerative e infine riguardo disabilità più profonde, che riguardano la nostra interiorità e il nostro “essere nel mondo”, apparentemente non visibili all’altro e spesso neanche a noi stessi.

Scrive  Ezio Bosso: “Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono”.

Le mie domande interne che faranno da linee guida a questo lavoro saranno:

Cosa è la Normodinamica?

Scrive Antonio Ricci, psicopedagogista e formatore di Normodinamica:

“La Normodinamica prende forma tra il 1982 e il 1998 ed è la denominazione data da Paolo Menghi, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta familiare, al suo metodo di lavoro.

Nel 1984 Menghi lascia l’Istituto di Terapia Familiare – ITF, di Roma, del quale era cofondatore, e fonda la scuola ‘Mandala – Associazione di ricerca per lo sviluppo armonico dell’individuo’, dove opererà fino al 1998, anno della sua morte. Successivamente viene fondato il Centro Studi Educativi e Pedagogici ‘Periagogè’ da Antonio Ricci, psicopedagogista, e Federica Cervini, psicologa clinica di formazione junghiana, entrambi allievi di Paolo Menghi dal 1989 e membri dello staff della scuola ‘Mandala’.

I punti principali del metodo normodinamico sono:

In questa prospettiva vengono perseguiti tre obiettivi generali:

 Nella scuola ‘Periagogè’ l’attività clinica, educativa e di ricerca è impostata su cinque campi di studio e d’esperienza:

  1. Il conflitto e la sua gestione armonica, ponendo attenzione al valore evolutivo dell’attrito e alla modulazione delle emozioni.
  2. La costruzione del Sé e le dinamiche genetico-evolutivo nello sviluppo della persona.
  3. La dimensione corporea-analogica. La comunicazione analogica, corporea e artistica quali strumenti d’integrazione dell’esperienza, di esplorazione del sé e costruzione di nuove competenze.
  4. La relazione intersoggettiva. Esplorazione delle dinamiche relazionali di coppia, genitoriali e di gruppo. Conoscenza della storia della famiglia d’origine e trigenerazionale.
  5. Il rapporto con il mondo. L’uscita dai confini e dai vincoli dei propri sistemi d’appartenenza. La convivenza e il rapporto progettante con il mondo”.  (A. Ricci, “Cos’è la Normodinamica?”,  – I Quaderni sull’arte di apprendere e d’insegnare).

Strumenti

Un valido strumento di pratica, studio e osservazione di sé è la meditazione. La pratica della meditazione permette di mettersi volontariamente in una posizione di non azione, seppur apparente, in quanto sedersi fermi immobili fin da subito è quasi impossibile, anche quando si diventa più esperti e non è questo lo scopo principale, bensì intanto osservare ciò che accade nel nostro organismo vivente, in quanto unità di corpo e di mente. Ciò che importa è il processo.

Meditando si riducono gli stimoli esterni a cui siamo sottoposti quotidianamente e le relative interferenze, gli occhi sono chiusi ma rimaniamo svegli. Il peso percepito del corpo sembra aumentare e delicatamente, accompagnato dal respiro si prova a farlo cedere, mantenendo la posizione e senza addormentarsi.

In una prima fase dell’esperienza il corpo è centrale e la mente una volta gestita questa prima fase comincia a ribellarsi, qui inizia il vero “combattimento”, o meglio, arrivati qui inizia il tentativo di integrazione e inclusione di pensieri, suoni, rumori, dolori fisici, vuoti, emozioni, ricordi, sogni.

“Meditare assume significato in un processo educativo e auto-formativo, se aiuta a collocarci nel mondo da svegli e con gli occhi aperti, se ci aiuta quindi a riconoscere e ad accettare la realtà nel mentre volgiamo lo sguardo verso ciò che c’è e non verso ciò che vorremmo ci fosse. Solo così possiamo comprenderne il significato nella nostra singolarissima esistenza, nel suo filo di senso tra tempo vissuto e tempo del mondo, tra un passato che c’interroga e condiziona, un presente che c’impegna e un futuro che c’inquieta e attrae”.  (A.Ricci – ibidem)”

In una società impaziente, produttiva, attenta al risultato e ad un’idea di perfezione assillante, una persona se non coinvolta direttamente o proprio personalmente, quando avrà tempo di chiedersi:

Credo che la meditazione, in questa direzione, possa contribuire a raggiungere uno stato di equilibrio e libertà interiore, a far sviluppare nell’individuo un livello di attenzione maggiore, aumentare la capacità di includere più variabili, di far emergere domande e mettere a fuoco questioni che toccano il cuore alla ricerca di risposte. Un corpo in equilibrio lascia la mente più libera di occuparsi di cose davvero umane.

 Analisi Relazionale Autobiografica 

“Un passato che c’interroga e condiziona, un presente che c’impegna e un futuro che c’inquieta e attrae”.

Evidenzio questa parte dell’ultima citazione di Ricci per introdurre l’esperienza da me fatta nella scuola più significativa a riguardo: Analisi Relazionale Autobiografica.

Un percorso di crescita personale di gruppo della durata di circa tre anni guidati da un insegnante di Normodinamica, nel quale viene analizzata la propria storia familiare fino alla terza generazione, con il  fine di sostenere la propria individuazione attraverso l’osservazione  e la conoscenza del proprio sistema familiare, con le sue specificità, i vincoli di lealtà, i fatti accaduti ed ereditati e le modalità relazionali.

Questa ricerca mi ha permesso di tornare in contatto con le mie radici, fare domande ai miei genitori sul loro passato, di scoprire molte cose nuove riguardo i miei nonni, i miei genitori e i nonni dei miei nonni. Dai racconti ricevuti è stato possibile ricostruire la loro storia, seppur parzialmente, consentendomi di trovare nuove connessioni e di comprendere meglio la mia di storia.

In questo percorso ho avuto modo di pormi realmente la domanda: da dove vengo?

Durante la ricerca, il mio passato ha preso una nuova forma, emergevano e si rendevano sempre più chiari i miei bisogni, i miei desideri, le mie paure, le mie caratteristiche comportamentali; emergeva anche la consapevolezza che non potevo far prescindere ogni cosa dalle mie radici.

Per circa venti anni ho desiderato genitori diversi, spesso migliori, ma soprattutto creduto che la mia immagine non avesse niente a che vedere con la loro e con quella della mia famiglia allargata, con questo lavoro ho dovuto fare i conti con una realtà meno ideale sempre più evidente, che mi ha costretto pian piano a riguardarmi e chiedermi: chi sono?

Il percorso di A.R.A. è durato circa tre anni e si è concluso con la presentazione all’interno del gruppo della mia storia familiare, riportando foto, interviste, documenti e i fatti più significativi. Ognuno dei partecipanti ha avuto questa opportunità, quindi l’occasione di entrare in rapporto intimo con vissuti non propri; di imparare ad ascoltare la storia di altri facendo spazio dentro di sé ad un’altra vita, con tutto ciò che in sé trasporta.

Ricordo bene il giorno della presentazione della mia storia familiare: al termine, dopo aver salutato i miei compagni, sono salito in auto, avvertendo un chiaro senso di smarrimento, con una difficoltà ad andare da qualunque parte, e per la prima volta dal profondo mi sono chiesto: dove vado?

Durante questi anni in parallelo e in connessione al mio percorso nella scuola ho fatto, e ancora faccio, colloqui psicopedagogici.

Per me rappresentano un momento di confronto e riflessione, dove posso permettermi di andare più in profondità, da solo e insieme al consulente, per mettere una lente di ingrandimento e osservare quello che c’è e preme per essere risolto.

Durante uno di questi incontri sono riuscito a andare a fondo rispetto ad un mio malessere emotivo che spesso emerge in specifiche situazioni relazionali, e come questo spesso si colleghi ad un senso di impotenza che emerge di fronte alla mia incapacità di cambiare tale stato di cose, pur conoscendole bene: un malessere nel malessere causato dall’insopportabile evidenza di un limite, che avrei voluto non ci fosse, limite forse insuperabile.

Dopo avermi ascoltato, il consulente mi ha così risposto: “Forse ti stai scontrando davvero con un limite insuperabile e, se fosse così, segnalerebbe un handicap che andrebbe compreso e accolto; un handicap che, in quanto tale, ti costringerebbe ad una resa. Prova perciò a scoprire se ciò è vero e qual è quindi la natura di questo tuo handicap”.

Non è stato subito chiaro e non sono uscito da quella stanza con una risposta, ma con una domanda: se ho sempre pensato di essere normale e creduto che handicap e disabilità non potessero riguardarmi, cosa voleva dire, allora, quell’affermazione?

Da quel momento, impregnato di quelle parole, ho cominciato ad ascoltarmi e osservarmi, alla ricerca del mio handicap. Ho iniziato ad esplorare ed esplorarmi in ogni ambito della mia vita, aiutato anche dall’esperienza dei vari contesti d’apprendimento della Scuola di Normodinamica. Ho avuto quindi modo di osservarmi in rapporto con gli altri sia mediante l’uso della parola, sia attraverso momenti di azione pratica e di elaborazione dell’esperienza; in queste occasioni ho potuto fare delle fotografie di me nel qui e ora insieme ad altre persone, altrettanto impegnate nella stessa direzione di ricerca. Inevitabile poi continuare l’esplorazione nel mio quotidiano, dalle relazioni più intime a quelle professionali o legate al contesto sociale.

“Apprendere dall’esperienza vuole dire dare un senso personale a ciò che ci capita e a ciò che facciamo, cogliendone il significato interiore, traendone indicazione per se stessi, per le proprie relazioni e su come si preferisce vivere. Non basta fare per cambiare, e soprattutto c’è bisogno dell’aiuto qualificato di qualcuno per comprendere. Questo è il valore del nostro lavoro educativo: dare significato alla propria esperienza interiore e relazionale, per generare etica e conoscenza”. (A. Ricci Ibidem).

Sto comprendendo, e procedo ancora con molta attenzione, che la mia disabilità ha che fare con qualcosa di molto antico, e per molti aspetti “danneggiato”, che riguarda la natura profonda del legame; ho capito che cosa mi provoca dolore, rabbia, senso di mancanza: c’è un vuoto fondamentale e invisibile nel mio vissuto.

Come posso pensare di cambiare qualcosa che non ho?

Come posso convivere con la mia disabilità senza nasconderla, rifiutarla, peggiorarla?

Cosa è normale e cosa no?

Chi sono io quindi?

La storia di Alex Zanardi

Vorrei adesso raccontare la storia vera di un uomo con disabilità a seguito di un incidente sportivo, sperando di non cadere nell’equivoco che questa storia sia l’unica via per tutti ma cercando di argomentarla ed evidenziare alcuni fattori utili per continuare il nostro discorso fatto fin qui.

Nasce a Bologna il 23 ottobre 1966, sviluppa fin da bambino la passione per i motori, nonostante l’opposizione della famiglia che in quegli stessi anni aveva perso la figlia maggiore in un incidente stradale.

Dopo una carriera di successo nel mondo delle auto da corsa, Zanardi perde entrambe le gambe in gara con un incidente. L’impatto è violentissimo, la vettura dell’avversario colpisce la sua vettura spezzando in due l’auto. Raggiunto dai soccorsi, Zanardi appare subito in condizioni disperate. Lo schianto ha provocato l’istantanea amputazione di entrambi gli arti inferiori, rischiando di farlo morire dissanguato. Viene caricato sull’elicottero e condotto in ospedale, rimane in coma farmacologico per circa tre giorni.

Afferma Zanardi: “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”.

Il 2001 anno del cambiamento, a volte il caso segna la vita. Per Zanardi questo accade con l’incontro di Vittorio Podestà, un campione paralimpico, adesso compagno di Nazionale e medaglie. Senza quell’incontro chissà se mai sarebbe salito su un’handbike. L’amicizia nacque in autogrill, ma l’inizio non fu di quelli facili. Vittorio arrabbiato per l’auto di Zanardi parcheggiata nel posto disabili prima di accorgersi fosse lui, nel frattempo Zanardi adocchiava una cosa che non aveva mai visto, l’handbike di Vittorio Podestà. Ne compra subito una e da lì sono cominciate nottate in garage a migliorare quel mezzo, maratone e gare mondiali, Paralimpiadi e allenamenti fra le terre del Veneto e le colline toscane. Fino a diventare Ironman nella più bella e impegnativa delle sfide del triathlon, fra terra, vento e acqua delle Hawaii.

Quello che contraddistingue Alex Zanardi è la curiosità. Dice proprio lui: vale per ogni obiettivo, sogno, tentativo. Mi ha fatto scorgere un’opportunità in ciò che mi stava capitando. Bisogna saper cogliere l’attimo. Avere il coraggio di provare, anche se gli altri lo reputano impossibile. Bisogna chiedersi a cosa teniamo, cosa vogliamo, cosa amiamo fare. Quando si va oltre il mezzo secolo molto sembra precluso. Non per me: sono come un buon vino rosso, miglioro invecchiando”.

Altro valore importante per Zanardi è il limite. Sa quel che può fare e come. Dice Zanardi: Sport viene spesso confuso con prestazione. I limiti sono decisi da altri. Ma ognuno deve capire i suoi. Ora la mia nuova sfida è far crescere nuovi atleti, aiutare promesse paralimpiche a sbocciare e guardare ai Giochi sognati.

Nella mia esperienza vedo il limite come opportunità di toccare i nostri confini nello spazio, preferirei definire questo spazio luogo della coscienza inteso come campo di esperienza che integra e include l’esterno e l’interno. Una volta arrivati qui sarà inevitabile o comunque possibile contattare le nostre parti mancanti ma se è vero che può essere un brutto momento è vero anche il contrario, perché qui l’opportunità sarà di sentirsi per una volta interi, non importa se grandi o piccoli: interi. Come Zanardi sarà nostra premura costruire la nostra bicicletta per scegliere, al lamento, di cominciare a pedalare: vivere la vita.

Almeno così è stato per me.

“L’obiettivo è l’interezza, afferma Ricci, e per questo scopo non basta una vita; l’obiettivo è la costruzione di un più ampio margine di libertà sia interiore, sia d’azione, non l’adesione acritica ad un modello esterno ‘migliore’, che sia motorio o ideologico. Non un nuovo pensiero, direbbero i dialogisti, ma un nuovo pensare. Non una nuova azione ma un nuovo agire”.

 Condivisione della ricerca

A cosa serve lavorare a qualcosa se non lo condividi nel tuo ambiente sociale? Soprattutto se si parla di disabilità e inclusione la prima cosa da fare, credo, sia coinvolgere anche chi non ne è direttamente coinvolto, far sì che l’argomento diventi un fatto di responsabilità sociale, proprio per estenderlo in tutte le attività dell’uomo.

Così ho pensato di somministrare un questionario ai miei compagni della scuola “Periagogè”, per condividere con loro la mia ricerca e portare le mie domande nelle loro vite.

Grazie a questo ho avuto modo di raccogliere dati concreti ed esperienze personali, tra queste ne citerò alcune.

LE INTERVISTE

Prima intervista 

B. è una mia compagna di corso,  svolge mansioni amministrative come impiegata in una azienda, e dalla nascita è priva della vista da un occhio.

La differenza che ho subito notato parlando con lei è stata quella che poter conversare del suo problema appoggiati alle domande, quindi a un desiderio reciproco di ricerca, ci ha permesso di rendere la questione più oggettiva e meno personale, riuscendo lei a prendere distanza e acquisirne più consapevolezza. Ha affermato che da quando ha cominciato a frequentare la scuola “Periagogè” ha iniziato a sentire la curiosità e il desiderio e si è chiesta: chissà come sarà vedere come gli altri? Quindi diciamo che nonostante per lei sia normale vedere con un occhio, all’emergere del desiderio ne ha sentito una mancanza. Continuando a chiacchierare ci siamo trovati ad andare più vicini alla questione del suo vissuto e mi ha raccontato cosa le accade nel momento in cui qualcuno si accorge della diversità dei suoi occhi e glielo chiede: lei prova disagio e diventa più vulnerabile. Nonostante la normalità per lei di vivere la vita con i suoi occhi così come sono, nel momento in cui entra in relazione con l’ambiente sociale sente di essere mancante di qualcosa e quindi di dover nascondere ed evitare che qualcuno se ne possa accorgere. B. in questi anni ha concretamente lavorato per tenere insieme un piano di azione concreta, che procedesse in coerenza con ciò che nel frattempo andava realizzando nel suo processo individuativo: è andata a vivere da sola, ha comprato una casa ed ha anche conseguito il grado di cintura nera di Iaidō, un’arte marziale giapponese molto complessa.

Quest’ultimo punto lo cito anche per precisare che B. non riscontra alcun limite motorio nella sua pratica marziale, anzi sostiene di aver sviluppato nel tempo un’ampiezza di sguardo superiore e movimenti rapidi a supporto delle sue necessità, ma che certamente ha avuto bisogno nel suo percorso di sostenere il disagio che spesso emergeva, e tutt’ora emerge, nel rapporto sociale. Questo supporto lo ha trovato nel percorso normodinamico, nella cura costante della dimensione d’azione e corporea mai separata dal rapporto con strati più profondi del vissuto emotivo e mentale, potendo così scoprire risorse insospettabili a partire dalla accettazione del suo handicap.

Seconda intervista

“Come, nella tua esperienza, la Normodinamica può contribuire ad uno sviluppo sociale inclusivo?”

Risponde M, ingegnere informatico, compagno di corso.

“Attraverso lo sforzo di accettare il dolore come parte del proprio percorso. Il tema dello ‘sviluppo armonico dell’individuo’: il fatto di porre l’attenzione sulle potenzialità e sui passaggi fatti nel proprio personale processo, relativi quindi al punto di partenza, più che ai risultati assoluti. L’importanza dell’apertura alla diversità”.

Quindi la misura del proprio processo d’individuazione viene definita in funzione del reale punto di partenza di ognuno in rapporto con il proprio “fin qui” e non rispetto ad un ideale migliore di “persona”, “salute” e “benessere”. Ognuno è misura di se stesso. Questo è inclusivo.

Terza intervista

“Cosa è per te la disabilità?”.

Risponde C., insegnante di Normodinamica, arteterapeuta.

“Ci sono infinite forme di disabilità… fisica, mentale, psichica… con un enorme peso che include tutto un mondo intorno. La disabilità è una difficoltà acquisita o congenita nel compiere alcune azioni come camminare, mangiare da solo, parlare, ricordare il proprio nome ecc. Sono disagi che possono compromettere la vita dal punto di vista affettivo e lavorativo, causando solitudine e a volte disperazione per la mancanza di una via d’uscita. Ma considero la disabilità come una situazione ‘normale’ che può capitare a tutti nel corso dell’esistenza. Non esistono regole standard né situazione identiche. Si possono sempre acquisire nuove abilità. Si può comunque stare meglio in qualsiasi momento della vita.

La disabilità necessita soprattutto di relazioni significative. Sono allergica a locuzioni stereotipate, affermazioni pietistiche, luoghi comuni, generalizzazioni e banalizzazioni di routine. Ho dei vissuti che mi fanno allargare il cuore perché sono un concentrato di umanità. Il Signor A. saluta in sedia rotella, a causa di un grave incidente, per tornare a casa dopo mesi di ospedale. Insieme ci siamo confrontati sul senso della vita, sulla malattia e sulla salute, su destino o fatalità, sul dolore fisico e psichico, mesi impegnativi e difficili emotivamente pieni di rabbia, paura e tristezza. Lo guardo, agito la mano, gli altri del gruppo rispondono, il suo viso si illumina, sorride sussultando per lo scoppio improvviso di felicità. Basta sempre cosi poco di quel tanto ed infinito amore che tutto lega, dilata, scioglie. Inevitabilmente mi chiedo…ma doveva comunque andare cosi?”.

Quello che emerge da queste parole è che la disabilità seppur riguarda nello specifico un individuo, il suo destino dipenderà molto dalla sua storia personale, dall’ambiente in cui è cresciuto e quindi dalla famiglia, gli amici, dalla scuola, gli educatori, ma aggiungerei dal Comune di appartenenza se sensibile per esempio alle barriere architettoniche e alla diffusione di azioni etiche e culturali a riguardo, ma la cosa speciale saranno gli incontri che questa persona farà nel suo cammino.

Quarta intervista

“Cosa è per te la disabilità”.

Risponde R., psicologa, collega di corso:

“Per me la disabilità è un impedimento nel fare qualcosa che nel potenziale fisico, cognitivo ed emotivo dell’essere umano sarebbe possibile fare. E il cui impedimento non è reversibile. Esistono secondo me due prospettive da cui osservare la disabilità, una sociale, ciò che gli altri si aspettano che io possa fare, ed una soggettiva, ciò che io voglio fare. Potrei sentirmi ‘disabile’ rispetto a qualcosa che io vorrei fare ma non riesco e non potrò mai ma questo potrebbe non essere rilevante per la dimensione sociale. E viceversa”.

In questa risposta trovo interessante l’attenzione relativa al potenziale fisico, cognitivo ed emotivo e la disabilità nelle sue diverse nature mette in discussione proprio il sistema di queste tre sfere non fermandosi ad una ricaduta sul soggetto portatore della disabilità ma in un evitabile connessione con l’ambiente sociale. L’ambiente a sua volta avrà una determinante responsabilità positiva e negativa nella condizione fisica, cognitiva ed emotiva del soggetto e, dice bene R., anche viceversa.

Alla domanda “come, nella tua esperienza, la Normodinamica può contribuire ad uno sviluppo sociale inclusivo?” R. ha risposto:

“la Normodinamica nella mia esperienza ha l’obiettivo di sviluppare all’interno delle relazioni una capacità di essere presenti all’altro riconoscendo l’altro e avendo cura della relazione con l’altro. Dunque se per inclusione intendiamo questo, allora la normodinamica è inclusiva per definizione e può contribuire allo sviluppo di una dimensione sociale dell’essere umano come scelta e non come necessità. Una dimensione sociale che non può prescindere da una dimensione etica. Tuttavia inclusivo in termini normodinamici nella mia esperienza non vuol dire che non esistano differenze, esse vanno anzi ben riconosciute. Ma non vengono strumentalizzate o fatte diventare attributo distinto dalla persona che ne è portatrice”.

Qui emerge il valore delle differenze e della capacità di riconoscerle, imparare ad essere realmente presenti all’altro nella relazione avendone cura. Certo è che in condizioni speciali, quindi in presenza di maggiore difficoltà, questo risulterà più complesso ma possiamo pensare e pretendere da adulti di avere una vita facile, incapace di accogliere complessità?

Conclusioni

Finché l’architetto penserà che il tema della disabilità è lavoro in più da caricarsi sulle spalle per la realizzazione di una struttura, o solo un adeguamento normativo, invece che usare la propria professione nella sua creatività proprio per creare condizioni inclusive e generare un flusso sociale inclusivo, per esempio a proposito dell’Universal Design. Questo termine è stato introdotto nel 1985 dall’architetto americano Ronald L. Mace della North Carolina State University.

Mace, affetto fin da piccolo da poliomielite, si è interessato per tutta la vita ai temi della progettazione accessibile e così definì l’Universal Design: “Universal design is the design of products and environments to be usable by all people, to the greatest extent possible, without the need for adaptation or specialized design“.

Finché l’azienda di trasporti non si porrà il problema di favorire lo spostamento a persone disabili come mi è capitato di vedere in Svezia che gli autobus alle fermate si abbassano a livello del marciapiede per permettere ad anziani, o persone con passeggini o in carrozzina di poter uscire di casa. Si uscire di casa da soli, questo dovrebbe essere normale.

Finché avremo bisogno di evitare le differenze, annientarle e occuparci dei problemi solo se ci riguardano o se obbligati, in questo senso possiamo proprio dire “abbiamo fallito”, soprattutto sprecato la grande occasione, unica, di essere umani.

Bibliografia